Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 27 Ottobre 2015

Sentenza 26 ottobre 2015, n.4898

Consiglio di Stato. Sezione III, sentenza 26 ottobre 2015, n. 4898: "Intrascrivibilità dei matrimoni celebrati all'estero tra persone dello stesso sesso e provvedimenti prefettizi".

Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4545 del 2015, proposto da:
Ministero dell'Interno, Prefetto di Roma, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi 12;

contro

Sindaco di Roma Capitale, rappresentato e difeso per legge dall'Rodolfo Murra, domiciliato in Roma, Via del Tempio di Giove N.21; -OMISSIS-rappresentati e difesi dagli avv. Luisa Torchia, Maria Stefania Masini, Mario Di Carlo, con domicilio eletto presso Stefania Masini in Roma, Via Antonio Gramsci, 24;

per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE I TER n. 03907/2015, resa tra le parti, concernente trascrizioni nel registro dello stato civile di Roma Capitale dei matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all'estero;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Sindaco di Roma Capitale e di -OMISSIS-
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l'art. 52 D. Lgs. 30.06.2003 n. 196, commi 1 e 2;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 ottobre 2015 il Cons. Carlo Deodato e uditi per le parti gli avvocati Murra, Torchia, Di Carlo e dello Stato Ferrante Wally;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Con la sentenza impugnata il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, dopo aver riconosciuto l’insussistenza di qualsivoglia diritto alla trascrizione negli atti dello stato civile di matrimoni tra coppie omosessuali celebrati all’estero (e, di conseguenza, la legittimità della circolare in data 7 ottobre 2014 con cui il Ministro dell’interno ne aveva stabilito l’intrascrivibilità in Italia), ha, nondimeno, giudicato illegittimi (annullandoli, in parziale accoglimento del ricorso di primo grado) l’impugnato provvedimento con cui il Prefetto di Roma aveva decretato l’annullamento delle trascrizioni dei matrimoni celebrati all’estero dai ricorrenti e la presupposta, menzionata circolare (nella parte in cui invitava i Prefetti ad annullare dette trascrizioni), sulla base dell’assorbente rilievo per cui la rettifica o la cancellazione degli atti dello stato civile resta riservata in via esclusiva all’autorità giudiziaria ordinaria.
Avverso la predetta decisione proponeva appello il Ministero dell’interno, contestando la correttezza del gravato giudizio di illegittimità, sulla base delle argomentazioni difensive di seguito illustrate ed esaminate, e domandandone la riforma, con conseguente reiezione del ricorso di primo grado.
Resistevano gli originari ricorrenti, contestando la fondatezza dell’appello, difendendo la correttezza del giudizio di illegittimità formulato dai giudici di prima istanza, impugnando, in via incidentale, la statuizione relativa alla illegittimità della trascrizione in Italia di matrimoni tra coppie omosessuali contratti all’estero (ed insistendo nel rivendicare il relativo diritto) e concludendo per la reiezione dell’appello principale del Ministero e per la parziale riforma della decisione impugnata, in accoglimento del proprio appello incidentale.
Resisteva anche Roma Capitale, contestando la fondatezza dell’appello del Ministero e concludendo per la sua reiezione.
Il ricorso veniva trattenuto in decisione alla pubblica udienza dell’8 ottobre 2015.

DIRITTO

1.- Come già rilevato in fatto, il Tribunale capitolino ha affermato la intrascrivibilità dei matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso, ma ha riconosciuto la illegittimità del provvedimento prefettizio di annullamento delle relative trascrizioni (e della presupposta circolare, nei limiti sopra precisati).
La decisione appellata si compone, quindi, di due distinti accertamenti: uno favorevole al Ministero dell’interno e uno favorevole ai ricorrenti (e al Sindaco di Roma).
Entrambe tali statuizioni sono state appellate: in via principale quella demolitoria del decreto prefettizio di annullamento della trascrizione; in via incidentale quella di accertamento dell’insussistenza di un diritto delle coppie omosessuali alla trascrizione nei registri dello stato civile dei loro matrimoni celebrati all’estero.
Il rispetto dell’ordine logico nella disamina delle censure ritualmente introdotte nel giudizio di appello impone di principiare dall’esame dell’appello incidentale, siccome afferente ad una questione (la trascrivibilità in Italia di matrimoni omosessuali contratti all’estero) logicamente antecedente rispetto a quella (il potere del Prefetto di annullare le loro trascrizioni in Italia) oggetto dell’appello principale.
2.- Mediante le censure articolate nell’appello incidentale gli originari ricorrenti reclamano, a ben vedere, il (o, meglio, l’affermazione del) diritto alla trascrizione in Italia di matrimoni omosessuali celebrati all’estero, insistendo, perciò, nel dedurre l’illegittimità della gravata circolare del Ministro dell’interno (là dove aveva impartito istruzioni impeditive di esse).
Così decifrata la domanda, occorre procedere a una preliminare (e sintetica) ricognizione dei principi e delle regole che governano la trascrizione degli atti di matrimonio formati in un altro Paese (e alla cui stregua dev’essere giudicata la fondatezza della pretesa sostanzialmente azionata dagli originari ricorrenti).
2.1- Gli artt.27 e 28 della legge 31 maggio 1995, n.218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) stabiliscono i presupposti di legalità del matrimonio (nei casi in cui alcuni elementi della fattispecie si riferiscano ad ordinamenti giuridici di diversi Stati), prevedendo, in particolare (e per quanto qui rileva) che le condizioni (soggettive) di validità “sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo…” (art.27) e che “il matrimonio è valido, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione o dalla legge nazionale di almeno uno dei coniugi…” (art.28).
L’art.115 del codice civile assoggetta, inoltre, espressamente i cittadini italiani all’applicazione delle disposizioni codicistiche che stabiliscono le condizioni necessarie per contrarre matrimonio (tale dovendosi intendere il rinvio alla sezione prima del terzo capo, del titolo sesto, del libro primo del codice civile), anche quando l’atto viene celebrato in un paese straniero.
La lettura combinata delle disposizioni citate, che disegnano un sistema regolatorio univoco circa l’identificazione degli elementi che condizionano la validità e l’efficacia del matrimonio tra cittadini italiani celebrato all’estero, esige l’enucleazione degli indefettibili requisiti sostanziali (quanto, segnatamente, allo stato ed alla capacità dei nubendi) che consentono al predetto atto di produrre, nell’ordinamento nazionale, i suoi effetti giuridici naturali.
E risulta agevole individuare la diversità di sesso dei nubendi quale la prima condizione di validità e di efficacia del matrimonio, secondo le regole codificate negli artt.107, 108, 143, 143 bis e 156 bis c.c. ed in coerenza con la concezione del matrimonio afferente alla millenaria tradizione giuridica e culturale dell’istituto, oltre che all’ordine naturale costantemente inteso e tradotto nel diritto positivo come legittimante la sola unione coniugale tra un uomo e una donna.
A prescindere, quindi, dalla catalogazione squisitamente dogmatica del vizio che affligge il matrimonio celebrato (all’estero) tra persone dello stesso sesso (che si rivela, ai fini della soluzione della questione controversa, del tutto ininfluente), deve concludersi che, secondo il sistema regolatorio di riferimento (per come dianzi riassunto), un atto siffatto risulta sprovvisto di un elemento essenziale (nella specie la diversità di sesso dei nubendi) ai fini della sua idoneità a produrre effetti giuridici nel nostro ordinamento (Cass. Civ., sez. I, 9 febbraio 2015, n.2400; sez. I, 15 marzo 2012, n.4184).
Che si tratti di atto radicalmente invalido (cioè nullo) o inesistente (che appare, tuttavia, la classificazione più appropriata, vertendosi in una situazione di un atto mancante di un elemento essenziale della sua stessa giuridica esistenza), il matrimonio omosessuale deve, infatti, intendersi incapace, nel vigente sistema di regole, di costituire tra le parti lo status giuridico proprio delle persone coniugate (con i diritti e gli obblighi connessi) proprio in quanto privo dell’indefettibile condizione della diversità di sesso dei nubendi, che il nostro ordinamento configura quale connotazione ontologica essenziale dell’atto di matrimonio.
2.2- Così riscontrata l’inattitudine del matrimonio omosessuale contratto all’estero da cittadini italiani di produrre qualsivoglia effetto giuridico in Italia, occorre esaminare il regime positivo della sua trascrivibilità negli atti dello stato civile.
Risulta, al riguardo, decisiva la previsione dell’art.64 del d.P.R. 3 novembre 2000, n.396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile) che, là dove cataloga (con un’elencazione tassativa) gli elementi e i contenuti (formali e sostanziali) prescritti per la trascrivibilità dell’atto di matrimonio, impone evidentemente (ancorchè implicitamente) all’ufficiale dello stato civile il potere (rectius: il dovere) di controllarne la presenza, prima di procedere alla trascrizione dell’atto (da valersi quale atto dovuto, pur a fronte della sua natura dichiarativa, e non costitutiva, solo se ricorrono tutte le condizioni elencate nella predetta disposizione).
Ne consegue che il corretto esercizio della predetta potestà impedisce all’ufficiale dello stato civile la trascrizione di matrimoni omosessuali celebrati all’estero, per il difetto della condizione relativa alla “dichiarazione degli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e moglie”, prevista dall’art.64, comma 1, lett. e), d.P.R. cit., quale condizione dell’atto di matrimonio trascrivibile (così come dall’art.16, d.P.R. cit., rubricato “Matrimonio celebrato all’estero”, che utilizza, evidentemente, la dizione “sposi” nell’unica accezione codicistica, codificata all’art.107 c.c., di marito e moglie).
Anche escludendo, quindi, l’applicabilità alla fattispecie considerata del fattore ostativo previsto all’art.18 d.P.R. cit. (non potendosi qualificare come contrario all’ordine pubblico il matrimonio tra persone dello stesso sesso), la trascrizione dell’atto in questione deve intendersi preclusa proprio dal difetto di uno degli indispensabili contenuti dell’atto di matrimonio trascrivibile (e la cui verifica preliminare deve ritenersi compresa nei doverosi adempimenti affidati all’ufficiale dello stato civile).
2.3- Una volta accertata l’inesistenza, alla stregua dell’ordinamento positivo, di un diritto alla trascrizione dei matrimoni omosessuali celebrati all’estero (e, quindi, la legittimità della circolare del Ministro dell’interno che la vieta), occorre verificare se il titolo rivendicato dagli originari ricorrenti possa essere affermato in esito ad un’operazione ermeneutica imposta dal rispetto di principi costituzionali o enunciati in convenzioni internazionali.
Gli appellanti incidentali sostengono, infatti, che il rispetto dei diritti e delle libertà sanciti in atti europei o in trattati internazionali ovvero riconosciuti da decisioni di organi di giustizia sovranazionali vincolino i giudici nazionali, ai sensi dell’art.117, primo comma, Cost., a una lettura dell’apparato regolatorio ut supra riassunto, nel senso di ammettere la trascrizione in Italia di matrimoni tra coppie omosessuali celebrati all’estero.
2.4.- La compatibilità del divieto, in Italia, di matrimoni tra persone dello stesso sesso (e, quindi, si aggiunga, come logico corollario, della trascrizione di quelli celebrati all’estero) è già stata scrutinata ed affermata dalla Corte Costituzionale (Corte Cost., sent. 11 giugno 2014, n.170; sent. 15 aprile 2010, n.138; ordinanze n. 4 del 2011 e n.276 del 2010), che ha chiarito come la regolazione normativa censurata risulti, per un verso, compatibile con l’art.29 della Costituzione (contestualmente interpretato come riferito alla nozione civilistica di matrimonio tra persone di sesso diverso) e, per un altro, conforme alle norme interposte contenute negli artt.12 della CEDU e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (d’ora innanzi Carta di Nizza), nella misura in cui le stesse rinviano espressamente alle legislazioni nazionali, senza vincolarne i contenuti, la disciplina dell’istituto del matrimonio, riservandosi l’eventuale delibazione dell’incostituzionalità di disposizioni legislative che introducono irragionevoli disparità di trattamento delle coppie omosessuali in relazioni ad ipotesi particolari (per le quali si impone il trattamento omogeneo tra le due tipologie di unioni).
Come si vede, dunque, il Giudice delle leggi ha già affermato la coerenza dell’omessa omologazione del matrimonio omosessuale a quello eterosessuale, alla stregua dei parametri ivi esaminati e, in particolare, a quello previsto all’art.29, che, nella lettura della Corte Costituzionale si risolve in una costituzionalizzazione del matrimonio tra persone di sesso diverso, sicchè non possono ravvisarsi margini per uno scrutinio diverso ed ulteriore della compatibilità della regolazione in questione con la Carta fondamentale della Repubblica.
2.5- Non solo, ma le medesime conclusioni si impongono anche all’esito dell’interpretazione della normativa di riferimento alla stregua degli artt.8 e 12 della CEDU, per come interpretati dalla Corte di Strasburgo (in particolare nella recente sentenza in data 21 luglio 2015, Oliari e altri contro Repubblica Italiana, indicata dagli appellanti incidentali a sostegno della prospettazione ermeneutica proposta).
La tesi sostenuta dagli appellanti incidentali, secondo la quale il rispetto del dictum del recente pronunciamento della Corte di Strasburgo imporrebbe all’interprete una lettura della normativa nazionale permissiva delle trascrizioni in questione (secondo i canoni consacrati nelle sentenze della Corte Costituzionale nn.348 e 349 del 2007, n.80 del 2011 e n.15 del 2012), per quanto brillantemente formulata ed argomentata, non persuade e non vale, in ogni caso, a superare l’infrangibile ostacolo dell’art.29 Cost. (per come inteso e valorizzato dalla Corte Costituzionale).
Una lettura attenta della sentenza c.d. Oliari, infatti, non solo non avalla l’assunto degli originari ricorrenti, ma ne costituisce, al contrario, la più efficace smentita.
La Corte di Strasburgo, infatti, con la predetta sentenza, ha, da un lato, riconosciuto la violazione da parte dello Stato italiano, con un significativo esempio di overruling, dell’art.8 della CEDU, che tutela la vita familiare, nella misura in cui non assicura alcuna protezione giuridica alle unioni omosessuali, ma ha, da un altro lato, confermato la precedente giurisprudenza (sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria) che negava la configurabilità dell’inosservanza dell’art.12 (diritto al matrimonio), e, quindi, del corrispondente art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (d’ora innanzi Carta di Nizza), ribadendo, al riguardo, che la regolazione legislativa del matrimonio e, quindi, l’eventuale ammissione di quello omosessuale (che la Corte non ritiene, in astratto, vietato) rientra nel perimetro del margine di apprezzamento e, quindi, della discrezionalità riservata agli Stati contraenti.
Lungi, quindi, dall’affermare l’obbligo della Repubblica italiana di riconoscere il diritto al matrimonio omosessuale, la Corte di Strasburgo ha espressamente e chiaramente negato la sussistenza e, quindi, a fortiori, la violazione di tale (presunto) diritto, limitandosi ad imporre allo Stato di assicurare una tutela giuridica alle unioni omosessuali (ma, anche qui, riconoscendo un margine di apprezzamento, seppur più limitato, nella declinazione delle sue forme e della sua intensità).
2.6- Ma, anche esaminando la questione sotto il dedotto profilo del necessario rispetto delle libertà di circolazione e di soggiorno (per come enunciate dagli artt.20, 21, comma 1, e 18 TFUE e 21 della Carta di Nizza), si perviene alle stesse conclusioni.
Perché possano giudicarsi violate le predette libertà, infatti, con conseguente obbligo dei giudici nazionali di disapplicare la normativa nazionale che ne costituisce limitazione o impedimento, è necessario che la fattispecie giudicata rientri entro i confini del diritto europeo, in quanto direttamente regolata da atti dell’Unione o in quanto espressamente attribuita dai Trattati alle sue competenze istituzionali, dovendo, altrimenti, negarsi ogni rilievo alle predette libertà, là dove interferiscano con disposizioni nazionali del tutto estranee al perimetro della regolazione europea e non siano funzionali alla garanzia della sua piena attuazione (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza 15 novembre 2011, causa C-2561/11; sentenza 5 ottobre 2010, causa C-400/10).
Nel caso di specie, tuttavia, come già visto, la regolazione legislativa del matrimonio, e, di conseguenza, anche i presupposti del riconoscimento giuridico dei matrimoni celebrati in un Paese straniero (ivi compresi quelli appartenenti all’Unione Europea) esula dai confini del diritto europeo (non essendo dato di rinvenire alcuna previsione europea che vincoli gli Stati membri ad un’opzione regolatoria, che, anzi, resta espressamente riservata alla discrezionalità dei singoli Stati proprio dall’art.9 della Carta di Nizza) ed attiene, in via esclusiva, alla sovranità nazionale, di talchè resta inconfigurabile, nella fattispecie considerata, qualsivoglia violazione delle libertà di circolazione e di soggiorno.
2.7- Non appare, in definitiva, configurabile, allo stato del diritto convenzionale europeo e sovranazionale, nonché della sua esegesi ad opera delle Corti istituzionalmente incaricate della loro interpretazione, un diritto fondamentale della persona al matrimonio omosessuale, sicchè il divieto dell’ordinamento nazionale di equiparazione di quest’ultimo a quello eterosessuale non può giudicarsi confliggente con i vincoli contratti dall’Italia a livello europeo o internazionale.
Ne consegue che, a fronte della pacifica inconfigurabilità di un diritto (di genesi nazionale o sovranazionale) al matrimonio omosessuale, resta preclusa all’interprete ogni opzione ermeneutica creativa che conduca, all’esito di un’operazione interpretativa non imposta da vincoli costituzionali o (latu sensu) internazionali, all’equiparazione (anche ai meri fini dell’affermazione della trascrivibilità di matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso) dei matrimoni omosessuali a quelli eterosessuali.
2.8- Non solo, ma il dibattito politico e culturale in corso in Italia sulle forme e sulle modalità del riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali sconsiglia all’interprete qualsiasi forzatura (sempre indebita, ma in questo contesto ancor meno opportuna) nella lettura della normativa di riferimento che, allo stato, esclude, con formulazioni chiare e univoche, qualsivoglia omologazione tra le unioni eterosessuali e quelle omosessuali.
2.9- Si aggiunga, quale argomento conclusivo, che, aderendo alla tesi prospettata dagli originari ricorrenti, si finirebbe per ammettere, di fatto, surrettiziamente ed elusivamente il matrimonio omosessuale anche in Italia, tale essendo l’effetto dell’affermazione della trascrivibilità di quello celebrato all’estero tra cittadini italiani, nonostante l’assenza di una previsione legislativa che lo consenta e lo regoli (e, anzi, in un contesto normativo che lo esclude chiaramente, ancorchè tacitamente) e, quindi, della relativa scelta (libera e politica) del Parlamento nazionale (che, si ripete, resta l’unica autorità titolare della relativa decisione, come chiarito anche dalla Corte di Strasburgo).
2.10- Alle considerazioni che precedono consegue, quindi, la reiezione dell’appello incidentale.
3.- Occorre, a questo punto, procedere all’esame dell’appello principale, con il quale il Ministero dell’interno critica il giudizio di illegittimità del decreto prefettizio di annullamento delle trascrizioni, disposte dal Sindaco di Roma Capitale, di matrimoni tra coppie omosessuali celebrati all’estero e della presupposta circolare.
3.1- Come già rilevato in fatto, i giudici di prima istanza, pur avendo riconosciuto l’illegittimità delle predette trascrizioni, hanno negato al Prefetto il potere di annullarle d’ufficio, reputando la relativa potestà riservata in via esclusiva al giudice ordinario (per effetto del combinato disposto degli artt.95 d.P.R. cit. e 453 c.c.).
Il Ministero appellante critica tale statuizione, sulla base dell’assunto (in sintesi) che il potere gerarchico di sovraordinazione del Prefetto al Sindaco, quale ufficiale di governo delegato alla tenuta dei registri di stato civile, comprende, in sé, anche quello (generale) di autotutela sugli atti adottati contra legem dall’organo subordinato.
3.2- Lo scrutino della fondatezza della predetta tesi esige una preliminare ricognizione dei caratteri della relazione interorganica tra Prefetto e Sindaco, nell’espletamento delle competenze considerate.
Nel nostro ordinamento l’esercizio di alcune funzioni di competenza statale è stato affidato al Sindaco, che le esercita non come vertice dell’ente locale, ma nella diversa qualità di ufficiale di governo.
Tale peculiare modalità organizzatoria è stata, in particolare, decisa con riferimento alle funzioni che esigono un rapporto di prossimità con i cittadini e il cui esercizio è parso al legislatore più efficacemente esercitabile dall’organo di vertice dell’ente locale più vicino ai cittadini (il Comune).
Tra le materie affidate alla cura del Sindaco quale ufficiale di governo è compresa anche la tenuta dei registri di stato civile, ad esso attribuita dall’art.54, comma 3, d.lgs. 18 ottobre 2000, n.267.
Il particolare modello organizzativo in esame implica che la titolarità della funzione resta intestata all’amministrazione centrale (e, segnatamente, al Ministero dell’interno) e che il Sindaco la esercita solo quale organo delegato dalla legge.
Un ulteriore corollario della titolarità statale della funzione attinente alla tenuta dei registri di stato civile è che il Sindaco resta soggetto, nell’esercizio delle pertinenti funzioni, alle istruzioni impartite dal Ministero dell’interno, alle quali è tenuto a conformarsi (art.54, comma 12, d.lgs. cit. e art.9, comma 1, d.P.R. cit.).
La potestà di sovraordinazione dell’Amministrazione centrale sull’organo per legge delegato all’esercizio di una sua funzione si esplica, poi, per mezzo dell’assegnazione al Prefetto, che esercita istituzionalmente l’autorità del Ministero dell’interno sul territorio, dei poteri di vigilanza sulla tenuta degli atti dello stato civile (art.9, comma 2, d.P.R. cit.) e di sostituzione al Sindaco, in caso di sua inerzia nell’esercizio di taluni compiti (art.54, comma 11, d.lgs. cit.).
Si tratta, come si vede, di un sistema coerente e coordinato di disposizioni che configurano la relazione interorganica in questione come di subordinazione del Sindaco al Ministero dell’interno, e, per esso, al Prefetto, e che assoggettano, quindi, il primo ai poteri di direttiva e di vigilanza del secondo (Cass. SS. UU., 13 ottobre 2009, n.21658; Cass. Civ., sez. I, 14 febbraio 2000, n.1599).
Tale soggezione risulta, in particolare, il più logico corollario della titolarità della funzione in capo al Ministero dell’interno e della mera assegnazione al Sindaco, quale ufficiale di governo, dei compiti attinenti al suo esercizio.
Il vincolo di subordinazione del Sindaco al Ministero dell’interno obbedisce, inoltre, all’esigenza di assicurare l’uniformità di indirizzo nella tenuta dei registri dello stato civile su tutto il territorio nazionale e che resterebbe vanificata se ogni Sindaco potesse decidere autonomamente sulle regole generali di amministrazione della funzione o, peggio, se potesse disattendere, senza meccanismi correttivi interni all’apparato amministrativo, le istruzioni ministeriali impartite al riguardo.
3.3- Così ricostruita la natura del rapporto interorganico in questione, occorre accertare se, tra i poteri assegnati al Prefetto, resti o meno incluso quello di annullare gli atti dello stato civile di cui il Sindaco ha ordinato contra legem la trascrizione.
Reputa il Collegio che la potestà in questione debba intendersi implicitamente implicata dalle funzioni di direzione (art.54, comma 12, d.lgs. cit.), sostituzione (art.54, comma 11, d.lgs. cit.) e vigilanza (art.9, comma 2, d.P.R. cit.).
In ossequio ai criteri ermeneutici sistematico e teleologico, infatti, le predette disposizioni devono necessariamente intendersi come comprensive anche del potere di annullamento gerarchico d’ufficio da parte del Prefetto degli atti illegittimi adottati dal Sindaco, nella qualità di ufficiale di governo, senza il quale, peraltro, il loro scopo evidente, agevolmente identificabile nell’attribuzione al Prefetto di tutti i poteri idonei ad assicurare la corretta gestione della funzione in questione, resterebbe vanificato.
A ben vedere, infatti, se si negasse al Prefetto la potestà in questione, la sua posizione di sovraordinazione rispetto al Sindaco (allorchè agisce come ufficiale di governo), in quanto chiaramente funzionale a garantire l’osservanza delle direttive impartite dal Ministro dell’interno ai Sindaci e, in definitiva, ad impedire disfunzioni o irregolarità nell’amministrazione dei registri di stato civile, rimarrebbe inammissibilmente sprovvista di contenuti adeguati al raggiungimento di quel fine.
Tale conclusione è stata già raggiunta dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. St., sez. V, 19 giugno 2008, n. 3076), se pur nell’esame dell’esercizio di una diversa funzione amministrata dal Sindaco quale ufficiale di governo (la sicurezza pubblica), proprio in esito ad una coerente ricostruzione della natura e delle finalità della relazione interorganica in questione ed alla conseguente valorizzazione dell’esigenza di assicurare la correttezza e l’uniformità dell’amministrazione dei compiti statali delegati dalla legge al Sindaco.
E non vale enfatizzare le differenze tra le due situazioni, trattandosi, in entrambi i casi, della correzione, da parte del Prefetto, di disfunzioni amministrative imputabili al Sindaco (ed apparendo, anzi, nel caso di specie, ancora più pregnante l’esigenza di autotutela, a fronte di un atto non solo illegittimo, ma inesistente o, comunque, abnorme, nel senso etimologico latino di “fuori dalla norma”).
Dev’essere, quindi, affermata la sussistenza, in capo al Prefetto, della potestà di annullare le trascrizioni in questione, quale potere compreso certamente, ancorchè implicitamente, nelle funzioni di direzione, sostituzione e vigilanza attribuitegli dall’ordinamento nella materia in discussione.
3.5- Non è, quindi, necessario invocare l’art.21-nonies legge 7 agosto 1990, n.241 a fondamento del potere di autotutela controverso, potendosi risolvere favorevolmente il problema della sua esistenza in esito all’analisi interpretativa che precede.
Non può, tuttavia, non osservarsi, al riguardo, che non si ravvisano ostacoli all’applicazione della predetta, generale disposizione alla fattispecie in esame, là dove attribuisce il potere di annullare d’ufficio un atto illegittimo non solo all’organo che lo ha emanato, ma anche “ad altro organo previsto dalla legge”.
Non può, in particolare, ritenersi preclusiva, a tal fine, l’osservazione del difetto di una disposizione legislativa che preveda il potere del Prefetto di annullare d’ufficio gli atti dello stato civile illegittimamente adottati dal Sindaco, posto che, se si accedesse all’opzione ermeneutica per cui la norma citata esige, per la sua applicazione, l’esplicita attribuzione legislativa del potere di annullare in autotutela gli atti adottati da un altro organo, la stessa risulterebbe priva di qualunque senso in quanto inutilmente ripetitiva di una potestà già assegnata da un’altra norma (con la conseguenza che la stessa prospettazione interpretativa dev’essere disattesa).
La disposizione in esame dev’essere, viceversa, letta ed applicata nel senso che è ammesso l’annullamento d’ufficio di un atto illegittimo da parte di un organo diverso da quello che lo ha emanato in tutte le ipotesi in cui una disposizione legislativa attribuisce al primo una potestà di controllo e, in generale, di sovraordinazione gerarchica che implica univocamente anche l’esercizio di poteri di autotutela.
E non vale neanche a negare l’applicabilità al caso controverso dell’art.21 nonies legge cit. il rilievo, a dire il vero poco comprensibile, che la trascrizione di un atto dello stato civile non può essere qualificata come un provvedimento amministrativo, ma come un “atto pubblico formale” (e come tale, pare di capire, estraneo all’ambito applicativo della predetta disposizione).
E’ sufficiente, al riguardo, osservare che la suddetta distinzione non trova alcun fondamento positivo e che vanno qualificati come provvedimenti amministrativi tutti gli atti, con rilevanza esterna, emanati da una pubblica amministrazione, ancorchè privi di efficacia autoritativa o costituiva e dotati di soli effetti accertativi o dichiarativi, con la conseguenza che anche gli atti dello stato civile devono essere compresi nel perimetro dell’ambito applicativo della disposizione in commento (e che, per la sua valenza generale, non tollera eccezioni o deroghe desunte in esito a incerti percorsi ermeneutici).
3.6. Così riconosciuto, in capo al Prefetto, il potere di autotutela in questione, occorre verificare se il sistema di regole che assegna al giudice civile i poteri di controllo, rettificazione e cancellazione degli atti dello stato civile (e integrato dal combinato disposto degli artt.95 d.P.R. cit. e 453 c.c.) costituisca o meno un limite o, addirittura, una preclusione al suo esercizio (come ritenuto dai giudici di primo grado).
Le disposizioni citate, in effetti, paiono (a una prima lettura) devolvere in via esclusiva al giudice ordinario i poteri di cognizione e di correzione degli atti dello stato civile.
Sennonchè, a ben vedere, il relativo apparato regolatorio postula, per la sua applicazione, l’esistenza di atti astrattamente idonei a costituire o a modificare lo stato delle persone, tanto da imporre un controllo giurisdizionale sulla loro corretta formazione, con la conseguenza dell’estraneità al suo ambito applicativo di atti radicalmente inefficaci, quali le trascrizioni in parola, e, quindi, del tutto incapaci (per quanto qui rileva) di assegnare alle persone menzionate nell’atto lo stato giuridico di coniugato.
L’esigenza del controllo giurisdizionale, infatti, si rivela del tutto recessiva (se non inesistente), a fronte di atti inidonei a costituire lo stato delle persone ivi contemplate, dovendosi, quindi, ricercare, per la loro correzione, soluzioni e meccanismi anche diversi dalla verifica giudiziaria.
Non solo, ma il sistema di regole in esame risulta costruito come funzionale (unicamente) alla tutela dei diritti e degli interessi delle persone fisiche contemplate (o pretermesse) nell’atto, e non anche alla protezione di interessi pubblici, tanto che l’art.95, comma 2, d.P.R. cit., assegna al Procuratore della Repubblica una iniziativa meramente facoltativa (usando appositamente il verbo potere: “Il Procuratore della Repubblica può…promuovere”).
Se la norma fosse stata concepita anche a tutela di un interesse pubblico, infatti, la disposizione sarebbe stata formulata con l’uso del verbo promuovere all’indicativo presente, e, cioè, con la previsione della doverosità dell’istanza, quando risulta necessaria a ripristinare la legalità violata (sarebbe stata cioè formulata con l’espressione: “Il Procuratore della Repubblica promuove il procedimento…”).
L’art.453 c.c., peraltro, per la sua univoca formulazione testuale, deve intendersi limitato all’affidamento al giudice ordinario dei soli poteri di annotazione e non può, di conseguenza, ritenersi ostativo all’esercizio dei (diversi) poteri di eliminazione dell’atto da parte dell’autorità amministrativa titolare della funzione di tenuta dei registri dello stato civile.
3.7- Né la già rilevata inefficacia degli atti in questione priva di significato l’intervento di autotutela in questione, posto che, al contrario, proprio la permanenza di un’apparenza di atto, che, ancorchè inefficace, potrebbe legittimare (finchè materialmente esistente) richieste ed istanze alla pubblica amministrazione di prestazioni connesse allo stato civile di coniugato (con conseguenti complicazioni burocratiche e, probabilmente, ulteriori contenziosi), impone la sua eliminazione dal mondo del diritto.
E tale esigenza risulta soddisfatta solo dall’identificazione di uno strumento (anche) amministrativo (e non necessariamente giurisdizionale) di correzione di atti dello stato civile abnormi (nel senso etimologico già ricordato) ed eseguiti in difformità dalle istruzioni impartite dall’autorità statale titolare della funzione.
Solo gli interventi dei Prefetti in autotutela gerarchica valgono, in effetti, a rimuovere, con garanzie di uniformità su tutto il territorio nazionale, un’apparenza di atto (che, finchè resta in vita, appare idoneo a generare incertezze e difficoltà amministrative) e, quindi, in definitiva, ad assicurare la certezza del diritto connessa a questioni relative allo stato delle persone.
L’esigenza appena segnalata non risulta, infatti, garantita dalla riserva in via esclusiva del potere di cancellazione delle trascrizioni al giudice ordinario che, proprio per il carattere diffuso e indipendente della sua attività, rischia di vanificare, con interpretazioni diverse e contrastanti, l’esigenza di uniformità di indirizzo su una questione così delicata (come dimostra il decreto in data 13 marzo 2015, con cui la Corte d’Appello di Napoli ha ordinato la trascrizione di un matrimonio omosessuale celebrato all’estero).
3.8- Alle considerazioni che precedono consegue, in definitiva, l’accoglimento dell’appello del Ministero e, in riforma del capo di decisione impugnato, l’integrale reiezione del ricorso di primo grado contro il provvedimento con cui il Prefetto di Roma ha annullato le trascrizioni dei matrimoni omosessuali celebrati all’estero dagli originari ricorrenti.
4.- La novità della questione trattata e la natura degli interessi controversi giustificano la compensazione tra le parti delle spese del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, respinge l’appello incidentale, accoglie quello principale e, in parziale riforma della decisione appellata, respinge il ricorso di primo grado e compensa le spese di entrambi i gradi di giudizio
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Vista la richiesta dell'interessato e ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1, D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'annotazione di cui ai commi 1 e 2 della medesima disposizione, nei termini indicati nella predetta istanza.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 ottobre 2015 con l'intervento dei magistrati:
Giuseppe Romeo, Presidente
Carlo Deodato, Consigliere, Estensore
Salvatore Cacace, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Pierfrancesco Ungari, Consigliere

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 26/10/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)