Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 12 Aprile 2013

Sentenza 02 aprile 2013, n.14979

Corte di Cassazione, Sez. VI Penale. Sentenza 27 novembre 2012 – 2 aprile 2013, n.14979: "Integra il reato di omissione di atti di ufficio il rifiuto del medico obiettore di prestare assistenza ad una paziente che ha subito un intervento interruttivo della gravidanza".

Pres. De Roberto – est. Fidelbo

(omissis)

Ritenuto in fatto

1. Con la decisione indicata in epigrafe la Corte d'appello di Trieste ha parzialmente riformato la sentenza del 6 novembre 2009 del Tribunale di Pordenone, revocando le statuizioni civili in favore dell'associazione Codacons F.V.G., mentre ha confermato la condanna di P.F..M. ad un anno di reclusione per il reato di cui all'art. 328 c.p., con sospensione condizionale della pena e con l'interdizione per un anno dall'esercizio della professione medica, oltre al risarcimento dei danni alla parte civile, D.N.P., liquidati in Euro 8.000,00.

Secondo l'accusa la M. , in servizio di guardia medica nella notte tra il (omissis) nel reparto di ostetricia e ginecologia del presidio ospedaliero di (omissis) , chiamata ad assistere la paziente P..D.N. che era stata sottoposta ad intervento di interruzione volontaria di gravidanza mediante somministrazione farmacologica, si rifiutava di visitarla e di assisterla, in quanto obiettrice di coscienza, nonostante le richieste di intervento dell'ostetrica e i successivi ordini di servizio impartiti telefonicamente dal primario e dal direttore sanitario, costringendo il primario a recarsi in ospedale per intervenire d'urgenza.

2. Nell'interesse dell'imputata ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia, avvocato Angelo Pallara.

Con il primo motivo si deduce erronea applicazione degli artt. 328 c.p. e 9 legge n. 194 del 1978, nonché vizio di motivazione: in particolare, si sostiene che l'obiettore di coscienza sia esonerato dall'intervenire in tutto il procedimento di interruzione volontaria della gravidanza, che comprende sia la fase di espulsione del feto, che quella relativa alla interruzione della placenta, fermo restando il limite della necessità di intervenire in caso di imminente pericolo di vita della donna, come prescrive l'art. 9 comma 5 della legge n. 194/1978, situazione questa che non si è mai verificata nel caso in esame. Sulla base di questa interpretazione della legge la difesa dell'imputata esclude che vi sia stata violazione dell'art. 328 c.p. sia in occasione della richiesta di intervenire in sala travaglio per l'espulsione del feto, sia successivamente, quando vi è stata la richiesta di intervento dopo l'espulsione del feto, ma non anche della placenta.

Inoltre, si assume che anche a voler ritenere che la fase dell'espulsione della placenta non rientri nel procedimento di interruzione della gravidanza, i giudici avrebbero dovuto comunque escludere la sussistenza del reato, dal momento che l'art. 328 c.p. da rilievo unicamente a condotte in cui sia ravvisabile non solo un rifiuto indebito, ma nelle quali l'atto debba essere compiuto senza ritardo: infatti, il rifiuto deve riguardare un atto che assunto in ritardo determina l'insorgenza di un pericolo concreto, situazione che nel caso di specie non si è mai verificata, essendo pacifico che la D.N. non si è mai trovata in una condizione di pericolo per la sua salute.

Sotto un distinto profilo, si sostiene la non configurabilità del reato neppure sotto l'aspetto psicologico, dovendo riconoscersi che l'eventuale errore sul fatto e sulla norma extrapenale, con riferimento proprio all'estensione del diritto di obiezione di coscienza, rilevi sulla volontà di porre in essere una condotta illecita. In altri termini, l'imputata sarebbe stata convinta di poter astenersi dall'intervenire nel procedimento di interruzione della gravidanza fino alla fase di espulsione della placenta, sicché dal punto di vista soggettivo il suo rifiuto non può essere ritenuto indebito, nella certezza che non vi fosse pericolo per la vita e la salute della paziente.

Con il secondo motivo la parte ricorrente ripropone l'eccezione sulla tardività della costituzione in giudizio della parte civile, avvenuta oltre il limite previsto dall'art. 491 c.p.p., censurando la sentenza che ha ritenuto tempestiva tale costituzione in quanto avvenuta prima della formale apertura del dibattimento.

Con l'ultimo motivo si deduce l'erronea applicazione degli artt. 62-bis e 133 c.p. e il connesso vizio di motivazione, per avere la sentenza escluso l'applicazione delle attenuanti generiche.

Considerato in diritto

3. Preliminarmente deve rilevarsi la manifesta infondatezza della eccezione sulla tardività della costituzione della parte civile, che risulta, invece, essere stata tempestiva, in quanto avvenuta prima delle formalità di apertura del dibattimento, ai sensi dell'art. 484 c.p.p., così come prevede l'art. 79 c.p.p..

4. Per il resto i motivi proposti sono tutti infondati.

4.1. Secondo la sentenza impugnata l'aborto farmacologico era stato eseguito da altro medico, non obiettore, e l'imputata si sarebbe rifiutata di assistere la paziente nel secondamento, cioè durante la fase espulsiva, già iniziata, che preoccupava l'ostetrica per possibili rischi di emorragia, situazione che aveva determinato la richiesta di intervento del medico di guardia. Su tali presupposti di fatto, la Corte d'appello, uniformandosi alla decisione del primo giudice, ha affermato la sussistenza del reato di cui all'art. 328 c.p., considerando che nella specie non potesse operare il diritto di obiezione di coscienza, in quanto l'art. 9 della legge n. 194 del 1978 esonera il medico obiettore dal partecipare alle attività 'specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza', ma non lo esime dal prestare la propria attività nelle fasi successive per evitare ogni possibile rischio per le condizioni cliniche e di salute della donna.

La decisione non merita alcuna censura, in quanto ha fatto una corretta applicazione della normativa in questione.

Infatti, l'art. 9 comma 3 legge n. 194/78 esclude che l'obiezione possa riferirsi anche all'assistenza antecedente e conseguente all'intervento, riconoscendo al medico obiettore il diritto di rifiutare di determinare l'aborto (chirurgicamente o farmacologicamente), ma non di omettere di prestare l'assistenza prima ovvero successivamente ai fatti causativi dell'aborto, in quanto deve comunque assicurare la tutela della salute e della vita della donna, anche nel corso dell'intervento di interruzione della gravidanza.

Nel caso in esame, il 'rifiuto' da parte dell'imputata ad intervenire per prestare assistenza alla D.N. ha riguardato la fase del c.d. secondamento, avvenuta successivamente all'aborto indotto per via farmacologica da altro sanitario, sicché deve escludersi che sia stata richiesta l'assistenza in una fase 'diretta a determinare l'interruzione della gravidanza', né può ritenersi, come sostiene la ricorrente, che il diritto di obiezione di coscienza esoneri il medico dall'intervenire durante l'intero procedimento di interruzione volontaria della gravidanza, in quanto si tratta di interpretazione che non trova alcun appiglio nella chiara lettera della norma. Invero, secondo la disciplina della legge n. 194 del 1978, l'obiezione esonera il medico esclusivamente dal 'compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza', diritto che peraltro trova il suo limite nella tutela della salute della donna, tanto è vero che il comma 5 dell'art. 9 della legge citata esclude ogni operatività all'obiezione di coscienza nei casi in cui l'intervento del medico obiettore sia 'indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo'. In questo caso, l'intervento del sanitario obiettore riguarda proprio quel segmento della procedura medica specificamente diretta a interrompere la gravidanza: il diritto dell'obiettore affievolisce, fino a scomparire di fronte al diritto della donna in imminente pericolo a ricevere le cure per tutelare la propria vita e la propria salute.

Quanto precede consente di respingere anche quelle tesi proposte dalla difesa della ricorrente e dirette a sostenere che non era tenuta ad intervenire dal momento che la D.N. non si è mai trovata in una situazione di imminente pericolo di vita. In questo modo si confonde la portata delle disposizioni contenute nei commi 3 e 5 dell'art. 9 citato: la circostanza che la D.N. non si trovasse in imminente pericolo di vita non giustifica il mancato intervento della imputata, in quanto il suo rifiuto acquista rilievo con riferimento alla fase di assistenza successiva all'intervento, che prescinde del tutto da una situazione di pericolo per la vita della paziente.

In sostanza, la legge tutela il diritto di obiezione entro lo stretto limite delle attività mediche dirette alla interruzione della gravidanza, esaurite le quali il medico obiettore non può opporre alcun rifiuto dal prestare assistenza alla donna. D'altra parte, il diritto all'aborto è stato riconosciuto come ricompreso nella sfera di autodeterminazione della donna e se l'obiettore di coscienza può legittimamente rifiutarsi di intervenire nel rendere concreto tale diritto, tuttavia non può rifiutarsi di intervenire per garantire il diritto alla salute della donna, non solo nella fase conseguente all'intervento di interruzione della gravidanza, ma come si è visto, in tutti i casi in cui vi sia un imminente pericolo di vita.

Nella specie, non vi è dubbio che la richiesta di assistenza ha riguardato una fase successiva all'intervento di interruzione della gravidanza, dovendosi considerare tale il c.d. secondamento; peraltro, si è trattato di un aborto indotto per via farmacologica e non chirurgica, sicché la fase rispetto alla quale opera l'esonero da obiezione di coscienza è limitata alle sole pratiche di predisposizione e somministrazione dei farmaci abortivi, coincidenti con quelle procedure e attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione cui si riferisce l'art. 9 comma 3 legge n. 194/1978, per il resto l'imputata aveva l'obbligo di assicurare la cura e l'assistenza alla paziente.

Sulla base di tale lettura della normativa in materia, deve riconoscersi che l'imputata avrebbe dovuto prestare la propria assistenza a tutte le fasi 'conseguenti' all'intervento, sicché acquista rilievo il suo rifiuto di assistere la D.N. anche dopo l'espulsione del feto e in assenza di espulsione della placenta, sebbene fosse stata richiesta la sua presenza dall'infermiera, dall'ostetrica e, successivamente, dallo stesso primario.

4.2. Infondata è anche la tesi della ricorrente secondo cui, anche ammesso il rifiuto indebito, deve escludersi la sussistenza del reato di cui all'art. 328 c.p., in quanto nella specie non vi sarebbe stato alcun ritardo nell'intervento di assistenza, tale da determinare il rischio di un pericolo concreto per la paziente.

Dal punto di vista oggettivo deve ritenersi pienamente integrato il reato dal momento che il rifiuto ha riguardato un atto sanitario, peraltro richiesto con insistenza da personale infermieristico e medico, in una situazione di oggettivo rischio per la paziente che non aveva ancora espulso la placenta, essendo del tutto irrilevante che le condizioni di salute non sono risultate particolarmente gravi: in questi casi il medico ha comunque l'obbligo di recarsi immediatamente a visitare il paziente al fine di valutare direttamente la situazione, soprattutto se a richiedere il suo intervento sono soggetti qualificati – come è accaduto nella specie – , in grado cioè di valutare la effettiva necessità della presenza del medico; peraltro, che fosse necessario un medico è dimostrato dal fatto che, dopo il rifiuto dell'imputata, è dovuto intervenire il dottor G. , primario del reparto e obiettore anch'egli, che l'ha assistita nella fase finale del secondamento eseguita manualmente.

4.3. Infondato è, inoltre, il motivo con cui si contesta l'esistenza del dolo. Sul punto i giudici di merito hanno ben evidenziato come l'imputata, sin dalla sua entrata in servizio di guardia medica, abbia precisato che non si sarebbe occupata della interruzione terapeutica di gravidanza della Di Nardo, rifiutando di entrare in sala parto anche dopo l'ordine impartitole prima dal primario, Dott. G. , e poi dal direttore amministrativo, Dott. C. , che le avrebbe spiegato come fosse suo dovere prestare assistenza alla paziente, dal momento che ciò non significava partecipare all'aborto, già praticato da altro sanitario. In particolare, la Corte territoriale ha escluso la buona fede dell'imputata, rilevando che ciò si risolverebbe nell'invocare quale scusante l'errore sulla legge, situazione che appare inconciliabile con le competenze professionali della M. e con la stessa scelta di esercitare il suo diritto di obiezione di coscienza in base alla legge n. 194 del 1978.

Si tratta di una motivazione del tutto logica e razionale, che tiene conto del fatto che l'esercizio del diritto di obiezione di coscienza da parte di un medico presupponga la piena consapevolezza dei limiti entro cui un tale diritto può essere esercitato. In ogni caso, la presunta buona fede ovvero l'ignoranza sulla legge extrapenale da parte dell'imputata non appare minimamente sostenibile in considerazione del fatto che la stessa ha continuato ad opporre un ingiustificato rifiuto ad assistere la paziente nonostante le richieste e le spiegazioni fattele dal primario e dal direttore amministrativo.

4.4. Infine, infondato è anche il motivo riferito al trattamento sanzionatorio.

Nel negare le circostanze attenuanti generiche i giudici di merito non hanno violato alcuna norma di legge, né sono incorsi in vizi riguardanti la motivazione: tali circostanze sono state escluse in riferimento alla gravità della condotta posta in essere dall'imputata che, in maniera reiterata, nonostante le richieste provenienti da personale sanitario qualificato, ha negato l'assistenza ad una paziente, interpretando le norme della legge sulla obiezione di coscienza in maniera limitata e strumentale, tale da non poter essere giustificata in relazione a convinzioni religiose, comunque in contrasto con gli obblighi derivanti dalla stessa professione medica.

5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e l'imputata condannata al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento della spese processuali.

DEPOSITATA IL 2 APRILE 2013