FATTO e DIRITTO
1. L’Associazione Culturale Madni ha impugnato la determinazione del Responsabile del Servizio lavori pubblici, territorio e ambiente del Comune di Castano Primo con la quale è stato annullato il permesso di costruire n. 17/2015, rilasciato alla stessa Associazione il 15 gennaio 2016.
Ha, inoltre, censurato il rapporto della Polizia locale di Castano Primo del 9 novembre 2016, richiamato nel provvedimento di annullamento.
2. L’Associazione ricorrente è diretta, in base all’atto costitutivo e dallo statuto, a perseguire i seguenti scopi:
“a) mantenere e valorizzare le tradizioni culturali e religiose dei Paesi d’origine dei Musulmani residenti nel territorio del Castanese, rafforzare il legame di fratellanza umana con i cittadini locali attraverso lo scambio culturale, la collaborazione sociale, la vicinanza civile all’interno di un quadro di rispetto e di integrazione, in accordo con i valori della Repubblica Italiana e nel pieno rispetto delle leggi e dei regolamenti vigenti.
b) far rivivere gli insegnamenti del Profeta (Sunna) e la Rivelazione Divina (Corano).
c) promuovere una condotta morale che porti alla pratica del bene.
d) organizzare e facilitare viaggi di studio e di pellegrinaggio (Mecca-Medina).
e) organizzare e facilitare le procedure di sepoltura dei Musulmani anche presso il paese d’origine.
f) organizzare corsi e manifestazioni o eventi per la promozione della cultura musulmana e le lingue e tradizioni del paese di origine degli associati”.
Secondo quanto risulta agli atti del giudizio, con istanza depositata il 9 gennaio 2013, l’Associazione ha chiesto al Comune di Castano Primo un “Parere preventivo all’esercizio dell’attività di culto” presso gli “immobili siti in Castano Primo, Via Friuli n. 1”. Nell’istanza si evidenziava, tra l’altro, che il complesso immobiliare era costituito “da n. 2 fabbricati a uso residenziale, n. 2 fabbricati a uso deposito, n. 1 fabbricato a uso autorimessa oltre ad area di pertinenza” e che tale complesso – che in caso di parere positivo sarebbe stato ristrutturato – ricadeva in zona urbanistica B 3.1 “residenziale di completamento edilizio del tessuto urbano consolidato”.
L’istanza è stata riscontrata dal Comune con la nota del 22 marzo 2013, con la quale è stato reso parere favorevole all’utilizzazione richiesta dall’Associazione, in considerazione della localizzazione degli immobili nella zona urbanistica B 3.1 “dove la destinazione principale è quella residenziale e le attrezzature culturali, che rientrano nella fattispecie dei “servizi alla persona” compatibili con la residenza, sono quindi ammissibili”. Il Comune precisava, inoltre, che “Per poter utilizzare in tal senso gli immobili prescelti, è necessario pertanto inoltrare richiesta di idoneo titolo abilitativo tendente al mutamento della destinazione d’uso, adottando tutte le specifiche prescrizioni impartite dalla normativa vigente. Nella redazione dell’istanza, dovrà essere posta particolare attenzione al reperimento dei Posti Auto interni al lotto, nelle quantità previste all’art. 12 della N.T.A. del Piano delle Regole, inerenti la nuova destinazione d’uso (servizi alla persona). Dovranno essere inoltre computati e successivamente versati i contributi relativi agli Oneri di Urbanizzazione dovuti in relazione alla trasformazione dell’uso da “residenziale” a “servizi alla persona compatibili”, secondo le vigenti tariffe”.
Stante il parere preventivo favorevole del Comune, l’Associazione ha quindi dato corso, il 28 ottobre 2013, all’acquisto del complesso immobiliare di Via Friuli n. 1.
L’Associazione ha poi ottenuto, il 24 luglio 2015, l’autorizzazione paesaggistica “per la realizzazione di ampliamento edificio esistente con cambio di destinazione d’uso da residenza a servizio alla persona”, e ha quindi domandato, il 20 agosto 2015, il permesso di costruire, che è stato effettivamente rilasciato il 15 gennaio 2016.
A ciò è seguita, il 5 luglio 2016, la presentazione della comunicazione di inizio dei lavori.
E’ poi avvenuto che il Comune ha manifestato dubbi all’Associazione in ordine all’effettiva possibilità di destinare il complesso immobiliare di Via Friuli n. 1 all’esercizio del culto. Si sono, quindi, tenuti una serie di incontri con i rappresentanti dell’Associazione, la quale ha stabilito spontaneamente, in questa fase, di sospendere i lavori dal 13 ottobre 2016, dandone comunicazione all’Amministrazione.
Gli approfondimenti svolti hanno, infine, condotto il Comune all’adozione del provvedimento del 13 marzo 2017, impugnato nel presente giudizio, con il quale è stato disposto l’annullamento d’ufficio del permesso di costruire n. 17/2015 del 15 gennaio 2016.
3. Le motivazioni della determinazione assunta dall’Amministrazione, illustrate nel corpo dell’atto, evidenziano, in particolare, che:
– il Comune ha appurato che l’intervento edilizio è preordinato alla realizzazione di un’attrezzatura religiosa, ai sensi dell’articolo 71 della legge regionale 11 marzo 2005, n. 12, come si evince: dalle finalità dell’Associazione Culturale Madni; dagli elementi architettonici, quali la nicchia orientata a Sud-Est (ossia in direzione della Mecca); dalla distribuzione interna dei locali, che sono formati da una sala principale al piano terra e da un blocco di servizi igienici al piano interrato, questi ultimi servizi chiaramente preordinati alle pratiche propedeutiche alle funzioni religiose del rito musulmano (si tratterebbe, in altri termini, delle vasche per le abluzioni rituali); dalle stesse dichiarazioni rese dall’Associazione nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, dalle quali risulta chiaramente la volontà di attuare la destinazione a luogo di culto;
– la realizzazione di un tale intervento edilizio, diretto allo svolgimento non occasionale anche di attività di culto, ricade nella categoria urbanistica prevista dall’articolo 71, comma 1, lett. b) e c-bis) della legge regionale n. 12 del 2005; categoria per la cui attuazione è richiesta la preventiva approvazione del Piano delle attrezzature religiose di cui all’articolo 72, comma 1, della medesima legge regionale;
– allo stato, il Comune di Castano Primo non è dotato di tale Piano, per cui il permesso di costruire è stato rilasciato “in assenza di un iter procedurale atto a garantire la trasparenza degli atti assunti attraverso meccanismi di partecipazione e consultazione della cittadinanza”;
– “la situazione viabilistica dell’area di cui sopra, come emerge nel rapporto della Polizia locale del 9 novembre 2016, n. prot. 2269, non è idonea, né allo stato e neppure anche con le misure indicate nel rapporto stesso, a sopportare il carico di traffico e di posteggio indotto dall’affluenza di persone in relazione alla pratica del culto”;
– l’annullamento del titolo edilizio “non risponde ad un mero ripristino della legalità formale violata, bensì a ud un concreto interesse pubblico diretto ad impedire l’esercizio di un’attività di culto, per sua natura aperta ad un numero indeterminato di destinatari, in un’area inidonea per le sue ridotte dimensioni, inserita in una zona altamente residenziale, inadatta per le condizioni viabilistiche di contorno e per la carenza di parcheggio”;
– i lavori sono stati sospesi dall’Associazione e “anche per tale ragione non può dirsi consolidato alcun affidamento in favore dell’Associazione Madni, consapevole dei profili di illegittimità del permesso di costruire esposti nel corso di incontri con i rappresentanti dell’Amministrazione comunale”.
4. Nel censurare il provvedimento comunale, la ricorrente ha allegato i seguenti motivi:
I) violazione dell’articolo 72, comma 8, della legge regionale n. 12 del 2005 e dell’articolo 11 delle disposizioni sulla legge in generale, nonché eccesso di potere per travisamento dei fatti e difetto di istruttoria e di motivazione; ciò in quanto il complesso immobiliare della ricorrente rientrerebbe tra le “attrezzature religiose esistenti” al 6 febbraio 2015, ossia alla data in cui è entrata in vigore la legge regionale 3 febbraio 2015, n. 2, che ha modificato la legge regionale n. 12 del 2005, introducendo il Piano delle attrezzature religiose; conseguentemente, la realizzazione dell’intervento oggetto del permesso di costruire non sarebbe subordinato all’approvazione dell’apposito Piano, ma beneficerebbe dell’esenzione dalla nuova disciplina, secondo quanto ora disposto dall’articolo 72, comma 8, della legge regionale n. 12 del 2005; in particolare, la natura di attrezzatura religiosa esistente deriverebbe dal fatto che l’Associazione Culturale Madni sarebbe presente sul territorio di Castano Primo sin dal 2007 e avrebbe trasferito la propria sede nel complesso di Via Friuli n. 1 dal 28 ottobre 2013;
II) violazione degli articoli 6, 12 e 27 delle Norme Tecniche di Attuazione (NTA) del Piano delle Regole del Piano di Governo (PGT) ed eccesso di potere, perché il permesso di costruire rilasciato in favore della ricorrente rispetterebbe integralmente, in realtà, le previsioni dello strumento urbanistico; ciò in quanto, in base all’articolo 10, comma 3, lett. f), della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005, il Piano delle Regole stabilisce, per gli ambiti del tessuto urbano consolidato, le destinazioni d’uso non ammissibili, con la conseguenza che dovrebbero reputarsi consentite tutte le destinazioni d’uso non espressamente escluse; nel caso oggetto del presente giudizio, la destinazione “servizi alla persona” rientrerebbe tra quelle non vietate nella zona B 3.1, ove ricade il complesso immobiliare di proprietà dell’Associazione; inoltre, in base all’articolo 6 delle NTA, il cambio di destinazione d’uso per l’insediamento di tali servizi non comporterebbe neppure un fabbisogno aggiuntivo di servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico, mentre la dotazione di posti auto pertinenziali sarebbe stata assicurata in misura persino sovrabbondante rispetto a quanto richiesto dall’articolo 12 delle stesse NTA per la predetta destinazione “servizi alla persona”;
III) violazione del Piano dei Servizi del PGT ed eccesso di potere, perché sarebbe del tutto apodittica l’affermazione, contenuta nel provvedimento impugnato, secondo la quale dal rapporto della Polizia locale si evincerebbe un aggravio del traffico non sostenibile; nello stesso rapporto si suggerirebbe anche di incrementare la dotazione di parcheggi pubblici, ma il suggerimento non troverebbe alcun riscontro nelle previsioni dello strumento urbanistico, le quali consentono l’insediamento di “servizi alla persona”, senza necessità di incrementare la dotazione di tali servizi; in ogni caso, il complesso immobiliare sarebbe situato in un contesto periferico, a bassa densità abitativa, e senza criticità viabilistiche, tanto che lo stesso Comandante della Polizia locale avrebbe ammesso che il disagio causato dalle auto in sosta su entrambi i lati della strada, già valutato in passato, potrebbe essere superato con un’ordinanza di regolazione della sosta; il giudizio espresso dall’Amministrazione sulla situazione viabilistica dell’area non sarebbe, perciò, coerente con lo stato reale dei luoghi;
IV) difetto di motivazione, violazione dei principi di proporzionalità e di non aggravamento, nonché contraddittorietà manifesta; ciò in quanto la legge regionale dovrebbe essere interpretata nel senso che la previa approvazione del Piano delle attrezzature religiose dovrebbe essere richiesta soltanto per la realizzazione di strutture di grandi dimensioni, ma non anche per quelle di modesta entità, quale quella oggetto del permesso di costruire rilasciato in favore della ricorrente; il provvedimento di annullamento del permesso di costruire, subordinando la realizzazione della destinazione richiesta al Piano delle attrezzature religiose, si porrebbe in contraddizione con le determinazioni precedentemente assunte dal Comune, con il principio costituzionale di buon andamento dell’amministrazione e con il divieto di aggravamento del procedimento amministrativo; peraltro, la ricorrente avrebbe anche inutilmente rappresentato al Comune la propria disponibilità a incrementare le aree da destinare a parcheggio all’interno del lotto di proprietà; il provvedimento di annullamento sarebbe, perciò, immotivato, irragionevole e sproporzionato rispetto all’interesse pubblico al ripristino della legalità violata;
V) incostituzionalità dell’articolo 72, comma 5, della legge regionale n. 12 del 2005 e contrasto della disposizione regionale con la normativa europea; ciò in quanto il predetto comma 5, come sostituito dall’articolo 1 della legge regionale n. 2 del 2015, stabilirebbe la mera facoltà discrezionale dei Comuni, e non l’obbligo, di prevedere la realizzazione di edifici di culto attraverso l’apposito Piano delle attrezzature religiose; risulterebbero, quindi, violati gli articoli 2, 3, 8, 19, 20 e 117 della Costituzione, nonché con l’articolo 118, primo comma, della Costituzione; sarebbe violata anche la direttiva 2000/43/CE del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone, indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, comprendendo tra le libertà fondamentali il diritto alla libertà di associazione e il diritto all’accesso ai beni e ai servizi: in quest’ultimo ambito rientrerebbe l’edilizia religiosa, in quanto preordinata alla fornitura di un servizio;
VI) violazione dell’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990, eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, nonché violazione dei principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa; ciò in quanto la motivazione del provvedimento di autotutela non evidenzierebbe il compimento di un apprezzamento in concreto dell’interesse pubblico alla rimozione del titolo; in sostanza, l’Amministrazione avrebbe manifestato la mera intenzione di ripristinare la legalità violata, senza tenere conto della situazione di fatto (destinazione dei servizi dell’Associazione a una ristretta platea, costituita dalle circa sessanta famiglie iscritte, le quali non frequenterebbero la sede contemporaneamente; contesto territoriale caratterizzato da una bassa densità abitativa, da adeguata viabilità e dalla presenza di parcheggi pubblici in parte inutilizzati); sarebbe stato ingiustamente leso anche l’affidamento ingenerato nell’Associazione, la quale, confidando nel parere preventivo positivo del Comune, avrebbe acquistato l’area, richiesto il titolo edilizio e dato avvio ai lavori;
VII) violazione, sotto altro profilo, dell’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990 e del principio di buon andamento dell’azione amministrativa, perché – tenuto conto del modo in cui si è snodata la complessa vicenda amministrativa, a partire dal parere preliminare richiesto al Comune – l’annullamento del titolo edilizio sarebbe avvenuto oltre il termine ragionevole;
VIII) ancora violazione dell’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990, eccesso di potere per difetto di istruttoria e carenza di motivazione e violazione dei principi di cui all’articolo 97 della Costituzione, perché l’Amministrazione avrebbe dovuto ponderare l’interesse pubblico alla luce dell’interesse del privato, il quale, nel caso di specie, includerebbe non solo lo ius aedificandi, ma anche il complesso delle tutele apprestate dall’articolo 19 della Costituzione alla libertà di religione;
IX) difetto di motivazione e violazione dei principi di proporzionalità e di non aggravamento, in quanto, nell’ambito del complesso immobiliare di proprietà dell’Associazione, il corpo di fabbrica confinante con Via Friuli avrebbe mantenuto la destinazione residenziale: circostanza, questa, che avrebbe imposto all’Amministrazione di procedere, al più, a un annullamento solo parziale del titolo edilizio.
5. Si è costituito il Comune di Castano Primo, insistendo per il rigetto del ricorso.
6. In esito alla camera di consiglio fissata per la trattazione cautelare della causa, la Sezione ha emesso l’ordinanza n. 780 del 20 giugno 2017, con la quale ha disposto la fissazione dell’udienza pubblica, ritenendo che il ricorso ponesse questioni di particolare complessità, da vagliare in sede di merito, anche in considerazione della possibilità di ravvisare profili di dubbio sulla compatibilità costituzionale delle previsioni dell’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, laddove dall’applicazione delle relative disposizioni deriva il divieto incondizionato di aprire nuovi luoghi di culto in assenza dell’apposito Piano delle attrezzature religiose approvato dal Comune.
7. All’udienza pubblica fissata la causa è stata, infine, trattenuta in decisione.
8. Il Collegio anticipa sin d’ora di ritenere che tutti i motivi di ricorso siano infondati, a eccezione del quinto, la cui soluzione impone di sollevare innanzi alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 72, commi 1 e 2, della legge regionale 11 marzo 2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 1, lett. c), della legge regionale 3 febbraio 2015, n. 2, sotto i profili e per le ragioni che si illustreranno più oltre.
9. La trattazione del ricorso richiede, peraltro, una breve premessa ricostruttiva della cornice normativa entro la quale si inquadra la presente controversia.
9.1 La legge regionale della Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (“Legge per il governo del territorio”) reca, nella Parte II (“Gestione del territorio”), un Titolo IV dedicato alle “Attività edilizie specifiche”. Nell’ambito di questo Titolo, il Capo III – composto dagli articoli 70-73 della legge – detta “Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi”.
Le previsioni contenute nel suddetto Capo stabiliscono, anzitutto, che le “attrezzature di interesse comune per servizi religiosi”, come definite all’articolo 71, comma 1, della legge regionale, “costituiscono opere di urbanizzazione secondaria ad ogni effetto” (così il comma 2 dello stesso articolo 71, tuttora vigente).
Quanto alla localizzazione sul territorio di tali attrezzature, l’articolo 71, comma 1, stabiliva, nel suo tenore originario, prima delle modifiche apportate dalla legge regionale 3 febbraio 2015, n. 2, che il Piano dei Servizi – che è uno degli atti di cui si compone il Piano di Governo del Territorio – dovesse specificamente individuare, dimensionare e disciplinare “le aree che accolgono attrezzature religiose, o che sono destinate alle attrezzature stesse”, e ciò “sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70”.
Tali ultimi soggetti erano individuabili, in particolare, negli “enti istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica” (articolo 70, comma 1) e negli “enti delle altre confessioni religiose come tali qualificate in base a criteri desumibili dall’ordinamento ed aventi una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del comune (…), ed i cui statuti esprimano il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e previa stipulazione di convenzione tra il comune e le confessioni interessate” (articolo 70, comma 2).
Era, inoltre, stabilito che, indipendentemente dalla dotazione di attrezzature religiose esistenti, “nelle aree in cui siano previsti nuovi insediamenti residenziali, il piano dei servizi, e relative varianti, assicura nuove aree per attrezzature religiose, tenendo conto delle esigenze rappresentate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70” (articolo 72, comma 2).
Apposite previsioni erano pure dettate per la realizzazione di attrezzature religiose di interesse sovracomunale (articolo 71, comma 3).
Quanto alla ripartizione delle attrezzature tra gli enti interessati, questa doveva essere operata “in base alla consistenza ed incidenza sociale delle rispettive confessioni” (articolo 71, comma 4).
Era, inoltre, stabilito che, fino all’approvazione del Piano dei Servizi, la realizzazione di nuove attrezzature per i servizi religiosi fosse “ammessa unicamente su aree classificate a standard nei vigenti strumenti urbanistici generali e specificamente destinate ad attrezzature per interesse comune” (così il comma 4-bis dell’articolo 71, introdotto dall’articolo 1, comma 1, lett. hhh), della legge regionale 14 marzo 2008, n. 4).
Infine, l’articolo 73 dettava (e detta tuttora) disposizioni relative alle modalità di finanziamento della realizzazione di attrezzature religiose da parte di ciascun comune.
9.2 La suddetta disciplina ha subito incisive modifiche a seguito dell’entrata in vigore della legge regionale 3 febbraio 2015, n. 2; modifiche che – si anticipa sin d’ora – sono state in parte colpite da una dichiarazione di incostituzionalità, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 63 del 2016.
9.2.1 La nuova legge ha, anzitutto, innovato in modo significativo la disciplina dettata dall’articolo 70, in tema di individuazione degli enti delle confessioni religiose deputati a realizzare attrezzature religiose sul territorio comunale. Tali soggetti sono stati, infatti, individuati, oltre che negli enti della Chiesa cattolica, anche negli “enti delle altre confessioni religiose con le quali lo Stato ha già approvato con legge la relativa intesa ai sensi dell'articolo 8, terzo comma, della Costituzione” (nuovo articolo 70, comma 2) e negli enti delle ulteriori confessioni religiose, non firmatarie di intesa, in presenza di determinati requisiti specifici (articolo 70, comma 2-bis).
Per gli enti diversi da quelli della Chiesa cattolica è stato, peraltro, previsto che l’applicazione delle previsioni in materia di attrezzature di interesse religioso sia subordinata alla stipulazione di “una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato” (articolo 70, comma 2-ter).
E’ stata, ancora, prevista l’istituzione di una Consulta regionale, nominata con provvedimento della Giunta regionale, deputata al “rilascio di parere preventivo e obbligatorio sulla sussistenza dei requisiti” per l’accreditamento presso i Comuni degli enti di confessioni religiose che non abbiano stipulato intese con lo Stato, al fine della realizzazione di attrezzature religiose (articolo 70, comma 2-quater).
9.2.2 E’ stata, inoltre, radicalmente modificata la disciplina relativa alla localizzazione delle attrezzature religiose, contenuta all’articolo 72.
Sotto questo profilo, si è stabilito, anzitutto, che “Le aree che accolgono attrezzature religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all'articolo 70” (articolo 72, comma 1). Il Piano delle attrezzature religiose è “sottoposto alla medesima procedura di approvazione dei piani componenti il PGT” (articolo 72, comma 3) e deve prevedere una serie di contenuti specifici (articolo 72, comma 7), consistenti in prescrizioni di dotazioni di servizi (lett. a), b) e d), del comma 7), caratteristiche costruttive delle attrezzature religiose (lett. e), f) e g) del comma 7) e apposite distanze tra le strutture da destinare alle diverse confessioni religiose, sulla base delle distanze minime stabilite dalla Giunta regionale (lett. c) del comma 7).
E’, poi, stabilito che “L'installazione di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma 1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura religiosa da confessioni di cui all'articolo 70” (articolo 72, comma 2). E, in questa prospettiva, la legge regionale dispone pure che “I comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale recante "Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi".”, ossia la stessa legge n. 2 del 2015; “Decorso detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT” (articolo 72, comma 5).
9.3 Le previsioni in materia di attrezzature religiose introdotte dalla legge regionale n. 2 del 2015 sono state in parte dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 63 del 2016, in esito al giudizio in via d’azione promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri contro la predetta legge.
Più in dettaglio, la Corte ha dichiarato fondate, per violazione degli artt. 3, 8, 19 e 117, secondo comma, lettera c), della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto:
– l’articolo 70, comma 2-bis, ove erano stabiliti i requisiti che gli enti delle confessioni religiose che non hanno stipulato un’intesa con lo Stato avrebbero dovuto possedere al fine di accedere alla possibilità di realizzare attrezzature religiose;
– l’articolo 70, comma 2-quater, che sottoponeva al vaglio di un’apposita Consulta regionale lo scrutinio in ordine al possesso di tali requisiti.
La Corte ha, inoltre, riscontrato la fondatezza delle questioni con le quali si prospettava la violazione della competenza esclusiva statale in materia di ordine pubblico e sicurezza, di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione ad opera delle previsioni contenute:
– all’articolo 72, comma 4, primo periodo, della legge regionale, ove si prevedeva che, nel corso del procedimento per la predisposizione del Piano delle attrezzature religiose, venissero acquisiti “i pareri di organizzazioni, comitati di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura al fine di valutare possibili profili di sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi statali”;
– all’articolo 72, comma 7, lett. e), ove si prescriveva che il Piano dovesse prevedere, per le attrezzature religiose, “la realizzazione di un impianto di videosorveglianza esterno all’edificio, con onere a carico dei richiedenti, che ne monitori ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici della polizia locale o forze dell’ordine”.
9.4 L’intervento della Corte non ha, invece, toccato – in quanto non sottoposta allo scrutinio di legittimità costituzionale – l’architettura del sistema prefigurato dalla legge regionale n. 2 del 2015 al fine dell’insediamento sul territorio delle attrezzature religiose e, in particolare, la necessaria subordinazione della realizzazione di tali attrezzature all’approvazione di un apposito Piano.
La Corte ha, infatti, espressamente evidenziato che non formava oggetto del giudizio “l’art. 72, comma 1, della stessa legge regionale n. 12 del 2005, il quale ricollega alla valutazione delle «esigenze locali», previo esame delle diverse istanze confessionali, la programmazione urbanistica delle attrezzature religiose”.
Per quanto qui rileva, la Corte ha, inoltre, dichiarato manifestamente inammissibile, per inconferenza del parametro evocato – ossia l’articolo 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione – la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 72, comma 5, della legge regionale n. 12 del 2005, ove si stabilisce che i Comuni che intendano prevedere nuove attrezzature religiose debbano approvare il relativo Piano entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge e che, in mancanza, si provveda unitamente al nuovo Piano di Governo del Territorio.
10. Premessa questa ricostruzione del quadro giuridico di riferimento, può passarsi all’esame delle questioni prospettate con il ricorso.
11. Come detto, il Comune di Castano Primo ha annullato in autotutela il permesso di costruire rilasciato in favore dell’Associazione Culturale Madni, riscontrando che le opere assentite consistevano nella realizzazione di un edificio destinato al culto e che il titolo edilizio era stato emesso, tuttavia, senza procedere preventivamente all’approvazione dell’apposito Piano delle attrezzature religiose, prescritto dall’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, come modificato dalla legge regionale n. 2 del 2015.
12. Con il primo motivo, la ricorrente ha contestato la sussistenza stessa del predetto profilo di illegittimità del permesso di costruire. In particolare, l’Associazione ha richiamato l’articolo 72, comma 8, della legge regionale n. 12 del 2005, ove si stabilisce che “Le disposizioni del presente articolo non si applicano alle attrezzature religiose esistenti alla entrata in vigore della legge recante "Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi".”, ossia la legge n. 2 del 2015, entrata in vigore il 6 febbraio 2015.
12.1 Secondo la ricorrente, la destinazione ad attrezzature religiose dell’edificio di Via Friuli n. 1 sarebbe stata attuata precedentemente all’entrata in vigore della legge ora richiamata, poiché l’Associazione sarebbe presente sul territorio di Castano Primo sin dal 2007 e avrebbe trasferito la propria sede nel complesso di Via Friuli n. 1 dal 28 ottobre 2013. Inoltre, la destinazione dei locali a sede dell’Associazione, fin da epoca precedente all’intervento di ristrutturazione, risulterebbe anche dalle tavole allegate alla domanda di rilascio del permesso di costruire, sulle quali nulla l’Amministrazione avrebbe obiettato.
Conseguentemente, tale destinazione, in quanto preesistente, rientrerebbe tra quelle escluse dall’ambito di applicazione della legge regionale sopravvenuta.
12.2 Al riguardo, deve tuttavia osservarsi che, nel fare salve le “attrezzature religiose esistenti”, l’articolo 72, comma 8 della legge regionale n. 12 del 2005 non può aver avuto riguardo se non alle strutture giuridicamente esistenti con la predetta destinazione, e non anche agli immobili destinati ad attività di culto in via di mero fatto e senza un apposito titolo. E ciò tanto più tenuto conto che, sin da prima della novella del 2015, la legge regionale n. 12 del 2005 reca un’apposita previsione secondo la quale “I mutamenti di destinazione d'uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire” (così l’articolo 52, comma 3-bis, aggiunto dall’articolo 1, comma 1, lett. m) della legge regionale 14 luglio 2006, n. 12).
12.3 Nel caso oggetto del presente giudizio, è incontroverso che la modifica della destinazione del complesso immobiliare di Via Friuli n. 1 sia avvenuta giuridicamente solo a seguito del permesso di costruire n. 17/2015 del 15 gennaio 2016. Ne deriva che, a prescindere dall’eventuale utilizzazione di fatto dei fabbricati, tale destinazione non può essere ritenuta preesistente al 6 febbraio 2015.
12.4 Da ciò il rigetto della censura.
13. Con il secondo motivo, la ricorrente afferma ancora l’insussistenza di qualsivoglia vizio di legittimità del permesso di costruire annullato d’ufficio dal Comune, evidenziando che il complesso immobiliare di cui è proprietaria ricade in zona B 3.1, nella quale non sarebbe vietata la destinazione “servizi alla persona”. Inoltre, il cambio di destinazione d’uso per l’insediamento di tali servizi non comporterebbe neppure un fabbisogno aggiuntivo di attrezzature pubbliche e di interesse pubblico. Sarebbero, infine, assicurate abbondantemente le superfici per posti auto pertinenziali prescritte dal PGT.
13.1 Deve, tuttavia, rilevarsi che l’intervento oggetto del permesso di costruire rilasciato in favore della ricorrente è destinato alla realizzazione “attrezzature di interesse comune per servizi religiosi”, come definite dall’articolo 71, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005.
Secondo la suddetta previsione normativa, infatti, rientrano tra tali attrezzature: “gli immobili destinati al culto” (lett. a); quelli “destinati all’abitazione dei Ministri del culto, del personale di servizio, nonché quelli destinati ad attività di formazione religiosa” (lett. b); gli immobili adibiti, “nell’esercizio del ministero pastorale” allo svolgimento di “attività educative, culturali, sociali, ricreative e di ristoro compresi gli immobili e le attrezzature fisse destinate alle attività di oratorio e similari che non abbiano fini di lucro” (lett. c); gli immobili, infine, “destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione, all'esercizio del culto o alla professione religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali” (lett. c-bis).
Nel caso dell’immobile di Via Friuli n. 1, l’attuazione di tale destinazione, mediante il permesso di costruire annullato, è da ritenere incontroversa, atteso che l’Associazione ha apertamente dichiarato, sin dalla richiesta di parere preventivo diretta al Comune, di voler destinare il complesso immobiliare all’attività di culto. Tale dichiarazione trova riscontro, del resto, sia nelle finalità dell’Associazione, che nelle caratteristiche del progetto presentato, secondo quanto correttamente evidenziato nelle motivazioni del provvedimento di autotutela.
13.2 Ciò posto, deve rilevarsi che dal quadro normativo sopra richiamato risulta chiaramente come la destinazione di immobili ad “attrezzature di interesse comune per servizi religiosi” trovi una propria disciplina specifica nella medesima legge regionale, che non consente di assimilare tale destinazione ad altre ritenute analoghe, ivi inclusa quella a strutture per “servizi alla persona”, secondo la denominazione impiegata nel parere preventivo emesso dal Comune di Castano Primo.
Sono, perciò, inconferenti le diffuse allegazioni che la parte svolge sulla base del presupposto che la destinazione prevista per il complesso immobiliare sia quella di “servizi alla persona”.
13.3 Conseguentemente, anche il secondo motivo deve essere respinto.
14. Vanno quindi esaminate, per ragioni di ordine logico, le censure prospettate nella prima parte del quarto motivo di impugnazione, laddove l’Associazione ricorrente contesta ancora, sotto altro profilo, la sussistenza del vizio di legittimità del permesso di costruire riscontrato dal Comune.
14.1 La ricorrente sostiene, in particolare, che l’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005 andrebbe interpretato nel senso che la previa approvazione del Piano delle attrezzature religiose sarebbe richiesta solo per le strutture di grandi dimensioni, ma non anche per quelle di modesta entità, quale la sede dell’Associazione Culturale Madni.
14.2 L’interpretazione proposta dalla ricorrente non può, tuttavia, essere accolta, in quanto si pone in contrasto con il chiaro e inequivocabile tenore della legge.
L’articolo 72, infatti, si riferisce alle “attrezzature religiose”, senza alcuna specificazione ulteriore, e il comma 2 del predetto articolo afferma espressamente – come sopra detto – che l’installazione di nuove attrezzature religiose “presuppone” l’apposito Piano e che “senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzature religiosa da confessioni di cui all’articolo 70”.
La lettera della legge non lascia dubbi, perciò, in ordine alla concreta portata delle sue previsioni, le quali sono inequivocabilmente dirette a stabilire un divieto rivolto indiscriminatamente nei confronti di qualsivoglia “attrezzatura religiosa”, che si tratti di un luogo di culto destinato ad attirare grandi flussi di fedeli o di una modesta sala di preghiera.
14.3 In questo senso, le censure di violazione dei principi di proporzionalità, di non aggravamento del procedimento amministrativo e di buon andamento dell’Amministrazione non colgono nel segno, poiché il provvedimento assunto dal Comune risulta fondato sull’unica interpretazione consentita della legge regionale.
Tali considerazioni assumono invece rilievo, come meglio si dirà nel prosieguo, al fine di corroborare i dubbi che il Collegio nutre in ordine alla legittimità costituzionale delle disposizioni contenute all’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, nei sensi di cui si dirà più oltre.
15. Alla luce delle censure sin qui scrutinate, il provvedimento di autotutela assunto dal Comune risulta, dunque, correttamente fondato sul presupposto dell’illegittimità del permesso di costruire n. 17/2015, poiché è effettivamente riscontrabile un contrasto del titolo edilizio con le previsioni di legge regionale più volte richiamate.
16. Può, quindi, passarsi all’esame delle censure prospettate dalla ricorrente con il terzo, il sesto, il settimo e l’ottavo motivo, nonché di quelle articolate nella seconda parte del quarto motivo.
Tutte queste censure, che possono essere complessivamente scrutinate, mirano infatti a contestare sostanzialmente le ragioni di interesse pubblico addotte dal Comune a sostegno del provvedimento di annullamento d’ufficio del permesso di costruire, e quindi a contestare la sussistenza dei presupposti – ulteriori rispetto alla mera illegittimità del provvedimento eliminato – cui la legge subordina l’esercizio del potere di autotutela.
16.1 Occorre ricordare anzitutto che, in base all’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990, l’annullamento del provvedimento amministrativo richiede, oltre all’illegittimità dell’atto, anche la sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla sua rimozione. Tale interesse deve, poi, trovare adeguata evidenziazione, mediante un’idonea motivazione, che dia conto della ponderazione degli interessi in gioco, inclusi quelli dei destinatari dell’atto e dei controinteressati, anche alla luce del tempo trascorso dall’adozione del provvedimento; l’annullamento deve, inoltre, intervenire entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 27 aprile 2015, n. 2123, ove si evidenzia che la potestà di autotutela deve “(…) considerare la legittimità del provvedimento che ne è oggetto in base al principio “tempus regit actum” e – una volta accertata l’effettiva sussistenza di vizi, rapportabili all’emanazione dell’atto – è poi chiamata a valutare discrezionalmente la sussistenza degli ulteriori presupposti per intervenire, previo bilanciamento degli interessi sia pubblici che privati”).
Nel caso oggetto del presente giudizio, deve ritenersi che – contrariamente a quanto allegato dalla ricorrente – il provvedimento di autotutela non sia stato diretto a ripristinare meramente la legalità violata, ma abbia svolto una valutazione in concreto, ponderando l’interesse pubblico alla luce del contrapposto interesse del privato, e pervenendo alla determinazione conclusiva entro un termine ragionevole in rapporto alle circostanze.
16.2 Dalla motivazione dell’atto emerge, anzitutto, che le ragioni di interesse pubblico ritenute prevalenti dal Comune attengono all’impatto dell’opera sul contesto urbano. A questo proposito, l’Amministrazione ha acquisito un rapporto della Polizia locale, diffusamente richiamato nella determinazione di autotutela, ove sono state illustrate le ritenute criticità derivanti dalla realizzazione del nuovo luogo di culto.
Più in dettaglio, l’Amministrazione ha evidenziato le ricadute dell’opera sulla situazione viabilistica dell’area e sul fabbisogno di parcheggi, nei termini già sopra riportati.
La ricorrente ha diffusamente contestato le ragioni addotte dall’Amministrazione. Tali contestazioni, tuttavia, non colgono nel segno.
Non sono rilevanti, anzitutto, le deduzioni che l’Associazione svolge assumendo che la dotazione di parcheggi sia adeguata rispetto alla destinazione “servizi alla persona”. Come detto, infatti, il complesso è stato adibito ad “attrezzature religiose”, ossia a una destinazione distinta e non sovrapponibile a quella di “servizi alla persona”, in virtù di una precisa scelta del legislatore regionale.
Neppure colgono nel segno le ulteriori affermazioni della parte, la quale sostiene, producendo anche alcune immagini fotografiche, che nel contesto urbano vi sarebbe addirittura un esubero di parcheggi, e che quanto esposto nel provvedimento non troverebbe riscontro nello stato effettivo dei luoghi. Si tratta, infatti, di mere allegazioni, prive di riscontri probatori adeguati, come tali inidonee a scalfire l’attendibilità della valutazione tecnica svolta dalla Polizia locale in ordine alla situazione viabilistica dell’area.
16.3 Nel provvedimento impugnato il Comune ha, inoltre, affermato che la mancata previa approvazione del Piano delle attrezzature religiose comporta che il permesso di costruire sia stato rilasciato “in assenza di un iter procedurale atto a garantire la trasparenza degli atti assunti attraverso i meccanismi di partecipazione e consultazione della cittadinanza”.
In proposito, la ricorrente allega che tale affermazione sarebbe un fuor d’opera, tenuto conto del fatto che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 63 del 2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, nella parte in cui – al primo periodo del comma 4 – prevedeva che nel corso del procedimento di formazione del Piano delle attrezzature religiose venissero acquisiti “i pareri di organizzazioni, comitati di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura al fine di valutare possibili profili di sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi statali”.
Occorre osservare, tuttavia, che l’eliminazione di tale periodo non toglie che il Piano delle attrezzature religiose sia un “atto separato facente parte del piano dei servizi” (ai sensi dell’articolo 72, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005) e che tale atto sia, conseguentemente, “sottoposto alla medesima procedura di approvazione dei piani componenti il PGT” (articolo 72, comma 3). Deve, perciò, concordarsi con la difesa comunale, la quale ha evidenziato che, con la frase sopra riportata, l’Amministrazione ha inteso fare riferimento unicamente al mancato svolgimento dell’iter di formazione degli atti facenti parte del Piano di Governo del Territorio. In questa prospettiva, il Comune ha ritenuto di riscontrare un’ulteriore ragione a sostegno dell’annullamento del titolo edilizio nella circostanza che, mancando il Piano, non sarebbero state assicurate la trasparenza delle scelte operate dall’Amministrazione e la partecipazione della collettività, garantite dal procedimento di formazione dello strumento urbanistico.
16.4 L’Associazione sottolinea, poi, che il Comune, annullando in autotutela il permesso di costruire, avrebbe contraddetto il proprio precedente operato, tenuto conto della circostanza che il titolo edilizio era stato chiesto e ottenuto solo dopo che la stessa Amministrazione aveva emesso un parere preventivo favorevole.
Inoltre, nell’esercizio dell’autotutela non si sarebbe tenuto conto adeguatamente dell’affidamento ingenerato nella ricorrente dal comportamento del Comune.
16.4.1 Deve tuttavia osservarsi che, in ogni ipotesi nella quale un’amministrazione annulla in autotutela un proprio atto, essa necessariamente “contraddice” il proprio precedente operato, rimuovendone gli esiti. Ciò, tuttavia, non toglie che l’autotutela sia un istituto espressamente contemplato dalla legge, il quale trova il proprio fondamento nel principio di inesauribilità del potere amministrativo (salvi i limiti temporali introdotti dal legislatore).
Né potrebbe ritenersi che, nel caso oggetto del presente giudizio, un profilo specifico di contraddittorietà dell’agire amministrativo sia ravvisabile nella precedente emissione di un parere preventivo favorevole.
Deve premettersi che i titoli edilizi sono rilasciati in presenza delle condizioni stabilite dalla legge, senza alcun margine di discrezionalità in capo all’Amministrazione. Conseguentemente, la circostanza che – eventualmente in modo errato – il Comune renda un parere favorevole alla successiva emissione del permesso di costruire non può in ogni caso vincolare l’Ente, in contrasto con la legge, a considerare quel titolo legittimo.
Occorre poi tenere presente che il parere preventivo aveva una valenza necessariamente limitata al permanere della situazione di fatto e di diritto presa in esame dall’Amministrazione. E, sotto questo profilo, rileva la circostanza che tale parere risale al 22 marzo 2013, e quindi è stato emesso sulla base del contesto normativo precedente l’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015. Inoltre, il permesso di costruire risulta essere stato richiesto molto tempo dopo rispetto al parere, atteso che la relativa istanza risale soltanto all’agosto del 2015.
Per tutte queste ragioni, non può ipotizzarsi un profilo di contraddittorietà nell’operato del Comune, tale da far emergere l’illegittimità della determinazione di autotutela.
16.4.2 D’altro canto, il provvedimento impugnato risulta aver preso specificamente in considerazione la posizione dell’Associazione. Il Comune ha, tuttavia, ritenuto motivatamente – per le ragioni sopra riportate – che l’interesse della parte privata fosse recessivo rispetto all’interesse pubblico in concreto all’eliminazione del titolo illegittimo. L’Amministrazione ha valorizzato, tra l’altro, il fatto che, poco dopo l’avvio, i lavori siano stati spontaneamente sospesi dalla stessa Associazione.
Anche sotto questo profilo, il provvedimento risulta sorretto da una motivazione sufficiente, e come tale insindacabile nel merito dal giudice amministrativo.
16.5 Infine, il provvedimento di autotutela è da ritenere tempestivamente assunto, in rapporto alle circostanze di fatto.
Come detto, il titolo edilizio è stato rilasciato il 15 gennaio 2016, mentre la determinazione di annullamento è stata adottata il 13 marzo 2017. Conseguentemente, emerge anzitutto il rispetto del termine massimo di diciotto mesi prescritto dall’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990.
L’annullamento risulta inoltre intervenuto in un tempo non irragionevole, in rapporto alle circostanze, tenuto conto del fatto che:
– i lavori erano stati avviati soltanto nel luglio del 2016 e poi sospesi spontaneamente già nel mese di ottobre;
– dallo stesso mese di ottobre il Comune aveva rappresentato all’Associazione i profili di illegittimità del permesso di costruire, avviando un confronto con la parte in ordine alle sorti del titolo edilizio.
Non può, invece, accedersi alla tesi della ricorrente, secondo la quale la ragionevolezza del termine per l’esercizio dell’autotutela andrebbe valutata tenendo conto del decorso di oltre diciotto mesi dal rilascio del parere preventivo del Comune. La legge collega, infatti, il predetto termine massimo solo all’adozione del provvedimento, e non alle pregresse vicende amministrative. Tali vicende non possono perciò rilevare neppure ai fini della valutazione della ragionevolezza del tempo intercorso prima di assumere la determinazione di annullamento. Peraltro, come già ricordato, il parere preventivo risale al 22 marzo 2013, e quindi è stato emesso molto tempo prima rispetto all’istanza stessa di rilascio del permesso di costruire, oltre che sulla base del contesto normativo allora vigente.
Ne consegue il rigetto anche di questa censura.
16.6 In definitiva, tutti i motivi fin qui congiuntamente scrutinati vanno respinti.
17. Con il nono motivo, l’Associazione sostiene che il Comune avrebbe dovuto annullare solo in parte il titolo edilizio, perché il corpo di fabbrica confinante con Via Friuli non sarebbe stato interessato da un passaggio da una “funzione precedente” ad una “funzione nuova” in quanto l’edificio, già adibito a residenza, avrebbe mantenuto la destinazione abitativa.
17.1 Al riguardo, la difesa comunale ha, tuttavia, evidenziato che, con riguardo a questo secondo fabbricato, il permesso di costruire autorizzava parimenti la modifica dell’uso da “residenza” a “servizi alla persona” e che nell’agosto 2016 l’Associazione aveva dichiarato di rinunciare a tale modifica, mantenendo la destinazione residenziale. Per questa ragione, secondo il Comune, la parte non avrebbe alcun interesse alla censura.
Secondo la ricorrente, l’interesse invece sussisterebbe, perché l’annullamento del titolo edilizio avrebbe impedito all’Associazione di ultimare i lavori di manutenzione straordinaria e di utilizzare il corpo di fabbrica per usi residenziali.
17.2 Il Collegio ritiene che la censura sia effettivamente inammissibile per mancanza di interesse.
Nell’integrazione alla relazione tecnica cui fa riferimento il Comune, il tecnico dell’Associazione ricorrente afferma che “Il primo fabbricato, lato strada principale, è composto da n° 2 piani, piano terra e primo piano. Entrambi non subiranno interventi di opere murarie. Al piano terra rimarrà residenziale senza alcun cambio di destinazione d’uso. E rifacimento facciata color giallo come esistente.”.
Per effetto di tali dichiarazioni della parte, il permesso di costruire è stato “svuotato” della sua valenza autorizzatoria, limitatamente al fabbricato prospiciente la Via Friuli, atteso che le opere residue non richiedevano comunque il rilascio di quello specifico titolo.
Per questa ragione, non si comprende come l’annullamento del permesso di costruire possa aver determinato l’impossibilità di adibire l’immobile all’uso residenziale, cui era già precedentemente destinato. La parte, inoltre, non chiarisce in cosa consistano i lavori di manutenzione straordinaria che verrebbero a essere preclusi, considerato che – secondo quanto risultante dall’integrazione alla relazione tecnica – non è prevista l’esecuzione di opere murarie. Inoltre, laddove il rifacimento della facciata dovesse consistere nella mera ritinteggiatura, nell’identica colorazione precedente, si tratterebbe di un intervento di manutenzione ordinaria, eseguibile in regime di edilizia libera.
Peraltro, e in ogni caso, eventuali lavori di sola manutenzione straordinaria, non incidenti sulle parti strutturali dell’edificio, ben potrebbero essere compiuti in ogni momento sulla base di una semplice comunicazione asseverata di inizio dei lavori, ai sensi dell’articolo 6-bis del d.P.R. n. 380 del 2001, trattandosi comunque di opere che non richiedono il permesso di costruire.
17.3 Da ciò l’inammissibilità della censura.
18. Fin qui, tutti i motivi di ricorso trattati, a giudizio del Collegio, non meritano accoglimento. Rimane, tuttavia, da scrutinare il quinto motivo, con il quale l’Associazione ricorrente lamenta l’illegittimità costituzionale dell’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, nonché il contrasto della stessa previsione con la direttiva 2000/43/CE del 29 giugno 2000 (“Direttiva del Consiglio che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica”).
18.1 Al riguardo, deve anzitutto escludersi che possa ravvisarsi un profilo di incompatibilità della disciplina normativa con la direttiva ora richiamata.
In disparte ogni altra considerazione, deve infatti osservarsi che il campo di applicazione della direttiva è limitato agli ambiti indicati all’articolo 3.
Secondo la ricorrente, l’edilizia religiosa sarebbe preordinata alla fornitura di un “servizio”. Con tale affermazione, la parte implicitamente richiama la fattispecie di cui al comma 1, lett. h), del suddetto articolo 3, ove si afferma che la direttiva si applica “all'accesso a beni e servizi che sono a disposizione del pubblico e alla loro fornitura, incluso l'alloggio”.
Il riferimento, tuttavia, non è da ritenere pertinente, atteso che lo stesso articolo 3 reca disposizioni operanti “Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità”, e quindi trova applicazione con riferimento alla sola dimensione del mercato unico europeo; dimensione che non presenta alcuna attinenza con l’esercizio delle libertà religiose. In questa prospettiva, il termine “servizi”, contenuto nella locuzione sopra riportata, va perciò inteso in senso strettamente economico e non può, conseguentemente, includere l’edilizia religiosa, né comunque le condizioni per l’esercizio di un culto.
Ne deriva che non si pone neppure il problema di verificare l’effettiva compatibilità della disciplina di legge regionale con la direttiva, questione peraltro dedotta dalla ricorrente in termini del tutto generici e apodittici.
18.2 Il Collegio ritiene, invece, di dover condividere i dubbi sulla legittimità costituzionale dell’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, nei sensi e nei limiti che si esporranno di seguito, e di dover quindi rimettere la soluzione delle relative questioni alla Corte costituzionale.
18.3 Va, conseguentemente, rinviata all’esito del giudizio della Corte anche la domanda di risarcimento del danno, pure proposta dall’Associazione ricorrente.
19. Il Collegio dubita, in particolare, della compatibilità dell’articolo 72, commi 1 e 2, della legge regionale della Lombardia 11 marzo 2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 1, lett. c), della legge regionale 3 febbraio 2015, n. 2, con gli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione.
20. In punto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, il Collegio evidenzia che sono stati trattati e ritenuti non meritevoli di accoglimento tutti i motivi di impugnazione proposti dalla parte, a eccezione del tema della legittimità costituzionale delle previsioni di legge regionale applicate dal Comune.
Conseguentemente, la decisione della causa dipende esclusivamente dalla soluzione della questione attinente alla legittimità costituzionale delle previsioni dell’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, sulla cui base è stato assunto il provvedimento di autotutela censurato nel presente giudizio.
Il suddetto motivo di censura è rilevante, atteso che le ragioni di interesse pubblico all’annullamento, che – come sopra illustrato – il Comune ha indicato nel provvedimento impugnato non sono da sole sufficienti a sorreggere l’eliminazione del permesso di costruire già rilasciato in favore della ricorrente. L’esercizio del potere di autotutela richiede, infatti, ai sensi dell’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990, anzitutto l’illegittimità del provvedimento annullato. E, come detto, l’accertamento di tale profilo riposa esclusivamente nella soluzione delle questioni di legittimità costituzionale prospettate nei confronti della legge regionale.
Da tali questioni dipende, perciò, l’esito del giudizio.
21. Sempre in punto di rilevanza, il Collegio deve prendere in considerazione la portata della legge regionale 25 gennaio 2018, n. 5, recante “Razionalizzazione dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di legge.”, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia del 29 gennaio 2018, Supplemento n. 5.
La suddetta legge reca, all’articolo 2 – dedicato alla “Abrogazione di leggi” – la previsione secondo la quale “A decorrere dall’entrata in vigore della presente legge sono o restano abrogate: …b)le seguenti leggi o disposizioni operanti modifiche alla legislazione regionale… 69) L.R. 3 febbraio 2015, n. 2 (Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi);”.
E’ stata, dunque, disposta l’abrogazione della legge regionale n. 2 del 2015, che – come più volte ripetuto – ha novellato la legge regionale n. 12 del 2005, dettando la disciplina applicata dal provvedimento impugnato nel presente giudizio.
Occorre, dunque, domandarsi se tale previsione possa influire sulla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale che si intendono rimettere alla Corte costituzionale.
21.1 Il Collegio rileva, anzitutto, che il provvedimento impugnato nel presente giudizio è precedente alla legge regionale n. 5 del 2018, per cui la sua legittimità va valutata in base al quadro normativo vigente al tempo della sua adozione.
Conseguentemente, la norma regionale abrogatrice sopravvenuta non potrebbe comunque far venire meno la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale relative al testo della legge n. 12 del 2005, nella formulazione in vigore quando è stato rilasciato il permesso di costruire annullato, e anche al tempo della determinazione di autotutela qui censurata.
21.2 In ogni caso, è pure da escludere che la legge regionale n. 5 del 2018 abbia modificato l’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, il quale è da ritenere a tutt’oggi vigente nel tenore risultante dalle modificazioni apportate dalla legge regionale n. 2 del 2015.
L’operazione disposta dal legislatore regionale è stata, infatti, di mero riordino legislativo, come risulta chiaramente dall’articolo 1 della legge regionale n. 5 del 2018, ove, nell’indicare le finalità dell’intervento normativo, si enuncia che “La presente legge opera interventi di manutenzione e razionalizzazione tecnica dell'ordinamento regionale attraverso interventi abrogativi di leggi o di disposizioni di legge. Per tutte le disposizioni oggetto di abrogazione sono fatti salvi gli effetti secondo quanto previsto dall'articolo 4.”.
Il richiamato articolo 4 stabilisce, a sua volta, che “Sono fatti salvi gli effetti prodotti o comunque derivanti dalle leggi e dalle disposizioni abrogate dalla presente legge, comprese le modifiche apportate ad altre leggi. Restano pertanto confermate, in particolare, le autorizzazioni, le variazioni, i rifinanziamenti e ogni altro effetto giuridico, economico o finanziario prodotto o comunque derivante dalle disposizioni in materia di bilancio, nonché le variazioni testuali apportate alla legislazione vigente dalle leggi abrogate dalla presente legge, ove non superate da integrazioni, modificazioni o abrogazioni disposte da leggi intervenute successivamente. Trova inoltre applicazione, per le leggi di cui all'articolo 3, anche quanto previsto dall'articolo 24, comma 2, della L.R. 29/2006”.
Il legislatore regionale ha, cioè, inteso eliminare le leggi enumerate – tra le quali la legge n. 2 del 2015 – intese esclusivamente quali atti fonte, ossia quali “veicoli” delle modificazioni apportate ad altre leggi; “veicoli” che hanno sostanzialmente esaurito i loro effetti con l’introduzione stessa delle novelle. Le leggi modificate non sono state, invece, toccate dall’intervento di riordino, il quale non ha inteso apportare alcuna variazione sostanziale al corpus legislativo regionale.
21.3 Deve, perciò, confermarsi la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale che si passa a esporre.
22. Come detto, il Collegio dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 72, commi 1 e 2, della legge regionale n. 12 del 2015, come modificata dalla legge regionale n. 2 del 2015.
22.1 In particolare, il comma 1 dell’articolo 72 stabilisce che “Le aree che accolgono attrezzature religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all'articolo 70”.
Il successivo comma 2 aggiunge, poi, che “L'installazione di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma 1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura religiosa da confessioni di cui all'articolo 70”.
22.2 Dalla lettura di tali previsioni, discende che:
– la realizzazione di ogni e qualsivoglia attrezzatura religiosa deve trovare necessariamente previsione in un apposito Piano comunale, costituente un atto separato facente parte del Piano dei Servizi (articolo 72, comma 1), che a sua volta è l’atto, componente il Piano di Governo del Territorio, deputato ad “assicurare una dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico e generale, le eventuali aree per l'edilizia residenziale pubblica e da dotazione a verde, i corridoi ecologici e il sistema del verde di connessione tra territorio rurale e quello edificato, nonché tra le opere viabilistiche e le aree urbanizzate ed una loro razionale distribuzione sul territorio comunale, a supporto delle funzioni insediate e previste”, in base a quanto previsto dall’articolo 9 della stessa legge regionale n. 12 del 2005;
– in assenza del suddetto Piano, nessuna “attrezzatura religiosa” è realizzabile (articolo 72, comma 1) e, anche dopo l’approvazione del Piano, nessuna attrezzatura è realizzabile al di fuori delle aree a ciò specificamente destinate (comma 1), indipendentemente dalla circostanza che si tratti: di edifici di culto o di altre attrezzature religiose, secondo l’ampia definizione di cui all’articolo 71, comma 1, della legge regionale; di attrezzature necessarie per assicurare la dotazione di standard di urbanizzazione secondaria di insediamenti esistenti o da realizzare, ovvero di luoghi di culto che privati cittadini chiedano liberamente di poter realizzare, al fine di professare collettivamente la propria religione; di strutture di grandi dimensioni, destinate a determinare un largo afflusso di fedeli, ovvero di semplici sale di culto, dedicate a una frequentazione limitata a poche decine di persone; di edifici realizzati a iniziativa pubblica o con contributi pubblici, ovvero a iniziativa del tutto privata.
22.3 Secondo l’avviso del Collegio, le suddette previsioni sono di dubbia legittimità costituzionale, come meglio si dirà nel prosieguo, in quanto preordinano una completa e assoluta programmazione pubblica della realizzazione di “attrezzature religiose”, in funzione delle “esigenze locali” – rimesse all’apprezzamento discrezionale del Comune – a prescindere dalle caratteristiche in concreto di tali opere, e persino della loro destinazione alla fruizione da parte di un pubblico più o meno esteso, introducendo così un controllo pubblico totale, esorbitante rispetto alle esigenze proprie della disciplina urbanistica, in ordine all’apertura di qualsivoglia spazio destinato all’esercizio del culto (o anche di semplici attività culturali a connotazione religiosa).
22.4 Va, invece, evidenziato che non è specificamente rilevante nel presente giudizio l’eventuale illegittimità costituzionale del comma 5 dello stesso articolo 72, ove si stabilisce che “I comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale recante "Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi". Decorso detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT”.
La suddetta disposizione potrebbe apparire di dubbia legittimità costituzionale, laddove indica come meramente facoltativa l’adozione del Piano delle attrezzature religiose entro il termine di diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015, stabilendo che, superato tale termine, all’approvazione del Piano si provveda soltanto in occasione della nuova pianificazione comunale.
Nella presente controversia si fa questione, tuttavia, dell’annullamento in autotutela di un permesso di costruire rilasciato prima del decorso del termine di diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015, ossia in un momento in cui il Comune di Castano Primo sarebbe stato ancora in termini per sospendere l’iter di rilascio del titolo edilizio e adottare il Piano deputato all’inserimento sul territorio di nuove attrezzature religiose. Non è perciò idonea a influire sull’esito del giudizio la specifica questione attinente all’obbligatorietà o facoltatività del suddetto piano e alle conseguenze della sua mancata adozione entro il predetto termine di diciotto mesi.
Anche laddove il Piano fosse stato obbligatorio, infatti, il Comune sarebbe stato in tempo per adottarlo e, quindi, il permesso di costruire rilasciato prima dei diciotto mesi sarebbe comunque illegittimo.
23. Così perimetrato l’ambito delle questioni rilevanti, in relazione alla portata delle disposizioni regionali che si sottopongono allo scrutinio della Corte costituzionale, deve passarsi a illustrare compiutamente le ragioni per le quali si ritengono tali questioni non manifestamente infondate.
23.1 A giudizio del Collegio, l’equivoco di fondo da cui muove l’impostazione seguita dal legislatore regionale è che le “attrezzature religiose”, delle quali gli edifici di culto sono una species, debbano essere trattate solo ed esclusivamente quali opere di urbanizzazione secondaria (articolo 71, comma 2), da inserirsi nel contesto urbano mediante un apposito Piano comunale che ne stabilisce sia la localizzazione che il dimensionamento (articolo 72, commi 1 e 2). E ciò prescindendo dalle caratteristiche del singolo intervento, dalla circostanza che tali attrezzature siano o non siano strettamente necessarie ad assicurare la dotazione di standard urbanistici funzionale a un dato insediamento residenziale, e persino dalla destinazione di tali opere a una più o meno estesa fruizione pubblica.
23.2 Che sia così, e che nessun’altra interpretazione della legge regionale sia consentita, in base alla lettera e alla ratio delle previsioni di legge, si evince chiaramente dalla circostanza che l’articolo 71, comma 1, riferendosi alle “attrezzature religiose di interesse comune”, include tra tali attrezzature tutti gli edifici aventi una determinata destinazione urbanistica – edifici di culto, abitazioni di ministri di culto, attività di formazione religiosa, sedi di associazioni culturali connotate da finalità religiose – a prescindere dalle caratteristiche in concreto di tali opere e dalla loro specifica preordinazione al fine di assicurare la richiesta dotazione di opere di urbanizzazione secondaria in favore di un dato insediamento.
E tale necessaria lettura della legge regionale è ulteriormente comprovata dalla circostanza che tale previsione si salda con quella dell’articolo 72, comma 2, laddove, nell’introdurre il nuovo Piano delle attrezzature religiose, si stabilisce che “nessuna nuova attrezzatura religiosa” possa essere installata in assenza del Piano.
Infine, l’interpretazione ora evidenziata, oltre a essere l’unica compatibile con la lettera e con la ratio della legge regionale, è anche quella accolta nella prassi amministrativa, fondata sulla circolare regionale 20 febbraio 2017, n. 3 (“Indirizzi per l’applicazione della legge regionale 3 febbraio 2015, n. 2 «Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»”, pubblicata sul BURL, Supplemento ordinario, 22 febbraio 2017, n. 8).
23.3 Tale impostazione, tuttavia, finisce per determinare l’accentramento in capo all’Amministrazione locale della scelta in ordine a tempi, luoghi e distribuzione tra le varie confessioni religiose dei luoghi di culto che si prevede di aprire sul territorio, senza consentire, al di fuori di tale rigida predeterminazione, avocata alla mano pubblica, neppure la realizzazione, a iniziativa privata e in aree comunque idonee dal punto di vista urbanistico, di modeste sale di preghiera.
In altri termini, il presupposto su cui si fonda l’intera architettura della disciplina regionale lombarda in materia di edifici di culto consiste nell’individuazione di una corrispondenza biunivoca tra le “attrezzature religiose di interesse comune”, di cui all’articolo 71, comma 1, costituenti opere di urbanizzazione secondaria, e le “attrezzature religiose” di cui all’articolo 72, di modo che tutte tali attrezzature sono trattate allo stesso modo, ossia quali opere di urbanizzazione secondaria soggette alla necessaria previa programmazione comunale. E ciò a prescindere dalla circostanza che il loro inserimento nel territorio debba essere effettivamente preordinato dall’Amministrazione, al fine di assicurare la proporzionata dotazione di standard di urbanizzazione secondaria a servizio di insediamenti residenziali, ovvero che si tratti di libere iniziative di enti religiosi, comunità di fedeli o gruppi di cittadini, al solo scopo di assicurare ai fedeli che intendano praticare un dato culto di disporre di un luogo idoneo a praticarlo collettivamente.
24. Il Collegio è dell’avviso che tale impostazione collida anzitutto con l’articolo 19 della Costituzione.
24.1 Secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, “Con l'art. 19 il legislatore costituente riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, col solo e ben comprensibile, limite che il culto non si estrinsechi in riti contrari al buon costume. La formula di tale articolo non potrebbe, in tutti i suoi termini, essere più ampia, nel senso di comprendere tutte le manifestazioni del culto, ivi indubbiamente incluse, in quanto forma e condizione essenziale del suo pubblico esercizio, l'apertura di templi ed oratori e la nomina dei relativi ministri.” (sentenza n. 59 del 1958).
Proprio con riferimento alla legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005, come modificata dalla legge regionale n. 2 del 2015, la Corte ha poi ribadito il proprio costante insegnamento, evidenziando che “Il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale della libertà di religione” e che “L’apertura di luoghi di culto, in quanto forma e condizione essenziale per il pubblico esercizio dello stesso, ricade nella tutela garantita dall’art. 19 Cost., il quale riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, con il solo limite dei riti contrari al buon costume.” (sentenza n. 63 del 2016).
24.2 Ciò posto, non si intende ovviamente negare – né si dubita – che la Regione, nell’esercizio della propria potestà legislativa in materia di “governo del territorio”, attribuitale dall’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, possa dettare una disciplina legislativa specificamente dedicata all’inserimento urbanistico delle attrezzature religiose e degli edifici di culto. Questo aspetto è stato affermato dalla Corte, tra l’altro, nella richiamata sentenza n. 63 del 2016.
La Corte ha, tuttavia, rimarcato che la legislazione regionale in materia di edilizia del culto “trova la sua ragione e giustificazione – propria della materia urbanistica – nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi” (sentenza n. 195 del 1993, richiamata dalla sentenza n. 63 del 2016) e che “Non è, invece, consentito al legislatore regionale, all’interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione” (sentenza n. 63 del 2016).
24.3 Come detto, l’articolo 72, commi 1, 2 e 5 della legge regionale n. 12 del 2005 istituiscono un sistema nel quale le attrezzature religiose di qualsivoglia natura, inclusi i luoghi di culto, devono essere necessariamente realizzati nelle aree e negli immobili stabiliti dal Comune, al quale spetta, per questa via, ogni discrezionalità in ordine all’apertura di luoghi di culto, pubblici o privati, sul proprio territorio.
Deve, inoltre, ricordarsi che, in base al comma 1 dell’articolo 72, il dimensionamento e la disciplina di tali attrezzature sono stabilite dal Comune “sulla base delle esigenze locali”. Locuzione, questa, su cui anche la Corte ha richiamato l’attenzione, nella sentenza n. 63 del 2016, pur evidenziando che la previsione del comma 1 dell’articolo 72 non era stata sottoposta al suo sindacato.
24.3.1 Ora, l’impostazione seguita dal legislatore regionale non porrebbe dubbi di compatibilità con l’articolo 19 della Costituzione, ad avviso del Collegio, se il Piano delle attrezzature religiose intervenisse al solo scopo di censire le attrezzature esistenti aperte al pubblico, verificare il fabbisogno di ulteriori attrezzature, e provvedere conseguentemente.
In questi termini, la previsione sarebbe effettivamente ragionevole e funzionale allo scopo di assicurare l’adeguata dotazione di edifici di culto a servizio degli insediamenti residenziali, che è compito propriamente rientrante tra quelli demandati al Piano dei Servizi. In questa prospettiva, sarebbe anche ragionevole il dimensionamento delle attrezzature religiose in base alle esigenze riscontrate localmente. La stessa Corte costituzionale ha, infatti, affermato che, “come è naturale allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo”, nella ponderazione rimessa al Comune “si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione” (sentenza n. 63 del 2016).
24.3.2 La disciplina regionale, tuttavia, si spinge oltre tale obiettivo, stabilendo che – in assenza o comunque al di fuori delle previsioni del Piano delle attrezzature religiose – non sia consentita l’apertura di alcuna attrezzatura religiosa, a prescindere dal contesto e dal carico urbanistico generato dalla specifica opera.
Per questa via, si determina un ostacolo di fatto al libero esercizio del culto, poiché la possibilità di esercitare collettivamente e in forma pubblica i riti non contrari al buon costume – garantita dalla Costituzione – viene a essere subordinata alla pianificazione comunale e, quindi, al controllo pubblico.
Ciò, secondo l’avviso del Collegio, determina un’indebita limitazione della libertà di religione, perché:
– è fisiologico che la programmazione comunale intervenga necessariamente con cadenze periodiche pluriennali (quelle tipiche della pianificazione); circostanza, questa, che di per sé determina un differimento nella possibilità di soddisfare le esigenze di culto della collettività;
– come detto, il Piano dei Servizi è deputato a operare il dimensionamento delle attrezzature religiose, in base alla situazione del contesto, e non garantisce la previsione di luoghi di culto per tutti gli enti di confessioni religiose o per le singole comunità di fedeli.
Tuttavia, la libertà di esercizio collettivo del culto, assicurata dall’articolo 19 della Costituzione, non può risentire in termini così stringenti della programmazione urbanistica, né è assicurata soltanto ai culti dotati di una determinata rappresentatività in ambito locale. Al contrario, la Costituzione garantisce l’esercizio pubblico del culto, con il solo limite del rispetto del buon costume, anche una comunità composta da pochi fedeli (come nel caso oggetto del presente giudizio, ove si fa questione della sede di un’Associazione religiosa cui aderiscono circa sessanta famiglie).
25. Né potrebbe ritenersi che le limitazioni all’apertura di luoghi di culto stabilite dalla legge regionale siano sorrette adeguatamente dallo scopo di assicurare il corretto inserimento sul territorio delle attrezzature religiose.
A giudizio del Collegio, le previsioni normative sopra richiamate appaiono, infatti, eccedenti rispetto allo scopo, in modo tale da far emergere anche la violazione dei fondamentali canoni di ragionevolezza, proporzionalità e non discriminazione posti dall’articolo 3 della Costituzione.
25.1 Deve, infatti, tenersi presente che il comma 7 dell’articolo 72 ha stabilito quali caratteristiche costruttive debbano avere le attrezzature religiose e quali dotazioni aggiuntive di parcheggi debbano essere assicurate, in proporzione alle dimensioni della struttura (v. lett. d).
A ciò deve aggiungersi che, in linea di principio, gli edifici religiosi sono funzionali all’insediamento abitativo e, quindi, dovrebbero essere in linea di massima realizzabili negli ambiti urbani ove è previsto l’insediamento della funzione residenziale, o in ambiti prossimi, ferma restando la potestà del Comune di stabilire limitazioni, anche in funzione delle dimensioni della struttura, tenuto conto del contesto locale, nei suoi diversi aspetti (viabilità, parcheggi, e via dicendo).
Tutte le previsioni costruttive e di inserimento urbanistico delle attrezzature religiose ben possono, tuttavia – sulla base delle indicazioni contenute nella legge regionale – trovare adeguata previsione nelle ordinarie prescrizioni degli strumenti urbanistici. E ciò tenuto conto anche della circostanza che l’apertura di un edificio di culto, da un punto di vista di assetto del territorio, appare non differire sensibilmente dalla realizzazione di altri luoghi di aggregazione sociale, quali palestre, case di cura, scuole, centri culturali non aventi finalità religiose, e simili. Per tali diverse strutture non è, tuttavia, stabilita un’analoga rigida programmazione comunale.
In termini più espliciti, si evidenzia che la natura di “opere di urbanizzazione secondaria” è comune – ad esempio – alle scuole. Anche per le scuole la relativa dotazione minima deve essere prevista nel Piano dei Servizi. Ciò, tuttavia, non preclude ai privati la possibilità di aprire liberamente ulteriori scuole e istituti d’istruzione privati, nell’esercizio della libertà costituzionale di insegnamento, purché nel rispetto di tutte le previsioni di piano atte ad assicurare il corretto inserimento di tali strutture nel contesto urbanistico. Non è, invece, previsto che i privati debbano attendere, a tal fine, l’approvazione di un apposito Piano, volto a dimensionare, canalizzare e predeterminare completamente e rigidamente la localizzazione delle scuole e, per questa via, il contenuto dell’intera offerta scolastica sul territorio comunale, persino laddove si tratti dell’apertura di un corso limitato a poche decine o a qualche centinaio di iscritti.
Il differente trattamento riservato, sotto questo profilo, alle attrezzature religiose appare, perciò, del tutto ingiustificato e discriminatorio, rispetto a quello riservato ad altre attrezzature comunque destinate alla fruizione pubblica, potenzialmente idonee a generare un impatto analogo, o persino maggiore, nel contesto urbanistico. E tale trattamento è tanto più sperequato, ove si consideri che la legge regionale n. 12 del 2005 è informata, in linea di massima, al principio del favor verso il libero insediamento delle destinazioni d’uso compatibili con la destinazione di zona, salve le esclusioni stabilite dallo strumento urbanistico (cfr. articoli 51 e 10, comma 3, lett. f), della legge regionale n. 12 del 2005).
25.2 In definitiva, secondo l’avviso del Collegio, l’avocazione al Comune dell’integrale programmazione della localizzazione e del dimensionamento delle attrezzature religiose finisce per eccedere gli scopi propri della disciplina dell’assetto del territorio comunale, producendo, di fatto, effetti simili all’autorizzazione governativa all’apertura dei luoghi di culto, prevista dall'articolo 1 del regio decreto 28 febbraio 1930, n. 289, già dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 59 del 1958.
26. La violazione degli articoli 3 e 19 della Costituzione, sotto i profili ora detti, ridonda anche nella lesione dei diritti inviolabili della persona, tutelati dall’articolo 2 della Costituzione (v. Corte cost., sentenza n. 195 del 1993), stante la centralità del credo religioso quale espressione della personalità dell’uomo, tutelata nella sua affermazione individuale e collettiva.
27. Per tutte le ragioni esposte, questo Tribunale ritiene rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sopra illustrate.
Va, conseguentemente, disposta la sospensione del giudizio e la rimessione delle predette questioni alla Corte costituzionale, ai sensi dell’articolo 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
Deve essere rinviata, infine, all’esito della pronuncia della Corte anche la trattazione della domanda di risarcimento del danno, come sopra detto, nonché la decisione in ordine alle spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda), non definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:
– respinge in parte il ricorso, limitatamente a quanto indicato in motivazione;
– rimette alla Corte costituzionale le questioni di legittimità costituzionale illustrate in motivazione, relative all’articolo 72, commi 1 e 2, della legge regionale della Lombardia 11 marzo 2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 1, lett. c), della legge regionale 3 febbraio 2015, n. 2, per contrasto con gli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione;
– dispone, conseguentemente, la sospensione del giudizio;
– riserva alla sentenza definitiva ogni pronuncia in ordine agli ulteriori profili, nonché in ordine alla regolazione delle spese del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Manda alla Segreteria della Sezione tutti gli adempimenti di competenza, e in particolare la notifica della presente ordinanza alle parti in causa e al Presidente della Giunta regionale della Lombardia, nonché la comunicazione al Presidente del Consiglio regionale della Lombardia.
Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 14 febbraio 2018.