Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 27 Ottobre 2015

Ordinanza 04 marzo 2015, n.164

Tribunale di Milano. Ordinanza 4 marzo 2015, n. 164: "Divieto di ricorrere alla fecondazione assistita ed alla diagnosi preimpianto alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili".

TRIBUNALE DI MILANO
Sezione I Civile

R.B. e S.D., elettivamente domiciliati in Milano, via Giovanni Battista Carta n. 36, presso lo studio dell'avv. Lara Giglio che, unitamente all'avv. Gianni Baldini, li rappresenta e difende come da procura in calce al ricorso introduttivo;
Ricorrenti contro Fondazione IRCCS Ca' Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Milano, via XX Settembre n. 24, presso lo studio dell'avv. Valerio Onida e dell'avv. Barbara Randazzo che la rappresentano e difendono come da procura a margine della
comparsa di costituzione;
Resistente il giudice, a scioglimento della riserva assunta all'udienza del 12 febbraio 2015, letti gli atti di causa e vista la documentazione prodotta ha emesso la seguente;

Ordinanza

Con ricorso ex art. 700 del codice di procedura penale, depositato il 2 ottobre 2014 R.B. e S.D. evocavano in giudizio l'Ospedale Maggiore Policlinico, in persona del legale rappresentante pro tempore, deducendo, in fatto: ehe erano conviventi sin dal 2001; che il sig. S. era affetto da esostosi multiple ereditarie (EME), patologia irreversibile, trasmissibile geneticamente con modalita' autosomica dominante che coinvolgeva tutto l'apparato scheletrico; che volevano accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, precedute da diagnosi pre-impianto, in quanto la natura della malattia avrebbe determinato un rischio di trasmissione, con mutazioni anche piu' gravi, nella misura pari al 50%; che, a causa della patologia del sig. S. la coppia doveva essere ritenuta non fertile, in quanto vi sarebbe stato un alto rischio di trasmettere la
patologia genetica incurabile, con esiti infausti, alla prole; che, il 2 luglio 2014, si erano rivolti all'Ospedale Maggiore Policlinico (di seguito, per brevita', solo Policlinico) per accedere alla fecondazione medicalmente assistita e per effettuate l'indagine clinica diagnostica sull'embrione; che, con referto n. 1155642, a firma della dott.ssa R.B. ai ricorrenti era stato suggerito di rivolgersi a centri per la diagnosi genetica preimpianto per l'esostosi multipla ereditaria; che il Policlinico era un centro pubblico autorizzato ad applicare tecniche di II livello, dotato di tutta la strumentazione e le attrezzature necessarie e che, pertanto, ben poteva eseguire la diagnosi preimpianto richiesta dalla coppia;
che, a fronte del diniego della struttura pubblica resistente, i ricorrenti si erano recati, per due volte, in Grecia ove avevano effettuato la diagnosi preimpianto in vista della procreazione medicalmente assistita (sostenendo costi pari ad euro 13.097,54), ma che tali tentativi non avevano dato esito positivo; che i ricorrenti non avevano la possibilita' di realizzare in altro modo il loro diritto a diventare genitori, non avendo condizioni personali e lavorative o mezzi economici sufficienti per effettuare la diagnosi
preimpianto nei centri privati.
Premessi tali elementi di fatto, in diritto, e con particolare riferimento al requisito del fumus boni iuris, evidenziavano: che il diniego opposto dalla struttura sanitaria convenuta determinava l'impossibilita' di conoscere lo stato di salute dell'embrione e provocava la lesione di diritti costituzionalmente garantiti (articoli 2, 13, 29 e 32 Cost.) alla salute dei genitori, del nascituro, all'autodeterminazione (consentita dalla conoscenza dello stato di salute dell'embrione), alla realizzazione della personalita' attraverso la genitorialita'; che, in particolare, era leso il diritto all'eguaglianza dei cittadini, atteso che solo i piu' abbienti potevano recarsi in strutture di procreazione medicalmente assistita private; che si era realizzata, altresi', una violazione dell'art. 9 Cost. in quanto il rifiuto opposto dal Policlinico aveva impedito ai ricorrenti di valersi dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica; che tali principi erano stati affermati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (nella sentenza Costa Pavan c. Italia) e dalla giurisprudenza nazionale; che il diritto di procreare senza il concreto ed attuale rischio di compromissione della salute del nascituro e della donna costituiva una specificazione dell'art. 8 della Cedu, avente natura di diritto fondamentale della persona; che il divieto di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita per effettuare diagnosi preimpianto per le coppie portatrici di grave patologia genetica trasmissibile alla prole costituiva una irragionevole e sproporzionata compressione di un fondamentale diritto soggettivo; che, a fronte della pronuncia della Corte Edu, il giudice avrebbe dovuto disapplicare la normativa nazionale contrastante con le disposizioni Cedu oppure, non ritenendo possibile un'interpretazione adeguatrice alla norma interposta, sollevare questione di legittimita' costituzionale; che la legge n. 40/2004 presentava numerosi profili di illegittimita' costituzionale, risultando contraria al disposto degli articoli 2, 3, 32, 117, comma 1 in relazione agli articoli 8 e 14 della Cedu.
In merito al periculum in mora evidenziavano che, in ragione dell'eta' della sig. B. (35 anni) e della grave patologia del ricorrente, che aveva delle ripercussioni anche sul piano psicofisico della coppia, il trascorrere del tempo avrebbe comportato un aumento della percentuale di insuccesso delle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Concludevano, pertanto, chiedendo: 1) nel merito e, in via principale, dichiarare il diritto dei ricorrenti di: a) ricorrere alle metodiche di procreazione medicalmente assistita;
b) ottenere l'esecuzione di indagini cliniche diagnosticate sull'embrione; c) sottoporsi ad un protocollo di PMA adeguato ad assicurare le piu' alte chances di risultato utile compatibilmente con quanto stabilito nella sentenza Corte Cost. 151/09; d) sottoporsi ad un trattamento medico eseguito secondo tecniche e modalita' compatibili con un elevato livello di tutela della salute della donna nel caso concreto; ordinare all'Ospedale Policlinico Maggiore di Milano di ottemperare agli obblighi previsti dalla legge n. 40/2004 eseguendo le indagini cliniche e diagnostiche sull'embrione previste per legge ed il trasferimento in utero della sig.ra B.R. solo di embrioni sani, nonche' pronunciare ogni altro provvedimento ritenuto opportuno e conseguente; 2) in via subordinata, disapplicare gli articoli 1, commi 11 e 2, 4 comma 1 della legge n. 40/2004 per
contrasto con l'art. 8 della Cedu e per l'effetto dichiarare il diritto dei ricorrenti come sopra declinato; 3) in via ulteriormente subordinata, sollevare la questione di legittimita' costituzionale degli articoli 1, commi 1 e 2 e 4 della legge n. 40/2004, per contrasto con gli articoli 11 e 117 Cost, per violazione degli articoli 2, 3, 13 e 32 Cost.; in ogni caso accertare il diritto dei ricorrenti, stante l'indisponibilita' del Policlinico ad eseguire la metodica di diagnosi preimpianto, al rimborso delle spese sostenute per effettuare le dette analisi nei centri medici stranieri, con vittoria di spese, competenze ed onorari, da distrarsi in favore dei difensori che si dichiarano antistatari.
Con decreto del 7 ottobre 2014 il giudice fissava per la comparizione delle parti l'udienza del 23 ottobre 2014.
La Fondazione 1RCCS Ca' Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, in persona del legale rappresentante pro tempore, con comparsa depositata il 22 ottobre 2014, si costituiva deducendo: che non sussisteva il requisito del fumus boni iuris, atteso che il Policlinico non aveva rifiutato la prestazione in ragione del disposto della legge n. 40/2004, ma solo a causa di problemi di ordine tecnico legati alla mancanza di strumentazione e delle specifiche competenze necessarie; che difettava, altresi', il requisito del periculum in mora in quanto le diagnosi preimpianto e la procreazione medicalmente assistita, in una coppia giovane come i ricorrenti, erano procedimenti ripetibili indefinitamente nel tempo in caso di insuccesso; che la malattia genetica dalla quale era affetto il sig. S. era una malattia rara, non mortale ne' gravemente invalidante e che il test genetico volto a verificare la presenza della detta malattia avrebbe richiesto l'adozione di particolari tecniche e strumentazioni, non in possesso dell'ente convenuto; che
il test genetico e le tecniche di procreazione medicalmente assistita richieste dai ricorrenti non rientravano tra le prestazioni poste a carico del Servizio sanitario nazionale; che l'eventuale contrasto tra una disposizione di legge interna e la Convenzione europea non avrebbe potuto dar luogo al potere-dovere di disapplicazione, da parte del giudice il quale avrebbe dovuto, invece, sollevare questione di legittimita' costituzionale; che, nel caso in esame tale questione sarebbe stata comunque inammissibile per difetto di rilevanza, atteso che il Policlinico non aveva contestato il diritto dei ricorrenti, coppia fertile, ad accedere alla diagnosi preimpianto in vista della procreazione medicalmente assistita, ma aveva evidenziato che tale prestazione non rientrava tra quelle obbligatorie per il Servizio sanitario nazionale e che, per difficolta' tecniche, l'ente resistente non poteva eseguirla.
Concludeva, pertanto, chiedendo dichiarare inammissibili e comunque infondate le richieste di parte ricorrente, con vittoria di spese ed onorari.
Nel corso del procedimento le parti depositavano memorie integrative.
Con memoria depositata il 15 dicembre 2014 i ricorrenti evidenziavano che: la domanda era volta ad ottenere una specifica prestazione sanitaria in quanto parte integrante della prestazione di procreazione medicalmente assistita, incidente sul diritto alla salute del paziente in modo primario; le censure relative alla tipologia della malattia genetica che affliggeva il sig. S. erano del nato inconferenti attese le numerose limitazioni che la stessa comportava e la necessita' di valutare tale patologia alla luce della rappresentazione del proprio progetto genitoriale e dell'integrita' psico fisica della coppia e del nascituro; che l'esecuzione della diagnosi preimpianto non avrebbe richiesto strumentazioni cosi' sofisticate, come allegato dalla difesa dell'ente resistente.
Con memoria di replie,a il Policlinico deduceva: che era stato istituito un tavolo di lavoro presso la DG salute della regione Lombardia, con lo scopo di elaborare una proposta di linee di indirizzo per l'applicazione della diagnosi preimpianto all'interno di un percorso assistenziale completo relativo alla coppia che accede alla procreazione medicalmente assistita; che, con determinazione del 12 dicembre 2014 si era stabilito, altresi', di procedere all'effettuazione della diagnosi preimpianto, ancorche' non dovuta, nei confronti delle coppie che potevano accedere alla PMA, ai sensi della legge n. 40/2004 per le malattie genetiche che, in ragione del grado di trasmissibilita', del rischio di trasmissione e del livello di espressivita' siano mortali o avessero un rilevante impatto sulla qualita' della vita; che il diritto invocato dai ricorrenti, non affermato da alcuna disposizione di legge, potrebbe essere affermato solo all'esito di una pronuncia della Corte costituzionale; che la questione di legittimita' costituzionale sarebbe comunque irrilevante in ragione del fatto che i ricorrenti hanno agito per ottenere dal Policlinico una prestazione per la quale lo stesso non dispone, allo stato, di condizioni tecniche ed organizzative necessarie.
All'udienza del 12 febbraio 2015 le parti discutevano oralmente la causa – anche con riferimento all'elemento sopravvenuto, noto ad entrambe, relativo all'inclusione della PMA nei livelli essenziali di assistenza – ed il giudice riservava la decisione.  
1. Il diritto vantato dai ricorrenti.
Prima di esaminare il contenuto del diritto azionato in via cautelare, appare opportuno chiarire che la domanda volta ad ottenere la restituzione delle somme versate dai ricorrenti per eseguire la diagnosi reimpianto presso centri siti all'estero deve essere dichiarata inammissibile per difetto dei requisiti previsti dall'art. 700 del codice di procedura civile (requisiti, peraltro, neanche specificamente allegati in merito alla detta domanda da parte ricorrente).
Cio' posto, con il ricorso in esame R.B. e D.S., premesso di essere una coppia fertile nella quale uno dei futuri genitori e' affetto da una grave patologia geneticamente trasmissibile, hanno chiesto al tribunale di Milano di ordinare al Policlinico di consentire ai ricorrenti di ricorrere alle metodiche di procreazione medicalmente assistita e di eseguire, come parte integrante delle stesse, le necessarie indagini cliniche preimpianto al fine poter mettere al mondo un figlio non affetto da esostosi multiple ereditarie.
Hanno rappresentato la sussistenza dei requisiti del periculum in mora e del fumus boni iuris.
Del tutto preliminare, sebbene non specificamente argomentato dalle parti, l'esame del nesso di strumentalita' tra il procedimento cautelare (anticipatorio, come nel caso in esame) e quello di merito.
In via generale deve condividersi l'orientamento seguito da buona parte della giurisprudenza di merito, secondo cui il ricorso contenente una domanda cautelare proposta prima dell'inizio della causa di merito deve contenere l'esatta indicazione di quest'ultima o, almeno, deve consentirne l'individuazione in modo certo, in quanto solo tale indicazione consente di accertare il carattere strumentale, rispetto al diritto cautelando, della misura richiesta (cfr. in tal senso: tribunale di Torino, 7 maggio 2007; tribunale di Torino, 23 agosto 2002; tribunale Bari, 12 dicembre 2002; tribunale Roma, 14 giugno 2001; tribunale Monza, 24 gennaio 2000; tribunale Napoli, 30 aprile 1997).
Nel caso in esame ricorrenti hanno precisato le domande che avrebbero svolto nel giudizio ordinario, evidenziando che «e' intenzione dei ricorrenti agire in via ordinaria per ottenere l'affermazione del loro diritto di accedere alle pratiche di procreazione assistita con PGD ed ottenere un provvedimento che consenta al centro medico di adempiere alla loro richiesta».
Deve, pertanto, ritenersi soddisfatto il requisito relativo alla necessaria strumentalita' tra il procedimento cautelare e quello di merito.
Cio' posto, i ricorrenti chiedono di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, in quanto coppia fertile, portatrice di patologia geneticamente trasmissibile, e di potersi avvalere del servizio di diagnosi preimpianto in modo da conoscere l'eventuale trasmissione della patologia all'embrione.
Solo per completezza, si rileva che – come allegato dalla difesa dei ricorrenti all'udienza di discussione e non contestato dall'ente resistente – la procreazione medicalmente assistita e' ora inclusa tra le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale e' tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione.
Nel merito, si osserva che la c.d. diagnosi preimpianto e' disciplinata dagli articoli 13 e 14 della legge n. 40/2004. In particolare l'art. 13, comma 2, dispone che: «la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano e' consentita a condizione che si perseguano finalita' esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell'embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative», mentre l'art. 14, comma 5, prevede che «i soggetti di cui all'art. 5 sono informati sul numero e, su loro richiesta, sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell'utero».
La ricerca clinica sull'embrione e' dunque consentita, con limiti ben determinati, all'interno di un procedimento di procreazione medicalmente assistita che, come evidenziato poco sopra, costituisce l'oggetto della domanda cautelare spiegata dalle parti.
Ritiene, pertanto, questo giudice che la valutazione relativa alla possibilita' di interpretare le disposizioni relative alla diagnosi preimpianto in modo conforme alla Costituzione (cosi' come fatto da parte della giurisprudenza di merito, cfr. tribunale di Cagliari, ord. 22-24 settembre 2007, tribunale Firenze ord. 17 dicembre 2007, tribunale Firenze, ord. 11 luglio 2008, tribunale Milano, ord. 8 marzo 2009) non consentirebbe di rispondere alle domande spiegate dai ricorrenti, i quali hanno promosso l'odierno ricorso allo scopo di eseguire un test (mirato alla diagnosi di una specifica malattia genetica), preliminare alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (funzionali ad evitare di mettere al mondo un figlio affetto dalla grave patologia genetica dalla quale e' affetto il sig. S.
Del tutto preliminare, quindi, e' accertare se i ricorrenti abbiano diritto di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
La legge n. 40/2004, all'art. 4, dispone che: «il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita e' consentito solo quando sia accertata l'impossibilita' di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed e' comunque circoscritto ai casi di sterilita' o di infertilita' inspiegate documentate da atto medico nonche' ai casi di sterilita' o di infertilita' da causa accertata e certificata da atto medico». Secondo le nuove linee guida dettate dal Ministero della salute nel 2008 (decreto 11 aprile 2008, n. 31639, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 30 aprile 2008), inoltre, il ricorso alle tecniche di PMA e' consentito anche ai casi in cui l'uomo sia portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili.
Le disposizioni appena richiamate circoscrivono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ai soli casi di sterilita', infertilita' o di coppia in cui l'uomo sia portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili.
I ricorrenti, come evidenziato poco sopra, non si trovano in alcuna delle fattispecie in cui e' riconosciuto il diritto della coppia a ricorrere alle tecniche di PMA in quanto la coppia e' fertile e l'uomo e' portatore di una patologia geneticamente trasmissibile.
La stessa conclusione si ricava dalla lettura dell'art. 1, commi 1 e 2, della legge in esame. L'accesso alla procreazione medicalmente assistita, come specificamente argomentato dalla difesa dei ricorrenti, e' il presupposto perche' la coppia fertile possa accedere alla diagnosi, alla quale il ricorso alla tecnica e' finalizzato, e conoscere se l'embrione sara' affetto dalla patologia genetica prima di accedere all'impianto in utero, cosi' da evitare la scelta di una eventuale interruzione di gravidanza.
Il limite al ricorso alla PMA, posto alle coppie fertili dagli articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 4, appare dunque in contrasto con gli articoli 2, 3 e 32 Cost. in quanto violerebbe il diritto all'autodeterminazione nelle scelte legate alla procreazione, il principio di eguaglianza, di ragionevolezza e il diritto alla salute, costringendo le coppie fertili, portatrici di malattia geneticamente trasmissibile, come la coppia B. S., ad una gravidanza naturale ed all'eventuale aborto terapeutico.
Il predetto limite si pone altresi' in contrasto con l'art. 117, comma 1 Cost., in relazione agli articoli 8 e 14 della Cedu.
2. Superamento del limite di accesso alla PMA per le coppie fertili, attraverso la disapplicazione delle disposizioni ritenute in contrasto o attraverso una lettura costituzionalmente o convenzionalmente orientata.
Per valutare la possibilita' di superare il predetto contrasto attraverso la disapplicazione degli articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1 della legge n. 40/2004 e dunque una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni in esame, occorre esaminare quanto affermato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nella sentenza Costa e Pavan c. Italia 28 agosto 2012.
La Corte Edu, senza operare distinzioni tra diagnosi preimpianto e procreazione medicalmente assistita, essendo la prima necessariamente funzionale alla seconda, ha chiarito che «il desiderio dei ricorrenti di mettere al mondo un figlio non affetto dalla malattia genetica di cui sono portatori sani e di ricorrere, a tal fine, alla procreazione medicalmente assistita e alla diagnosi pre-impianto rientra nel campo della tutela offerta dall'art. 8» della Convenzione. Ha poi ritenuto con riferimento alla fattispecie sottoposta al suo esame (il diritto invocato dai ricorrenti, coppia fertile, di accedere alla diagnosi preimpianto per poter generare un figlio non affetto da mucoviscidosi) l'irragionevolezza del divieto imposto dall'art. 4 alle coppie non affette da sterilita', ma che siano portatrici di malattia ereditaria con conseguente rischio di trasmissione al concepito, di accedere alla procreazione medicalmente assistita e, segnatamente, alla tecnica di fecondazione vitro con selezione degli embrioni attraverso la diagnosi preimpianto, laddove «l'orientamento italiano permette di ricorrere all'aborto terapeutico nel caso in cui il feto risulti affetto da patologie di particolare gravita' quali la fibrosi cistica». Tale ultimo riferimento e' chiaramente da intendersi fatto alle disposizioni della legge n. 194/1978 che consentono l'interruzione della gravidanza gia' avanzata, ovverosia oltre i primi novanta giorni, nel caso in cui il feto risulti affetto da patologie, quali quelle relative a rilevanti anomalie del nascituro, che determinano un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. «Non si comprende – continua la Corte – lo scopo della proibizione considerato che l'aborto ha conseguenze sicuramente piu' gravi della selezione dell'embrione successivamente a PDG sia per il nascituro che si trova in stato di formazione piu' avanzato, sia per i genitori in particolare per la donna». Tale argomentazione porta i giudici sopranazionali ad escludere la funzionalita' del divieto imposto dall'art. 4 della legge n. 40/2004 rispetto allo scopo perseguito dalla stessa legge – consistente nella tutela del nascituro – e, conseguentemente, a concludere che la disciplina in vigore, traducendosi in un'indebita ingerenza nella vita privata e familiare dei ricorrenti, non possa ritenersi proporzionale ne' necessaria alla protezione dei diritti cui si assume sia sottesa.
Cio' posto, questo giudice deve verificare se, nel presente procedimento, sia possibile disapplicare i piu' volte richiamati articoli 1 e 4 della legge n. 40/2004 in applicazione diretta delle statuizioni contenute nella sentenza Edu sopra citata.
In merito al rapporto tra ordinamento interno, normative internazionali e Convenzione europea dei diritti dell'uomo, la giurisprudenza costituzionale, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, e' costante nel ritenere che le norme della Cedu nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrino, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma, Cost. nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008). In questa prospettiva, ove si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della Cedu, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilita' di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo – non potendo a cio' rimediare tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante – egli deve denunciare la rilevata incompatibilita', proponendo questione di legittimita' costituzionale in riferimento all'indicato parametro. A sua volta, la Corte costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare l'interpretazione della Cedu data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se, cosi' interpretata, la norma della Convenzione – quale si colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale – si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: «ipotesi eccezionale nella quale dovra' essere esclusa la idoneita' della norma convenzionale a integrare il parametro considerato» (Corte costituzionale, 11 marzo 2011, n. 80).
Alla luce della citata giurisprudenza costituzionale (citata anche dalla difesa dell'ente resistente), deve ritenersi che le norme della Cedu, nel significato attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, integrano, quali norme interposte il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Pertanto il giudice ordinario deve, in primo luogo, verificare se il conflitto tra disposizione legislativa e norma internazionale puo' essere eliminato adeguando, in via interpretativa, la norma legislativa a questa particolare norma interposta; se cio' si rivela impossibile, deve sollevare dinanzi alla Corte costituzionale questione di legittimita' costituzionale della disposizione legislativa rispetto al parametro dell'art. 117, comma 1 Cost.  Ne' a diverse conclusioni puo' giungersi, come invocato dalla difesa dei ricorrenti, affermando che, per effetto dell'adesione dell'Unione europea alla Cedu (e, in particolare in virtu' delle modifiche apportate dal trattato di Lisbona), i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione diventano diritto dell'Unione, in quanto principi generali, con le dovute conseguenze relative ai rapporti tra sistemi normativi, non piu' regolati dall'art. 117, comma 1 Cost., bensi' dall'art. 11 Cost.
Come chiarito dalla Corte costituzionale, infatti, «l'adesione dell'Unione europea alla Cedu non e' ancora avvenuta rendendo allo stato improduttiva di effetti la statuizione del paragrafo 2 del nuovo art. 6 del trattato dell'Unione europea, come modificato dal trattato di Lisbona» (Corte Cost. 210/2013). La Corte ha, inoltre, da tempo precisato che in linea di principio, dalla qualificazione dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della Cedu come principi generali del diritto comunitario non puo' farsi discendere la riferibilita' alla Cedu del parametro di cui all'art. 11 Cost., ne', correlativamente, la spettanza del giudice comune del potere-dovere di non applicare la norme interne contrastanti con la predetta Convenzione» (Corte cost. 303/2011).
Le argomentazioni che precedono consentono di affermare come la via della disapplicazione, invocata dai ricorrenti, non sia percorribile.
Del pari non possibile appare l'interpretazione degli articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1 della legge n. 40/2004 orientata in senso conforme alle disposizioni costituzionali.
Gli articoli 1 e 4 della legge n. 40/2004, infatti, limitano espressamente il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ai casi in cui sia accertata l'impossibilita' di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione. E' espressamente circoscritto il ricorso alle predette tecniche ai casi di sterilita' o di infertilita' inspiegate documentate da atto medico, nonche' ai casi di sterilita' da causa accertata e certificata da atto medico.
La chiara lettera della legge, confermata anche dall'utilizzo di espressioni dal senso univoco (quali circoscrivere), non consente l'interpretazione estensiva richiesta dai ricorrenti (interpretazione possibile solo ove il significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore non sia chiaro).
Ne' a diverse conclusioni puo' giungersi in ragione dell'ampliamento della nozione di infertilita' derivante dalle nuove linee guida del Ministero della salute (decreto dell'11 aprile 2008, n. 31639), che hanno esteso l'accesso alla procreazione medicalmente assistita anche alle coppie in cui l'uomo e' affetto da malattie virali sessualmente trasmissibili.
In tali ultimi casi, infatti, sussiste un elevatissimo rischio di infezione per la madre e per il feto, conseguente a rapporti sessuali non protetti per il partner, rischio che, di fatto, preclude la possibilita' di avere un figlio a queste coppie, imponendo loro l'adozione di precauzioni che si traducono necessariamente in una condizione ascrivibile all'infertilita' previsti dalla legge n. 40.
L'impossibilita' di estendere il concetto di infertilita' ha, pertanto, richiesto l'adozione di uno specifico decreto idoneo a consentire l'accesso alla PMA, anche alle coppie in cui l'uomo e' affetto da malattie virali sessualmente trasmissibili.
In conclusione, si ritiene che il presente giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale che, pertanto, si solleva dell'art. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1 della legge n. 40/2004, per contrasto con gli articoli 2, 3 e 32 Cost, nonche' per contrasto con l'art. 117, comma 1 Cost., in relazione agli articoli 8 e 14 della Cedu.  
3. Ammissibilita' della questione in sede cautelare.
In via generale si osserva che il giudice della cautela ante causam ha i requisiti per poter essere considerato giudice a quo poiche' nella giurisdizione cautelare vi e' pieno rispetto del contraddittorio con contrapposizione di interessi fra le parti (interesse dei ricorrenti ad ottenere la prestazione medica richiesta ed interesse della parte resistente a non porre in essere comportamenti sanzionati dal legislatore trovandosi ad operare in condizione di potenziale contrasto con quanto previsto dal codice deontologico) la cui composizione – seppur in via d'urgenza – richiede comunque l'intervento del giudice istituzionalmente deputato al controllo della legittimita' costituzionale qualora, come nella fattispecie oggetto di valutazione, non si intenda accedere ad una lettura costituzionalmente orientata di norme sospettate di incostituzionalita' (Corte costituzionale sentenza n. 457/93; Corte costituzionale sentenza n. 186/76).
A tale considerazione deve poi aggiungersi che la Corte costituzionale, con la pronuncia n. 151/2009 ha chiarito che «la giurisprudenza di questa Corte ammette la possibilita' che siano sollevate questioni di legittimita' costituzionale in sede cautelare, sia quando il giudice non provveda sulla domanda, sia quando conceda la relativa misura, purche' tale concessione non si risolva nel definitivo esaurimento del potere cautelare del quale in quella sede il giudice fruisce» (sentenza 161 del 2008 e ordinanze n. 393 del 2008 e 25 del 2000).
4. Rilevanza.
In merito alla rilevanza, osserva il tribunale che i ricorrenti sono una coppia fertile (come dagli stesso allegato e non contestato), con il rischio di trasmettere l'esostosi multiple ereditarie, patologia genetica ereditaria dalla quale e' affetto il sig. S. al figlio con una probabilita' del 50% (come certificato dalla dott.ssa S.M., e dalla dott.ssa N.V., dell'Ospedale San Gerardo di Monza, centro di consulenza genetica).
Per poter decidere sulla richieste dei ricorrenti, di ordinare in via d'urgenza, anche in considerazione dell'eta' della sig. B. (35 anni) e delle caratteristiche della patologia che affligge il sig. S., all'ospedale resistente di consentire l'accesso alla procreazione medicalmente assistita, presupposto imprescindibile per effettuare la diagnosi preimpianto, e' necessario applicare la legge 19 febbraio 2004, n. 40.
In merito alle censure di parte resistente, relative all'irrilevanza della questione di legittimita' costituzionale in ragione della non contestazione sull'esistenza del diritto e dell'esistenza di problemi di ordine tecnico all'effettuazione della ricerca clinica richiesta, si osserva quanto segue.
Osserva il tribunale che l'art. 4 della legge n. 40/2004 limita il ricorso alla PMA ai soli casi di sterilita' o infertilita'.
L'estensione del diritto in esame a casi non disciplinati dalla legge, e dunque in violazione di una norma di legge espressa, non rientra nella disponibilita' delle parti. Il diritto dei ricorrenti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, pertanto, non costituisce oggetto di un diritto disponibile a fronte del quale la controparte puo' non contestare l'astratta sussistenza del diritto, opponendo in fatto ostacoli di ordine tecnico.
La «non contestazione» del Policlinico sul diritto vantato dai ricorrenti non priva, pertanto, di rilevanza la questione in esame, in quanto il diritto di una coppia fertile affetta da patologia geneticamente trasmissibile ad accedere alla PMA potra' essere riconosciuto solo in seguito ad una pronuncia della Corte costituzionale che ravvisi un contrasto tra l'art. 4, comma 1 della legge n. 40 e i sopra enunciati articoli della Costituzione.
Con riferimento agli ostacoli di ordine tecnico, legati all'indisponibilita' delle strumentazioni tecniche necessarie ad eseguire la specifica analisi preimpianto richiesta dai ricorrenti, si osserva quanto segue.
In via generale, non pare inutile ricordare che, secondo un principio desumibile dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la tutela della salute e' «garantito ad ogni persona come un diritto costituzionalmente condizionato all'attuazione che il legislatore ne da' attraverso il bilanciamento dell'interesse tutelato da quel diritto con gli altri interessi costituzionalmente protetti» (ex plurimis, sentenze n. 267 del 1998, n. 304 del 1994, n. 218 del 1994). Bilanciamento che, tra l'altro, deve tenere conto dei limiti oggettivi che il legislatore incontra in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di cui dispone, restando salvo, in ogni caso, quel «nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignita' umana» (sentenze n. 309 del 1999, n. 267 del 1998, n. 247 del 1992), il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l'attuazione di quel diritto.
Cio' posto, nel caso di specie, in assenza di una legislazione che, in relazione alle suddette risorse organizzative e finanziarie, disciplini il trattamento sanitario per cui e' causa (eventualmente graduando e stabilendo delle linee guida sui criteri da seguire per l'inserimento delle patologie genetiche da sottoporre a ricerca clinica in vista della PMA e dunque – in merito alla censura relativa alla non gravita' della patologia che affligge il ricorrente – prevedendo un ordine di inclusione delle patologie in ragione della maggiore o minore gravita' delle stesse), le eccezioni spiegate dalla struttura sanitaria convenuta, eventualmente rilevanti da un punto di vista amministrativo, seguono, da un punto di vista logico giuridico, la risoluzione della questione di costituzionalita' in esame (attenendo, infatti, ad una valutazione che il legislatore, nel solco delle pronunce sopra citate, potra' fare una volta stabiliti i requisiti per l'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita).
5. Non manifesta infondatezza.
Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, circoscritto ai soli casi di sterilita' o infertilita', appare in contrasto con gli articoli 2, 3, 32, 117, comma 1, in relazione all'art. 8 e 14 della Cedu. In particolare:
in merito al contrasto con l'art. 2 Cost., si rileva che tra i diritti soggettivi inviolabili vi e' il diritto, fondamentale, costituzionalmente garantito e personalissimo, della coppia all'autodeterminazione nelle scelte procreative (diritto ribadito anche dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 162/2014).
Nell'ambito di tale diritto non puo' che essere ricompreso il diritto ad essere informato in merito alle condizioni di salute dell'embrione e, segnatamente, in merito alla possibilita' che il futuro figlio sara' affetto dalla patologia geneticamente trasmissibile dalla quale e' affetto uno dei due genitori (patologia con rischio di trasmissione pari al 50%, fatto non contestato), cosi' da consentire l'esercizio di un consenso realmente informato. A tal proposito si osserva, in particolare, che la selezione preventiva degli embrioni, nel caso che ci occupa, non e' volta alla selezione di un embrione «sano» o dotato di particolari caratteristiche biotipiche (e quindi per il perseguimento di «illegittimi fini eugenetici», come ricordato dalla citata sentenza n. 162/2014), ma alla scelta dell'embrione privo della specifica e grave patologia geneticamente trasmissibile di cui e' portatore uno dei genitori. Il diritto alla procreazione sarebbe irrimediabilmente leso dalla limitazione del ricorso alle tecniche di PMA da parte di coppie che, pur non sterili o infertili, rischino pero' concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili, di cui sono portatori. Il limite rappresenta un'ingerenza indebita nella vita della coppia, come affermato anche dalla Corte Edu nella richiamata sentenza Costa Pavan c. Italia, nella quale la Corte ha precisato che il desiderio di generare un figlio non affetto dalla patologia genetica di cui sono portatori rientra nel campo della tutela dell'art. 8 della Cedu; l'esclusione delle coppie fertili dalla PMA risulta in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, inteso come principio di ragionevolezza, quale coronario del principio di uguaglianza, in quanto comporta la conseguenza irragionevole ed incoerente di costringere queste coppie, desiderose di avere un figlio non affetto alla grave patologia geneticamente trasmissibile, di avere una gravidanza naturale e ricorrere alla scelta dell'aborto terapeutico del feto, consentita dalla legge n. 194/1978. Nel necessario giudizio bilanciamento tra diritti fondamentali – giudizio di bilanciamento tra diritti che deve essere compiuto secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalita' e deve preservare il nucleo essenziale dei valori in gioco – ritiene questo giudice che impedire alle coppie fertili il ricorso alla PMA, presupposto per accedere alla diagnosi preimpianto e consentire invece, come fa la legge n. 194/1978 alla donna di abortire, nel caso in cui il feto risulti affetto da gravi patologie, rappresenti una scelta del tutto irragionevole, che provoca conseguenze molto gravi per la salute fisica e psichica della donna (costretta a scelte ben piu' drammatiche, quali una dolorosa interruzione di gravidanza, successiva ad una scoperta che, in caso di accesso alla diagnosi preimpianto, avrebbe potuto tempestivamente evitare). In relazione alla violazione dell'art. 3 Cost. si rileva, inoltre, una discriminazione delle coppie fertili, portatrici di malattia geneticamente trasmissibile – discriminazione del tutto ingiustificata ed irragionevole alla luce delle considerazioni sopra svolte – rispetto alle coppie sterili o infertili che, invece, possono ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita; le norme sopra indicate appaiono, inoltre, in contrasto con l'art. 32 Cost. in particolare sotto il profilo della tutela della salute della donna (salute psichica e fisica), costretta per realizzare il desiderio di mettere al mondo un figlio non affetto da una specifica grave patologia (che ha un rischio elevato di avere), ad una gravidanza naturale ed a un eventuale aborto terapeutico, con conseguente aumento dei rischi per la salute fisica e psichica, per effetto della scelta di procedere, all'occorrenza, all'interruzione volontaria di gravidanza, in assenza di un adeguato bilanciamento della tutela della salute della donna con quella dell'embrione;  in merito al contrasto con l'art. 117, comma 1 Cost., in relazione all'art. 8 della Cedu, si osserva che, come evidenziato dalla Corte di Strasburgo nella citata sentenza Costa Pavan c. Italia, il divieto imposto dall'art. 4 della legge n. 40/2004 alle coppie fertili affette da patologia geneticamente trasmissibile, laddove «l'ordinamento italiano permette di ricorrere all'aborto terapeutico nel caso in cui il feto risulti affetto da patologie di particolare gravita' quale la fibrosi cistica» irragionevole. Per le ragioni sopra esposte, la Corte Edu ha evidenziato che l'attuale disciplina si traduce in un'indebita ingerenza nella vita privata e familiare dei ricorrenti e non puo' ritenersi ne' proporzionale ne' necessaria alla protezione dei diritti cui si assume sia sottesa.
Ricorrono, pertanto, le condizioni per sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1 della legge n. 40/2004, per contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost. in relazione all'art. 8 della Cedu;  con riferimento all'art. 117, comma 1 Cost. in ordine al parametro normativo interposto di cui all'art. 14 della Cedu, si osserva come l'attuale disciplina crei una discriminazione delle coppie fertili, portatrici di malattie geneticamente trasmissibili, rispetto alle coppie sterili o infertili (o in cui l'uomo risulti affetto da patologie sessualmente trasmissibili), che invece possono ricorrere alle tecniche di PMA in base alla legge n. 40 del 2004 ed alla diagnosi preimpianto. Le coppie infertili, infatti, possono ricorrere alla diagnosi preimpianto entro i limiti stabiliti dagli articoli 4 e 5 della legge n. 40/2004, mentre il divieto sussiste solo per le coppie fertili. Si ritiene, pertanto, integrata una violazione del principio di eguaglianza, atteso che il differente trattamento giuridico di soggetti posti in una determinata materia in situazioni tra loro comparabili e' da ritenersi privo di una giustificazione oggettiva e ragionevole. 

P. Q. M.

Visto l'art. 23 della legge n. 87/1953;
Ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, rimette alla Corte costituzionale la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 2, e dell'art. 4, comma 1 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, per contrasto con gli articoli 2, 3 e 32 Cost., nonche' con l'art. 117, comma 1 della Costituzione, in relazione agli articoli 8 e 14 della Cedu nella parte in cui dette norme non consentono il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, e dunque anche alla diagnosi preimpianto, alle coppie fertili, portatrici di malattia geneticamente trasmissibile.
Sospende il giudizio e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
Ordina che la presente ordinanza sia notificata a cura della Cancelleria alle parti, al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
Cosi' deciso in Milano il 4 marzo 2015
Il giudice: Flamini