Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

Olir

Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 28 Agosto 2003

Sentenza 13 luglio 1984, n.239

Corte costituzionale. Sentenza 13 luglio 1984, n. 239: “Appartenenza di diritto del cittadino ebreo alle comunità israelitiche (art. 4 del R.D. 30 ottobre 1930, n. 1731)”.

(Pres. e rel. De Stefano)

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: prof. Antonino DE STEFANO;

Giudici: prof. Guglielmo ROEHRSSEN, avv. Oronzo REALE, dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI, prof. Livio PALADIN, dott. Arnaldo MACCARONE, prof. Antonio LA PERGOLA, prof. Virgilio ANDRIOLI, prof. Giuseppe FERRARI, prof. Francesco SAJA, prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, 4, 5, 15, lett. c, 24, 25, 26, 27, 28, 29 e 30 del r.d. 30 ottobre 1930, n. 1731 (Norme sulle Comunità israelitiche e sulla Unione delle Comunità medesime), promosso con ordinanza emessa il 16 maggio 1979 dal pretore di Roma sul ricorso di Nahum Meir contro la Comunità israelitica di Roma, iscritta al n. 775 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8 dell’anno 1980;

visti gli atti di costituzione della Comunità israelitica di Roma e di Nahum Meir nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 24 gennaio 1984 il Giudice relatore Antonino De Stefano;

uditi gli avv.ti Dario di Gravio e Antonio Rombolà per Nahum Meir; Dario Tedeschi e Massimo Severo Giannini per la Comunità israelitica di Roma e l’avvocato dello Stato Carlo Salimei per il Presidente del Consiglio dei ministri.

(omissis)

Considerato in diritto

1.-Il pretore di Roma, con ordinanza emessa il 16 maggio 1979, ha deferito a questa Corte la questione di legittimità costituzionale, nei termini esposti in narrativa, degli artt. 1, 4,5,15 lett. c), 24,25,26,27,28,29 e 30 del r.d. 30 ottobre 1930, n. 1731, ” singolarmente considerati, nonché in rapporto al sistema normativo da essi derivante “, per contrasto con gli artt. 3, 2 e 18, 23, 24 e 102, 53 della Costituzione.

Il menzionato decreto detta norme sulle Comunità israelitiche e sulla Unione delle Comunità medesime. L’art. 1 definisce le Comunità israelitiche ” corpi morali che provvedono al soddisfacimento dei bisogni religiosi degli israeliti secondo la legge e le tradizioni ebraiche “; in relazione a tale finalità ne specifica, al secondo comma, i compiti. Per l’art. 4 ” appartengono di diritto alla Comunità tutti gli israeliti che hanno residenza nel territorio di essa “. Il successivo art. 5 di spone che ” cessa di far parte della Comunità chi passa ad un’altra religione o dichiara di non voler più essere considerato israelita agli effetti del presente decreto “; colui che cessa di far parte della Comunità perde il diritto di valersi delle istituzioni israelitiche, e in particolare perde il diritto a prestazioni di atti rituali ed alla sepoltura nei cimiteri israelitici.

Gli altri articoli denunciati (15, lett. c e da 24 a 30) disciplinano il potere impositivo attribuito alla Comunità, prevedendo la determinazione di un contributo annuo, cui sono tenuti tutti gli appartenenti alla Comunità in ragione del rispettivo reddito complessivo. Il Consiglio della Comunità fissa, anno per anno, l’aliquota del contributo, mentre spettano alla Giunta la valutazione del reddito complessivo di ciascun contribuente, la determinazione del reddito imponibile e del contributo, la formazione della matricola dei contribuenti. Il ruolo dei contribuenti è reso esecutorio dal prefetto; e la riscossione dei contributi fissati nel ruolo ha luogo ” con le forme e con i privilegi stabiliti per la riscossione delle tasse comunali “. Contro la determinazione dell’imponibile fatta dalla Giunta, il contribuente può presentare ricorso al Consiglio della Comunità, e contro la decisione del Consiglio è ammesso il ricorso ad una commissione arbitrale; avverso la decisione di quest’ultima non è ammesso alcun gravame, salvo il ricorso all’autorità giudiziaria nei soli casi di violazione di legge.

2.-Tanto la difesa della Comunità israelitica di Roma quanto l’Avvocatura dello Stato hanno eccepito, innanzi a questa Corte, la inammissibilità della sollevata questione, per la sua irrilevanza nel procedimento di provenienza, instaurato con ricorso prodotto ai sensi dell’art. 700 c.p.c.. Si deduce all’uopo che il ricorso verte sulla richiesta di sospensione di un provvedimento (iscrizione del ricorrente nella matricola dei contribuenti della Comunità) di carattere amministrativo, data la riconosciuta natura di enti pubblici delle Comunità israelitiche; poiché tale sospensione non è consentita, per il divieto posto all’autorità giudiziaria ordinaria dall’art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, sull’abolizione del contenzioso amministrativo, l’adìto pretore avrebbe dovuto senz’altro dichiarare il proprio difetto di giurisdizione, eccepito, del resto, anche nel giudizio a quo dalla resistente Comunità. Si sottolinea, inoltre, che se anche venissero meno, per effetto della pronuncia deferita a questa Cor- te, le norme di relazione dettate dal r.d. n. 1731 del 1930 per disciplinare il rapporto fra le Comunità e i loro appartenenti, resterebbero pur sempre in vigore le norme di organizzazione, e perciò la qualificazione pubblicistica degli enti suddetti, con il conseguente permanere del difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria sugli atti da questi compiuti, fra cui, appunto, la formazione del ruolo dei contribuenti.

In proposito, deve considerarsi che il giudice a quo non ha mancato di pronunciarsi sull’eccezione medesima, mossa anche nel procedimento di provenienza, respingendola e affermando la propria giurisdizione. L’ordinanza di rimessione ampiamente motiva sul punto, precisando, nel tracciare l’àmbito della controversia, che il ricorrente non contesta la entità del tributo che gli si è imposto di pagare, né la legittimità dell’imposizione, ma deduce la illegittimità del sistema normativo che disciplina le Comunità israelitiche. Sostanzialmente il provvedimento cautelare atipico richiesto è diretto ad escludere l’effetto giuridico dell’automatica appartenenza del cittadino israelita alla Comunità, per cui appare evidente – si afferma – la pregiudizialità e quindi la rilevanza della sollevata questione.

L’eccezione va dunque respinta, non essendo sindacabile, in sede di giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la sussistenza dei presupposti attinenti alla giurisdizione del giudice a quo, allorquando su di essi quest’ultimo si sia espressamente pronunciato (cfr. sentenza di questa Corte n. 131 del 1976).

3.- La difesa del ricorrente Meir ripropone alla Corte la questione di legittimità costituzionale, già inutilmente prospettata al giudice a quo, di tutto il r.d. n. 1731 del 1930, per contrasto con gli artt. 1, 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione. Insiste soprattutto sulla incompatibilità della legge, nella sua globalità, con il comma secondo dell’art. 8 della Costituzione, che riserva all’autonomia delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, l’adozione dei propri statuti; lo statuto della confessione ebraica, invece, è interamente dettato dallo Stato con la denunciata legge, ogni norma della quale, perciò, presuppone la violazione dell’invocato parametro costituzionale.

La richiesta della parte non può essere accolta. Secondo quanto affermato da costante giurisprudenza della Corte (da ultimo sentenze n. 122 del 1976 e n. 27 del 1978) il giudizio incidentale di legittimità costituzionale va contenuto nei limiti fissati dall’ordinanza di rimessione, e non può venir esteso ad altre questioni proposte dalle parti.

4.-La Corte prende quindi in esame la questione di legittimità costituzionale che le è stata deferita dal pretore di Roma, e che si articola in vari profili, come agevolmente si desume dalla motivazione dell’ordinanza di rinvio. Pregiudiziale, peraltro, nell’ordine di trattazione, appare il dubbio che investe il denunciato art. 4 del r.d. n. 1731, a séguito del raffronto che nell’ordinanza viene condotto con gli artt, 2, 3 e 18 della Costituzione. Premesso che la richiesta del ricorrente – come innanzi ricordato – è considerata dal giudice a quo siccome intesa ad ottenere un provvedimento cautelare ” diretto ad escludere l’effetto giuridico dell’automatica appartenenza del cittadino israelita alla Comunità “, lo stesso giudice rileva che ” occorre in primo luogo verificare sul terreno della legittimità costituzionale se l’appartenenza del cittadino ebreo di diritto alla Comunità violi o meno norme e princìpi della Costituzione “; al qual fine deduce appunto il contrasto del citato art. 4 sia con l’art. 3, che con gli artt. 2 e 18 della Costituzione.

5.-Nei termini anzidetti la questione è fondata.

Giova ricordare che, anteriormente all’emanazione del r. d. n. 1731 del 1930, la disciplina del culto israelitico in Italia era diversa secondo le diverse regioni, corrispondenti agli ex Stati pre-unitari; e talvolta era diversa anche nell’àmbito di una stessa regione. La legge sarda 4 luglio 1857, n. 2325 (c.d. legge Rattazzi), operante in Piemonte ed in Liguria, ed estesa, all’atto della unificazione, all’Emilia ed alle Marche, disciplinava le Università israelitiche come persone giuridiche pubbliche, necessariamente costituite da tutti gli israeliti domiciliati nella loro circoscrizione, fornite del potere d’imposizione su di essi, e integralmente regolate, nella loro organizzazione e nelle loro funzioni, dal diritto dello Stato, secondo lo schema della legge comunale dell’epoca. Anche in Toscana, nel Veneto, nella provincia di Mantova, nonché nelle province annesse dopo la guerra 1915-18, continuando ad applicarsi ivi le preesistenti disposizioni, le Università israelitiche avevano natura di corporazioni pubbliche necessarie, con il potere d’imporre ai loro membri speciali tributi; ma, a differenza di quelle che formavano oggetto della legge sarda, erano dotate di autonomia organizzativa, in quanto le leggi che le disciplinavano rinviavano ai rispettivi statuti per il regolamento della loro struttura e per l’esercizio delle loro attribuzioni. Infine, in altre località (come, ad esempio, Roma, Napoli e Milano), le organizzazioni israelitiche, operando nel l’àmbito del diritto comune, erano costituite in associazioni volontarie, dotate o meno di personalità giuridica, che provvedevano alle spese del culto con le volontarie contribuzioni dei loro aderenti. Le varie comunità, obbligatorie e volontarie, tra loro assolutamente autonome e indipendenti, avevano poi dato vita ad un Consorzio volontario, sul piano nazionale, per la difesa e la cura dei comuni interessi.

Con il r.d. n. 1731 del 1930, avente forza di legge in virtù della “facoltà di rivedere le norme legislative esistenti che disciplinano i culti acattolici”, conferita al Governo dall’art. 14 della legge 24 giugno 1929, n. 1159, sull’esercizio dei culti ammessi nello Stato, s’intese apprestare un ordinamento uniforme per le Comunità israelitiche di tutta l’Italia, e federarle in una Unione obbligatoria. Nella relazione allo schema del decreto si legge, infatti, che esso ” procede alla unificazione della legislazione sulle Università israelitiche, stabilendo per esse un ordinamento ed un sistema uniforme di controllo, ciò che risponde all’indirizzo del moderno diritto pubblico, che vuole sottoposte all’autorità dello Stato, ed opportunamente vigilate, tutte le forme di attività, specie quelle a base collettiva “. Si legge, ancora, che ” il tipo di ordinamento prescelto si foggia essenzialmente su quello della legge sarda del 1857, che regola le Università israelitiche con criteri di compiutezza, a un dipresso come la legge comunale e provinciale regola i Comuni, non essendosi creduto di adottare il sistema austriaco, vigente nelle nuove province, che, limitandosi alle norme fondamentali, lascia largo campo all’autonomia delle Comunità, cui impone di farsi uno statuto “. Si rilevò, allora, in dottrina, che ” le Comunità israelitiche non solo appariscono corporazioni di diritto pubblico, in quanto hanno carattere territoriale e sono sottoposte a vigilanza e tutela, ma anche in quanto esercitano poteri d’impero, sono di creazione statale, sono regolate interamente da una legge dello Stato, la quale ha fissato gli scopi, gli organi, la costituzione e l’amministrazione delle Comunità “: concretandosi, così, una sorta di ” costituzione civile ” di una confessione religiosa ad opera del legislatore statale; un ” esempio, forse unico nel nostro ordinamento giuridico, di statuto di confessione religiosa formato ed emanato dallo Stato “.

6.- Fondamentale, nella nuova disciplina, ed in perfetta coerenza con lo spirito che tutta la permea, appare il precetto dell’art. 4, che ben può dirsi costituisca un caposaldo della rigida struttura dettata dal legislatore statale per le Comunità israelitiche. In proposito, la già citata relazione afferma che si è riconosciuto alle singole Comunità “carattere di necessarietà, nel senso che di esse devono far parte tutti gli israeliti del luogo”. ” Il principio accolto ” – viene ancora ribadito – “è che non è possibile pretendere, agli effetti civili, di essere israelita, ma di non voler appartenere alla Comunità, rifiutando così il proprio contributo finanziario all’organo riconosciuto, che rappresenta l’interesse superiore della collettività”.

Già autorevole dottrina, subito dopo l’emanazione del decreto, non aveva dubbi nell’affermare che ” gli ebrei appartengono obbligatoriamente, col fatto stesso di avere la residenza legale nel territorio di una Comunità israelitica, alla Comunità stessa “. Di appartenenza ” necessaria “, “automatica”, che consegue “ipso iure” alla qualità di israelita ed alla sua residenza nel territorio della Comunità, parla la successiva dottrina, con una interpretazione della norma che può dirsi pressoché costante, e che s’identifica con quella accolta dal giudice a quo, il quale denuncia l’art. 4 appunto perché statuisce la ” coattiva partecipazione” dell’israelita alla Comunità.

Che poi l'”appartenenza di diritto” valga – secondo rilevato in dottrina – a tutelare il ” diritto all’appartenenza “, e cioè il diritto, non soggetto a valutazioni discrezionali da parte della Comunità, dell’israelita “a partecipare ad un complesso di beni e di servizi espresso dalla Comunità “, non comporta certo che siffatta tutela possa venir realizzata unicamente mediante l’appartenenza ” coattiva “; e d’altro canto ovviamente non esclude che ” il diritto ” medesimo venga incondizionatamente riconosciuto, verificandosene i presupposti, a chi abbia manifestato la volontà di esercitarlo Il decreto del 1930 non indica chi debba considerarsi ” israelita “, e quindi destinatario del precetto dell’art. 4. Anche a questo riguardo si ha una interpretazione largamente prevalente, nel senso che il legislatore rinvii, per tale determinazione, alle norme ed alle tradizioni ebraiche, secondo le quali è ebreo chiunque sia nato da madre ebrea, o sia stato accolto nell’ebraismo con i prescritti atti rituali.

7.- Alla luce di quanto precede, palese è il contrasto della norma in esame con il fondamentale principio sancito dall’art. 3 della Costituzione, che assevera l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, ” senza distinzione “, fra l’altro, ” di razza ” e ” di religione “. Nel denunciato art. 4, invece, assumono essenziale rilievo appunto le caratteristiche religiose ed etniche, che confluiscono nella qualificazione di ” israelita “; si concreta così una disparità di trattamento tra i cittadini, che tale qualità, d’ordine etnico-religioso, rivestano, e che, a cagione di essa, sono automaticamente ascritti alla Comunità israelitica, divenendo così obbligatoriamente destinatari degli effetti che da tale appartenenza discendono, anche nell’ordinamento statuale, e tutti gli altri cittadini, cui la norma stessa non si applica.

A sostegno dell’infondatezza della questione la difesa della Comunità e l’Avvocatura dello Stato si richiamano alla possibilità di recesso dalla Comunità, prevista dal successivo art. 5 dello stesso decreto. In altri termini, la necessaria, automatica appartenenza non violerebbe il precetto dell’art. 3 della Costituzione, perché sarebbe consentito, a chi lo volesse, di ” uscire ” dalla Comunità con il passaggio ad altra religione o con la dissociazione. Ma è agevole replicare, in contrario, che la facoltà del ” distacco ” appare soltanto come un rimedio ex post ad una situazione che nel suo stesso realizzarsi già si pone in insanabile contrasto con il ricordato fondamentale principio dell’art. 3 della Costituzione.

8.-Violati dal denunciato art. 4 appaiono anche gli altri parametri costituzionali (artt. 2 e 18), indicati dal giudice a quo.

La Corte ha già affermato (sentenza n. 69 del 1962) che il precetto costituzionale contenuto nell’art. 18 deve essere in terpretato nel contesto storico che l’ha visto nascere e che porta a considerare, della proclamata libertà di associazione, non soltanto l’aspetto che è stato definito “positivo”, ma anche l’altro “negativo”, quello che si risolve nella libertà di non associarsi “che dové apparire al Costituente non meno essenziale dell’altra dopo un periodo nel quale la politica legislativa di un regime totalitario aveva mirato a inquadrare i fenomeni associativi nell’àmbito di strutture pubblicistiche e sotto il controllo dello Stato”. Periodo a cui appunto risale la normativa adesso sottoposta alla pronuncia della Corte. La stessa sentenza prosegue affermando che “la libertà di non associarsi si deve ritenere violata tutte le volte in cui, costringendo gli appartenenti a un gruppo o a una categoria, ad associarsi tra di loro, si violi un diritto o una libertà o un principio costituzionalmente garantito “: quale, appunto, nella fattispecie ora in esame, il principio garantito dall’art. 3 della Costituzione.

Non è qui necessario prendere posizione sulla natura “associativa” o “istituzionale” delle Comunità israelitiche, perché la ” libertà di adesione “, nei suoi aspetti (“positivo” e “negativo”) dianzi indicati, va tutelata, come “diritto inviolabile”, nei confronti non solo delle associazioni, ma anche di quelle ” formazioni sociali “, cui fa riferimento l’art. 2 della Costituzione, e tra le quali si possono ritenere comprese anche le confessioni religiose. Libertà di aderire e di non aderire che, per quanto specificamente concerne l’appartenenza alle strutture di una confessione religiosa, negli aspetti che rilevano nell’ordinamento dello Stato, affonda le sue radici in quella ” libertà di coscienza, riferita alla professione sia di fede religiosa sia di opinione in materia religiosa ” (sentenza n. 117 del 1979), che è garantita dall’art. 19 della Costituzione, e che va annoverata anch’essa tra i ” diritti inviolabili dell’uomo ” (sentenza n. 14 del 1973).

L’obbligatoria appartenenza alla Comunità di un soggetto, per il solo fatto di essere ” israelita ” e di risiedere nel ” territorio ” di pertinenza della Comunità medesima, senza che l’appartenenza sia accompagnata da alcuna manifestazione di volontà in tal senso, viola appunto quella ” libertà di adesione “, che è tutelata dagli artt. 2 e 18 della Costituzione.

9.- Conclusivamente, per lesu esposte considerazioni, va dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 4 del r.d. n. 1731 del 1930, per violazione degli artt. 2, 3 e 18 della Costituzione.

Per effetto della dichiarata illegittimità costituzionale del l’art. 4, rimane assorbita, in punto di rilevanza, la denuncia degli altri articoli del r.d. n. 1731. Il giudice, infatti, venuta meno la norma che dispone l’automatica appartenenza, potrà pronunciarsi sul richiesto provvedimento cautelare, ” diretto ad escludere l’effetto giuridico dell’automatica appartenenza del cittadino israelita alla Comunità “, senza dover applicare nel giudizio a quo le altre norme, oggetto anch’esse della sollevata questione di legittimità costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 4 del r.d. 30 ottobre 1930, n. 1731 (Norme sulle Comunità israelitiche e sulla Unione delle Comunità medesime).

(omissis)