Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

Olir

Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 8 Aprile 2011

Sentenza 18 marzo 2011, n.30814/06

Corte Europea dei diritti dell'uomo. Sentenza 18 marzo 2011: "Causa Lautsi e altri contro Italia" (*)

______________
(*) Traduzione dal francese a cura di Laura De Gregorio in collaborazione con la Rivista "il Regno"

 

Corte europea dei diritti dell’uomo
 
GRANDE CAMERA
Causa Lautsi e altri contro Italia
(Ricorso n. 30814/06)
 
Sentenza
 
Strasburgo
18 marzo 2011
 
(Questa sentenza è definitiva. Può subire correzioni di forma)
 
 
 
Nella causa Lautsi e altri contro Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo, riunita nella Grande Camera composta da:
Jean-Paul Costa, presidente,
Christos Rozakis,
Nicolas Bratza,
Peer Lorenzen,
Josep Casadevall,
Giovanni Bonello,
Nina Vajić,
Rait Maruste,
Anatoly Kovler,
Sverre Erik Jebens,
Päivi Hirvelä,
Giorgio Malinverni,
George Nicolaou,
Ann Power,
Zdravka Kalaydjieva
Mihai Poalelungi,
Guido Raimondi, giudici,
et da Erik Fribergh, cancelliere,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 30 giugno 2010 e il 16 febbraio 2011,
Pronuncia la seguente sentenza adottata in quest’ultima data:
 
PROCEDIMENTO
 
1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 30814/06) contro la Repubblica italiana con cui una cittadina di questo Stato, la Sig.ra Soile Lautsi (“la ricorrente”), ha adito la Corte il 27 luglio 2006 ai sensi dell’art. 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”). Nel ricorso essa dichiara di agire in suo nome e in nome dei suoi figli, Dataico e Dami Albertin, minorenni all’epoca dello svolgimento dei fatti. Questi ultimi, diventati nel frattempo maggiorenni, hanno confermato di voler proseguire nella causa in qualità di ricorrenti (“il secondo e il terzo ricorrente”).
2. I ricorrenti sono rappresentati dall’Avv.to N. Paoletti del foro di Roma. Il governo italiano (“il Governo”) è rappresentato dal suo agente E. Spatafora e dai suoi coagenti aggiunti N. Lettieri e P. Accardo.
3. Il ricorso è stato assegnato alla seconda sezione della Corte (art. 52 § 1 del Regolamento). Il 1° luglio 2008 una camera di tale sezione, composta dai seguenti giudici: Françoise Tulkens, Antonella Mularoni, Vladimiro Zagrebelsky, Danutė Jočienė, Dragoljub Popović, András Sajó et Işıl Karakaş, ha deciso di comunicare il ricorso al Governo; ai sensi dell’art. 29 § 3 della Convenzione ha deciso inoltre di procedere all’esame sia sulla ricevibilità sia sul merito della causa.
4. Il 3 novembre 2009 una camera della stessa sezione, composta dai seguenti giudici: Françoise Tulkens, présidente, Ireneu Cabral Barreto, Vladimiro Zagrebelsky, Danutė Jočienė, Dragoljub Popović, András Sajó et Işıl Karakaş, ha dichiarato ricevibile il ricorso e ha concluso all’unanimità per la violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 1, esaminato congiuntamente all’art. 9 della Convenzione, stabilendo contestualmente di non doversi procedere all’esame del motivo di ricorso fondato sull’art. 14 della Convenzione.
5. Il 28 gennaio 2010 il Governo ha chiesto il rinvio della causa davanti alla Grande Camera ai sensi degli artt. 43 della Convenzione e 73 del Regolamento della Corte. Il 1° marzo 2010 un collegio della Grande Camera ha accolto tale richiesta.
6. La composizione della Grande Camera è stata stabilita in conformità agli artt. 26 §§ 4 e 5 della Convenzione e 24 del Regolamento.
7. Sia i ricorrenti che il Governo hanno depositato osservazioni scritte in aggiunta sul merito della causa.
8. Sono stati autorizzati ad intervenire nel procedimento scritto (artt. 36 § 2 della Convenzione e art. 44 § 2 del Regolamento) trentatre membri del Parlamento europeo che agiscono congiuntamente, l’organizzazione non governativa Greek Helsinki Monitor, già interveniente davanti alla camera, l’organizzazione non governativa Associazione nazionale del libero Pensiero, l’organizzazione non governativa European Centre for Law and Justice, l’organizzazione non governativa Eurojuris, le organizzazioni non governative Commission internationale de juristes, Interights e Human Rights Watch che agiscono congiuntamente, le organizzazioni non governative Zentralkomitee der deutschen Katholiken, Semaines sociales de France e Associazioni cristiane Lavoratori italiani che agiscono congiuntamente, nonché i governi dell’Armenia, della Bulgaria, di Cipro, della Federazione Russa, della Grecia, della Lituania, di Malta, del Principato di Monaco, della Romania e della Repubblica di San Marino. I governi dell’Armenia, della Bulgaria, di Cipro, della Federazione Russa, della Grecia, della Lituania, di Malta e della Repubblica di San Marino sono stati inoltre autorizzati ad intervenire congiuntamente nel procedimento orale.
9. Un’udienza pubblica si è svolta presso il Palazzo dei diritti dell’uomo in Strasburgo il 30 giugno 2010 (art. 59 § 3 del Regolamento).
 
Sono comparsi:
– per il governo convenuto
Nicola Lettieri, co-agente,
Giuseppe Albenzio, consigliere;
– per i ricorrenti
Nicolò Paoletti, consulente,
Natalia Paoletti, consulente,
Claudia Sartori, consigliere;
– per i governi dell’Armenia, della Bulgaria, di Cipro, della Federazione Russa, della Grecia, della Lituania, di Malta e della Repubblica di San Marino, terzi intervenienti:
Joseph WEILER, professore presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di New York, consulente;
Stepan KARTASHYAN, rappresentante permanente aggiunto dell’Armenia presso il Consiglio d’Europa,
Andrey TEHOV, ambasciatore, rappresentante permanente della Bulgaria presso il Consiglio d’Europa,
Yannis MICHILIDES, rappresentante permanente aggiunto di Cipro presso il Consiglio d’Europa,
Vasileia PELEKOU, aggiunta al rappresentante permanente della Grecia presso il Consiglio d’Europa,
Darius ŠIMAITIS, rappresentante permanente aggiunto della Lituania presso il Consiglio d’Europa,
Joseph LICARI, ambasciatore, rappresentante permanente di Malta presso il Consiglio d’Europa,
Georgy MATYUSHKIN, agente del governo della Federazione Russa,
Guido BELLATTI CECCOLI, co-agente del governo della Repubblica di San Marino, consiglieri.
 
La Corte ha udito Nicolò Paoletti e Natalia Paoletti oltre a Nicola Lettieri, Giuseppe Albenzio e Joseph Weiler.
 
IN FATTO
 
I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE
10. Nati rispettivamente nel 1957, 1988 e 1990, la ricorrente e i suoi due figli, Dataico e Sami Albertin, ugualmente ricorrenti, sono residenti in Italia. Questi ultimi, nell’anno scolastico 2001-2002, frequentavano la scuola pubblica Istituto comprensivo statale Vittorino da Feltre di Abano Terme. Un crocifisso era appeso nelle aule scolastiche.
11. Il 22 aprile 2002, nel corso di una riunione del consiglio di istituto, il marito della ricorrente sollevò la questione della presenza dei simboli religiosi nelle aule scolastiche, del crocifisso in particolare, e ne chiese la rimozione. Il 27 maggio 2002, con dieci voti contro due e un’astensione, il consiglio di istituto decise di mantenere appesi i simboli religiosi nelle aule.
12. Il 23 luglio 2002 la ricorrente adì il tribunale amministrativo regionale per il Veneto denunciando violazione del principio di laicità – fondata sugli artt. 3 (principio di uguaglianza) e 19 (libertà religiosa) della Costituzione italiana e sull’art. 9 della Convenzione – nonché del principio di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 della Costituzione).
13. Il 3 ottobre 2002 il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca emanò una direttiva (n. 2666) nella quale si stabiliva che i servizi competenti del proprio ministero avrebbero dovuto adottare le disposizioni necessarie affinché i dirigenti scolastici assicurassero la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche (cf. qui sotto § 24).
Il 30 ottobre 2003 tale ministro si costituì parte civile nel procedimento iniziato dalla ricorrente. Dichiarò non fondato il ricorso argomentando che la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche si basava sull’art. 118 del regio decreto n. 965 del 30 aprile 1924 (ordinamento interno delle giunte e dei regi istituti di istruzione media) e sull’art. 119 del regio decreto n. 1297 del 26 aprile 1928 (approvazione del regolamento generale sui servizi dell’istruzione elementare) (cf. qui sotto § 19).
14. Con un’ordinanza del 14 gennaio 2004 il tribunale amministrativo investì la Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale, con riguardo al principio di laicità dello Stato e agli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, degli artt. 159 e 160 del decreto legislativo n. 297 del 16 aprile 1994 (recante approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione relative alle scuole di ogni ordine e grado) nella loro “specificazione” risultante dagli artt. 118 e 119 dei regi decreti succitati, così come dell’art. 676 del citato decreto legislativo.
Gli artt. 159 e 160 del decreto legislativo pongono a carico dei comuni l’acquisto e la fornitura degli arredi scolastici delle scuole elementari e medie, mentre l’art. 119 del regio decreto del 1928 include il crocifisso nell’elenco dell’arredamento scolastico di cui devono essere dotate le aule e l’art. 118 del regio decreto del 1924 specifica che in ogni aula vi devono essere il ritratto del re e il crocifisso. Quanto all’art. 676 del decreto legislativo, stabilisce che le disposizioni non comprese nel testo unico rimangono in vigore “ad eccezione delle disposizioni contrarie o incompatibili con il testo unico che sono abrogate”.
Con un’ordinanza del 15 dicembre 2004 (n. 389) la Corte costituzionale dichiarò la questione di costituzionalità manifestamente inammissibile motivando che l’impugnazione si riferiva a disposizioni non aventi rango legislativo ma regolamentare (gli artt. 118 e 119 succitati) e quindi a disposizioni non suscettibili di un controllo di legittimità costituzionale.
15. Il 17 marzo 2005 il tribunale amministrativo rigettò il ricorso. Dopo aver concluso che l’art. 118 del regio decreto del 30 aprile 1924 e l’art. 119 del regio decreto del 26 aprile 1928 sono ancora in vigore e sottolineato che “il principio di laicità dello Stato fa ormai parte del patrimonio giuridico europeo e delle democrazie occidentali”, concluse che la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche in virtù del significato che occorre riconoscergli, non viola tale principio. Ritenne che se il crocifisso è innegabilmente un simbolo religioso, si tratta comunque di un simbolo del cristianesimo in generale più che del solo cattolicesimo, sicché esso rinvia anche ad altre confessioni. Considerò inoltre che si tratta in più di un simbolo storico culturale dotato di un “valore identitario” per il popolo italiano “rappresentando in qualche modo il percorso storico e culturale caratteristico del nostro Paese e in genere dell’Europa intera e costituendone un’efficace sintesi”. Ritenne inoltre che il crocifisso deve essere considerato anche come un simbolo di un sistema di valori che contraddistinguono la Carta costituzionale italiana. Nella motivazione della sentenza si legge:
“(…) 11.1. A questo punto, pur consapevoli di incamminarsi su di un sentiero impervio e talvolta scivoloso, non si può fare a meno di rilevare come il cristianesimo e anche il suo fratello maggiore, l’ebraismo – almeno da Mosé in poi e sicuramente nell’interpretazione talmudica – abbiano posto la tolleranza dell’altro e la difesa della dignità dell’uomo, al centro della loro fede.
In particolare poi il cristianesimo – anche per il riferimento al noto e spesso incompreso “Date a Cesare quello che è di Cesare, e a…” – con la sua forte accentuazione del precetto dell’amore per il prossimo e ancor più con l’esplicita prevalenza data alla carità sulla stessa fede, contiene in nuce quelle idee di tolleranza, eguaglianza e libertà che sono alla base dello Stato laico moderno e di quello italiano in particolare.
11.2. Spingendo lo sguardo oltre la superficie, si individua un filo che collega tra di loro la rivoluzione cristiana di duemila anni fa, l’affermarsi in Europa del “habeas corpus”, gli stessi elementi cardine dell’illuminismo (che pure storicamente si pose in vivace contrasto con la religione), cioè la libertà e la dignità di ogni uomo, la dichiarazione dei diritti dell’uomo e infine la stessa laicità dello Stato moderno; tutti i fenomeni storici indicati si fondano in modo significativo – anche se certamente non in via esclusiva – sulla concezione cristiana del mondo. E’ stato acutamente osservato che il noto “liberté, egalité, fraternité” costituisce un motto agevolmente condivisibile da un cristiano, sia pure con l’ovvia accentuazione del terzo termine.
In sostanza, non appare azzardato affermare che, attraverso i tortuosi e accidentati percorsi della storia europea, la laicità dello Stato moderno sia stata faticosamente conquistata anche (certamente non solo) in riferimento più o meno consapevole ai valori fondanti del cristianesimo; ciò spiega come molti giuristi di fede cristiana siano stati in Europa e in Italia tra i più strenui assertori della laicità dello Stato. (…)
11.5. Il legame tra cristianesimo e libertà implica una consequenzialità storica non immediatamente percepibile, un fiume carsico esplorato solo di recente proprio in quanto sotterraneo per gran parte del suo percorso, anche perché nella tormentata vicenda dei rapporti tra Stati e chiese d’Europa si riconoscono ben più agevolmente i numerosi tentativi di queste ultime di intromettersi nelle questioni statali e viceversa, così come alquanto frequenti sono stati l’abbandono dei pur conclamati ideali cristiani per ragioni di potere e infine le contrapposizioni talvolta violente tra governi e autorità religiose.
11.6. Peraltro, in una visione prospettica, nel nucleo centrale e costante della fede cristiana, nonostante l’inquisizione, l’antisemitismo e le crociate, si può agevolmente individuare il principio di dignità dell’uomo, di tolleranza, di libertà anche religiosa e quindi in ultima analisi il fondamento della stessa laicità dello Stato.
11.7. A saper mirare la storia, ponendosi cioè su di un poggio e non rimanendo confinati a fondovalle, si individua una percepibile affinità (non identità) tra il “nocciolo duro” del cristianesimo, che, privilegiando la carità su ogni altro aspetto, fede inclusa, pone l’accento sull’accettazione del diverso, e il “nocciolo duro” della Costituzione repubblicana, che consiste nella valorizzazione solidale della libertà di ciascuno e quindi nella garanzia giuridica del rispetto dell’altro. La sintonia permane anche se attorno ai due nuclei, entrambi focalizzati sulla dignità dell’uomo, si sono nel tempo sedimentate molte incrostazioni, alcune talmente spesse da occultarli alla vista, e ciò vale soprattutto per il cristianesimo. (…)
11.9. Si può quindi sostenere che, nell’attuale realtà sociale, il crocifisso debba essere considerato non solo come simbolo di un’evoluzione storica e culturale, e quindi dell’identità del nostro popolo, ma quale simbolo altresì di un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato, principi questi che innervano la nostra Carta costituzionale.
In altri termini, i principi costituzionali di libertà hanno molte radici, e una di queste indubbiamente è il cristianesimo, nella sua stessa essenza. Sarebbe quindi sottilmente paradossale escludere un segno cristiano da una struttura pubblica in nome di una laicità, che ha sicuramente una delle sue fonti lontane proprio nella religione cristiana.
12.1. Questo Tribunale non ignora certo come nel passato si siano attribuiti al simbolo del crocifisso altri valori, quale, al tempo dello Statuto albertino, di segno del cattolicesimo inteso come religione di Stato, utilizzato quindi per cristianizzare un potere e consolidare un’autorità.
Si rende inoltre conto che ancor oggi del simbolo della croce si possono fornire diverse interpretazioni: innanzi tutto quella strettamente religiosa, sia riferita al cristianesimo in generale sia in particolare al cattolicesimo. E’ altresì consapevole che alcuni alunni frequentanti la scuola pubblica potrebbero liberamente e legittimamente attribuire alla croce valenze ancora diverse, come di inaccettabile preferenza data ad una religione rispetto ad altre, ovvero di un vulnus alla libertà individuale e quindi alla stessa laicità dello Stato, al limite di un richiamo al cesaropapismo ovvero all’inquisizione, addirittura di uno scampolo gratuito di catechismo erogato tacitamente anche ai non credenti in una sede non idonea o infine di propaganda subliminale in favore delle confessioni cristiane: si tratta di opinioni tutte rispettabili, ma in fondo non rilevanti nella causa in esame. (…)
12.6. Doverosamente va rilevato che il simbolo del crocifisso, così inteso, assume oggi, con il richiamo ai valori di tolleranza, una valenza particolare nella considerazione che la scuola pubblica italiana risulta attualmente frequentata da numerosi allievi extracomunitari, ai quali risulta piuttosto importante trasmettere quei principi di apertura alla diversità e di rifiuto di ogni integralismo – religioso o laico che sia – che impregnano di sé il nostro ordinamento. Viviamo in un momento di tumultuoso incontro con altre culture, e, per evitare che esso si trasformi in scontro, è indispensabile riaffermare anche simbolicamente la nostra identità, tanto più che essa si caratterizza proprio per i valori di rispetto per la dignità di ogni essere umano e di universalismo solidale. (…)
13.2. Invero, i simboli religiosi in genere implicano un meccanismo logico di esclusione; infatti, il punto di partenza di ogni fede religiosa è appunto la credenza in un’entità superiore, per cui gli aderenti, ovvero i fedeli, si trovano per definizione e convinzione nel giusto. Di conseguenza e inevitabilmente, l’atteggiamento di chi crede rispetto a chi non crede, che quindi si oppone implicitamente all’essere supremo, è di esclusione. (…)
13.3. Il meccanismo logico dell’esclusione dell’infedele è insito in ogni credo religioso, anche se gli interessati non ne sono consapevoli; peraltro, con la sola eccezione del cristianesimo, ove ben compreso (il che ovviamente non è sempre avvenuto nel passato né avviene oggi, nemmeno ad opera di chi si proclama cristiano), il quale considera secondaria la stessa fede nell’onnisciente di fronte alla carità, cioè al rispetto per il prossimo. Ne consegue che il rifiuto del non credente da parte di un cristiano implica la radicale negazione dello stesso cristianesimo, una sostanziale abiura, il che non vale per le altre fedi religiose, per le quali può costituire al massimo la violazione di un importante precetto.
13.4. Il simbolo del cristianesimo – la croce – non può quindi escludere nessuno senza negare sé stessa; anzi, essa costituisce, in un certo senso, il segno universale dell’accettazione e del rispetto per ogni essere umano in quanto tale, indipendentemente da ogni sua credenza, religiosa o meno.
14.1. Occorre appena aggiungere che la croce in classe rettamente intesa prescinde dalle libere convinzioni di ciascuno, non esclude alcuno e ovviamente non impone e non prescrive nulla a nessuno, ma implica soltanto, nell’alveo delle finalità educative e formative della scuola pubblica, una riflessione – necessariamente guidata dai docenti – sulla storia italiana e sui valori condivisi della nostra società come giuridicamente recepiti nella Costituzione, tra cui in primis la laicità dello Stato. (…)”
16. Il Consiglio di Stato, adito dalla ricorrente, confermò che la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche trova la sua base giuridica nell’art. 118 del regio decreto del 30 aprile 1924 e nell’art. 119 del regio decreto del 26 aprile 1928 e che, quanto al significato che occorre riconoscergli, è compatibile con il principio di laicità. Al riguardo, giudicò in particolare che in Italia, il crocifisso simboleggia l’origine religiosa dei valori (la tolleranza, il rispetto reciproco, la valorizzazione della persona, l’affermazione dei suoi diritti, la considerazione per la sua libertà, l’autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, la solidarietà umana, il rifiuto di qualsiasi discriminazione) che caratterizzano la civiltà italiana. In questi termini, esposto nelle aule scolastiche, il crocifisso riveste – sia pure in una prospettiva “laica” distinta dalla prospettiva religiosa che gli è propria – una funzione simbolica altamente educativa indipendentemente dalla religione professata dagli alunni. Secondo il Consiglio di Stato, occorre vedere in esso un simbolo capace di riflettere le origini dei valori civili menzionati, valori che definiscono la laicità nell’ordinamento giuridico attuale dello Stato.
Datata 13 aprile 2006, la sentenza (n. 556) così stabilisce:
“(…) La Corte costituzionale ha riconosciuto nella laicità un principio supremo del nostro ordinamento costituzionale, idoneo a risolvere talune questioni di legittimità costituzionale (ad esempio, tra le tante pronunce, quelle riguardanti norme sull’obbligatorietà dell’insegnamento religioso nella scuola, o sulla competenza giurisdizionale per le cause concernenti la validità del vincolo matrimoniale contratto canonicamente e trascritto nei registri dello stato civile).
Trattasi di un principio non proclamato expressis verbis dalla nostra Carta fondamentale; un principio che, ricco di assonanze ideologiche e di una storia controversa, assume però rilevanza giuridica potendo evincersi dalle norme fondamentali del nostro ordinamento. In realtà la Corte lo trae specificamente dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost.
Il principio utilizza un simbolo linguistico (“laicità”) che indica in forma abbreviata profili significativi di quanto disposto dalle anzidette norme, i cui contenuti individuano le condizioni di uso secondo le quali esso va inteso ed opera. D’altra parte, senza l’individuazione di tali specifiche condizioni d’uso, il principio di “laicità” resterebbe confinato nelle dispute ideologiche e sarebbe difficilmente utilizzabile in sede giuridica.
In questa sede, le condizioni di uso vanno certo determinate con riferimento alla tradizione culturale, ai costumi di vita, di ciascun popolo, in quanto però tale tradizione e tali costumi si siano riversati nei loro ordinamenti giuridici. E questi mutano da nazione a nazione. (…)
In questa sede giurisdizionale, per il problema innanzi ad essa sollevato della legittimità della esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, disposto dalle autorità competenti in esecuzione di norme regolamentari, si tratta in concreto e più semplicemente di verificare se tale imposizione sia lesiva dei contenuti delle norme fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, che danno forma e sostanza al principio di “laicità” che connota oggi lo Stato italiano, ed al quale ha fatto più volte riferimento il supremo giudice delle leggi.
È evidente che il crocifisso è esso stesso un simbolo che può assumere diversi significati e servire per intenti diversi; innanzitutto per il luogo ove è posto.
In un luogo di culto il crocifisso è propriamente ed esclusivamente un “simbolo religioso”, in quanto mira a sollecitare l’adesione riverente verso il fondatore della religione cristiana.
In una sede non religiosa, come la scuola, destinata all’educazione dei giovani, il crocifisso potrà ancora rivestire per i credenti i suaccennati valori religiosi, ma per credenti e non credenti la sua esposizione sarà giustificata ed assumerà un significato non discriminatorio sotto il profilo religioso, se esso è in grado di rappresentare e di richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile ed intuibile (al pari di ogni simbolo) valori civilmente rilevanti, e segnatamente quei valori che soggiacciono ed ispirano il nostro ordine costituzionale, fondamento del nostro convivere civile. In tal senso il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte “laico”, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni.
Ora è evidente che in Italia, il crocifisso è atto ad esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana.
Questi valori, che hanno impregnato di sé tradizioni, modo di vivere, cultura del popolo italiano, soggiacciono ed emergono dalle norme fondamentali della nostra Carta costituzionale, accolte tra i “Principi fondamentali” e la Parte I della stessa, e, specificamente, da quelle richiamate dalla Corte costituzionale, delineanti la laicità propria dello Stato italiano.
Il richiamo, attraverso il crocifisso, dell’origine religiosa di tali valori e della loro piena e radicale consonanza con gli insegnamenti cristiani, serve dunque a porre in evidenza la loro trascendente fondazione, senza mettere in discussione, anzi ribadendo, l’autonomia (non la contrapposizione, sottesa a una interpretazione ideologica della laicità che non trova riscontro alcuno nella nostra Carta fondamentale) dell’ordine temporale rispetto all’ordine spirituale, e senza sminuire la loro specifica “laicità”, confacente al contesto culturale fatto proprio e manifestato dall’ordinamento fondamentale dello Stato italiano. Essi, pertanto, andranno vissuti nella società civile in modo autonomo (di fatto non contraddittorio) rispetto alla società religiosa, sicché possono essere “laicamente” sanciti per tutti, indipendentemente dall’appartenenza alla religione che li ha ispirati e propugnati.
Come ad ogni simbolo, anche al crocifisso possono essere imposti o attribuiti significati diversi e contrastanti, oppure ne può venire negato il valore simbolico per trasformarlo in suppellettile, che può al massimo presentare un valore artistico. Non si può però pensare al crocifisso esposto nelle aule scolastiche come ad una suppellettile, oggetto di arredo, e neppure come ad un oggetto di culto; si deve pensare piuttosto come ad un simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili sopra richiamati, che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato. (…)
 
II. L’EVOLUZIONE DEL DIRITTO E DELLA PRASSI INTERNI PERTINENTI
17. L’obbligo di appendere un crocifisso nelle aule delle scuole elementari era previsto dall’art. 140 del regio decreto n. 4336 del 15 settembre 1860 emanato durante il Regno del Piemonte e di Sardegna in attuazione della legge n. 3725 del 13 novembre 1859 ai sensi della quale “ogni scuola [dovrà] essere dotata (…) di un crocifisso” (art. 140).
Nel 1861, anno di nascita dello Stato italiano, lo Statuto del Regno di Sardegna del 1848 divenne la Carta costituzionale del Regno d’Italia; tale Statuto prevedeva che “la religione cattolica apostolica e romana [fosse] la sola religione dello Stato [e che] gli altri culti esistenti [fossero] tollerati conformemente alla legge”.
18. La presa di Roma da parte dell’esercito italiano il 20 settembre del 1870 in seguito alla quale Roma fu annessa e proclamata capitale del nuovo Regno d’Italia, provocò una crisi nei rapporti fra Stato e Chiesa cattolica. Con la legge n. 214 del 13 marzo 1871, lo Stato italiano regolò in via unilaterale le relazioni con la Chiesa e accordò al sommo pontefice alcuni privilegi per permettere il regolare svolgimento delle attività religiose. Secondo i ricorrenti l’esposizione del crocifisso nelle scuole cadde via via in desuetudine.
19. Durante il periodo fascista lo Stato adottò una serie di misure volte a fare rispettare l’obbligo di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche. In particolare, il Ministero della Pubblica istruzione il 22 novembre 1922 emanò una circolare (n. 68) così redatta: “(…) in questi ultimi anni, in molte scuole elementari del Regno l’immagine di Gesù Cristo e il ritratto del Re sono state tolte. Ciò costituisce una violazione manifesta e intollerabile di una disposizione regolamentare e soprattutto un attacco alla religione di maggioranza dello Stato così come all’unità della Nazione. Intimiamo quindi a tutte le amministrazioni comunali del Regno l’ordine di ristabilire nelle scuole che ne sono prive i due simboli sacri della fede e del sentimento nazionale”.
Il 30 aprile 1924 fu emanato il regio decreto n. 965 recante l’ordinamento interno per le giunte e i regi istituti di istruzione media il cui articolo 118 così recita:
“Ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del crocifisso e il ritratto del re”.
Quanto al regio decreto n. 1297 del 26 aprile 1928, recante approvazione del regolamento generale sui servizi dell’istruzione elementare, stabilisce nell’art. 119 che il crocifisso è da ricomprendersi fra gli “arredi e il materiale occorrente nelle varie classi e dotazione della scuola”.
20. I Patti lateranensi firmati l’11 febbraio del 1929 segnarono la “Conciliazione” fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica. Il cattolicesimo venne confermato quale religione dello Stato italiano dall’art. 1 del Trattato che così recita:
“L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’art. 1 dello Statuto del Regno 4 marzo 1848 per il quale la religione cattolica apostolica e romana è la sola religione dello Stato”.
21. Nel 1948 lo Stato italiano adottò la Costituzione repubblicana il cui art. 7 stabilisce che “lo Stato e la Chiesa cattolica sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani [che] i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi [e che] le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. D’altro canto l’art. 8 enuncia che “tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge [che] le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano [che] i loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”.
22. Il Protocollo addizionale al nuovo Concordato del 18 febbraio 1984, ratificato con la legge n. 121 del 25 marzo 1985, stabilì che non si doveva considerare più in vigore il principio originariamente richiamato dai Patti lateranensi della religione cattolica come sola religione dello Stato.
23. Nella sentenza del 12 aprile 1989 (n. 203), esaminando la questione del carattere non obbligatorio dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, la Corte costituzionale ha riconosciuto al principio di laicità valore di principio supremo della Costituzione, precisando che esso implica non indifferenza dello Stato verso le religioni, ma garanzia per la salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale.
Investita nel caso di specie della questione di conformità a tale principio della presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche, la Corte costituzionale si è dichiarata incompetente avuto riguardo alla natura regolamentare delle disposizioni che prescrivono tale presenza (ordinanza del 15 dicembre 2004, n. 389; cf. qui sopra § 14). Investito della questione il Consiglio di Stato ha giudicato che, visto il significato che occorre riconoscergli, la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche è compatibile con il principio di laicità (sentenza del 13 febbraio 2006, n. 556; cf. qui sopra § 16).
Diversamente dal Consiglio di Stato aveva giudicato la Corte di cassazione in una causa relativa ad un procedimento penale nei confronti di un soggetto che si era rifiutato di assumere l’incarico di scrutatore in un seggio elettorale data la presenza nel seggio stesso di un crocifisso. Nella sua sentenza del 1° marzo 2000 (n. 439) la Corte giudicò che tale presenza recava offesa ai principi di laicità e di imparzialità dello Stato, nonché al principio di libertà di coscienza di quanti non si riconoscono in quel simbolo. Rigettò espressamente la tesi secondo cui l’esposizione del crocifisso avrebbe fondamento in quanto simbolo di una “civiltà intera o della coscienza etica collettiva” e – la Corte di cassazione citò sul punto i termini utilizzati dal Consiglio di Stato in una sentenza del 27 aprile 1988 (n. 63) – simboleggerebbe così un “valore universale, indipendente da una determinata confessione religiosa”.
24. Il 3 ottobre 2002 il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca adottò la direttiva (n. 2666) seguente:
“(…) Il Ministro
(…) Considerando che la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche ha il suo fondamento nelle norme vigenti, che non viola né il pluralismo religioso né gli obiettivi di formazione multiculturale della scuola italiana e che non potrebbe essere considerato come una limitazione della libertà di coscienza garantita dalla Costituzione, poiché non rinvia ad una confessione specifica ma costituisce unicamente una espressione della civiltà e della cultura cristiana, e che fa dunque parte del patrimonio universale dell’umanità;
Avendo valutato l’opportunità, nel rispetto delle diverse appartenenze, convinzioni e credenze, che ogni scuola, nell’ambito della propria autonomia e in base alla decisione dei propri organi collegiali competenti, metta a disposizione un locale speciale, al di fuori di qualsiasi obbligo e orario di servizio, riservato al raccoglimento e alla meditazione dei membri della comunità scolastica che lo desiderano;
Emana la direttiva seguente:
Il competente Dipartimento del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della ricerca provvederà ad impartire le occorrenti disposizioni perché:
1. sia assicurata da parte dei dirigenti scolastici l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche;
2. ogni istituzione scolastica, nell’ambito della propria autonomia e su delibera dei competenti organi collegiali, renda disponibile un apposito ambiente da riservare, fuori dagli obblighi ed orari di servizio, a momenti di raccoglimento e di meditazione dei componenti della comunità scolastica che lo desiderino. (…)”
25. Gli artt. 19, 33 e 34 della Costituzione così dispongono:
Articolo 19
Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.
Articolo 33
L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.
La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi (…).
Articolo 34
La scuola è aperta a tutti.
L’istruzione inferiore impartita per almeno otto anni è obbligatoria e gratuita.
 
III. SINTESI DEL DIRITTO E DELLA PRASSI INTERNI AGLI STATI MEMBRI DEL CONSIGLIO D’EUROPA CIRCA LA PRESENZA DEI SIMBOLI RELIGIOSI NELLE SCUOLE PUBBLICHE
26. Nella maggior parte degli Stati membri del Consiglio d’Europa la questione della presenza dei simboli religiosi nelle scuole pubbliche non costituisce oggetto di una regolamentazione specifica.
27. La presenza dei simboli religiosi nelle scuole pubbliche è espressamente vietata solo in una minoranza di Stati membri: ex Repubblica iugoslava di Macedonia, Francia (salvo che in Alsazia e Mosella) e Georgia.
E’ espressamente prevista – oltre che in Italia – in alcuni Stati membri: in Austria, in alcuni Lander tedeschi e comuni svizzeri e in Polonia. Va peraltro sottolineato che simboli religiosi nelle scuole pubbliche sono presenti in alcuni Stati membri in cui la questione non è specificamente regolata come in Spagna, in Grecia, in Irlanda, a Malta, nella Repubblica di San Marino e in Romania.
28. Le giurisdizioni supreme di alcuni Stati membri sono state investite della questione in esame.
In Svizzera, il Tribunale federale ha giudicato incompatibile con le esigenze della neutralità confessionale, consacrata dalla Costituzione federale, un’ordinanza comunale che prevedeva la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole elementari senza tuttavia condannare tale presenza in luoghi diversi dagli edifici scolastici (26 settembre 1990; ATF 116 1-252).
In Germania, la Corte costituzionale federale ha giudicato un’ordinanza simile della Baviera contraria al principio della neutralità dello Stato e difficilmente compatibile con la libertà religiosa dei ragazzi che non si riconoscono nella religione cattolica (16 maggio 1995; BVerfGE 93-1). Il Parlamento della Baviera ha adottato successivamente una nuova ordinanza conservando questa misura, ma prevedendo la possibilità per i genitori di invocare le loro convinzioni religiose o laiche per contestare la presenza del crocifisso nelle aule frequentate dai loro figli, così attivando un meccanismo che obbliga a ricercare nel caso concreto un compromesso o una soluzione personalizzata.
In Polonia, la Corte costituzionale, investita da parte dell’Ombudsman della questione di legittimità dell’ordinanza del ministro dell’Istruzione del 14 aprile 1992 che prevedeva la possibilità di esporre il crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche, ha giudicato la misura compatibile con la libertà di coscienza e di religione e con il principio di separazione tra Chiesa e Stato garantito dall’art. 82 della Costituzione, dal momento che l’ordinanza non conteneva un obbligo di esposizione del crocifisso (20 aprile 1993; n. U 12-32).
In Romania, la Corte suprema ha annullato una decisione del Consiglio nazionale per la lotta contro la discriminazione del 21 novembre 2006 che raccomandava al ministero dell’Istruzione di regolare la questione della presenza dei simboli religiosi nelle scuole pubbliche e in particolare di non autorizzare l’esposizione di tali simboli se non durante i corsi di religione o nelle aule destinate all’insegnamento religioso. L’alta Corte ha ritenuto che la decisione di appendere tali simboli nelle scuole doveva appartenere alla comunità scolastica formata dai professori, dagli studenti e dai genitori di questi ultimi (11 giugno 2008; n. 2393).
In Spagna, il tribunale superiore di giustizia di Castiglia e Leόn, decidendo nel quadro di un procedimento avviato da una associazione sostenitrice della scuola laica che aveva invano richiesto la rimozione dei simboli religiosi dagli edifici scolastici, ha giudicato che tali edifici avrebbero dovuto procedere alla rimozione in caso di domanda esplicita dei genitori di uno studente (14 dicembre 2009; n. 3250).
 
IN DIRITTO
 
I. SULL’ADDOTTA VIOLAZIONE DELL’ART. 2 DEL PROTOCOLLO N. 1 E DELL’ART. 9 DELLA CONVENZIONE
29. La doglianza dei ricorrenti ha per oggetto la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche frequentate dal secondo e dal terzo di essi. Denunciano una violazione del diritto all’istruzione che l’art. 2 del Protocollo n. 1 così garantisce:
“Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e a tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche”.
Deducono inoltre da tali circostanze una violazione del loro diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione consacrato dall’art. 9 della Convenzione che così statuisce:
“1 Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.
2 La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui”.
A. La sentenza della camera
30. Nella sentenza del 3 novembre 2009 la camera ha concluso per una violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 1 esaminato congiuntamente con l’art. 9 della Convenzione.
31. Innanzitutto la camera deduce, dai principi contenuti nell’art. 2 del Protocollo n. 1, come interpretati dalla giurisprudenza della Corte, un obbligo dello Stato di astenersi dall’imporre, sia pure indirettamente, credenze nei luoghi pubblici o in ambienti dove le persone sono particolarmente vulnerabili, sottolineando che l’ambiente scolastico rappresenta un settore particolarmente sensibile a questo proposito.
In secondo luogo reputa che fra la pluralità di significati che il crocifisso può avere quello religioso è prevalente. Considera di conseguenza che la presenza obbligatoria e ostentata del crocifisso nelle aule scolastiche era tale non solo da ledere le convinzioni laiche della ricorrente i cui figli frequentavano allora una scuola pubblica, ma anche da turbare emotivamente gli alunni professanti una religione diversa da quella cristiana o non professanti alcuna religione. Su quest’ultimo punto, la camera sottolinea che la libertà di religione “negativa” non è limitata all’assenza di servizi religiosi o di insegnamenti religiosi: si estende alle pratiche e ai simboli che esprimono in particolare o in generale una credenza, una religione o l’ateismo. Aggiunge che questo “diritto negativo” merita una particolare protezione se è lo Stato ad esprimere un credo e se la persona è posta in situazione tale da non potersi svincolare o da poterlo fare solo a costo di sforzi e di sacrifici sproporzionati.
Secondo la camera lo Stato è obbligato alla neutralità confessionale nel campo dell’educazione pubblica dove la frequenza alle lezioni è richiesta indipendentemente dall’aspetto religioso e al fine di sviluppare negli studenti uno spirito critico. Aggiunge di non vedere come l’esposizione nelle aule delle scuole pubbliche di un simbolo che è ragionevole associare alla religione maggioritaria in Italia potrebbe servire al pluralismo educativo che è essenziale a preservare una “società democratica” così come la concepisce la Convenzione.
32. La camera conclude che “l’esposizione obbligatoria di un simbolo di una determinata confessione religiosa nell’esercizio della funzione pubblica in relazione a situazioni sottoposte a controllo statale, in particolare nelle aule scolastiche, limita il diritto dei genitori di educare i propri figli in conformità alle proprie convinzioni così come il diritto degli alunni di credere o di non credere”. Secondo la camera tale misura comporta violazione di quei diritti poiché “le restrizioni sono incompatibili con il dovere che grava sullo Stato di rispettare la neutralità nell’esercizio della funzione pubblica, in particolare nel campo dell’educazione” (§ 57 della sentenza).
B. Le tesi delle parti
1. Il Governo
33. Il Governo non solleva alcuna eccezione di irricevibilità.
34. Si duole che la camera non abbia compiuto uno studio di diritto comparato a proposito dei rapporti tra lo Stato e le religioni e sull’esposizione dei simboli religiosi nelle scuole pubbliche. Secondo il Governo ci si è così privati di un elemento essenziale, dal momento che un tale studio avrebbe dimostrato che non vi è un comune orientamento in Europa in questo ambito e avrebbe condotto di conseguenza a concludere che gli Stati membri dispongono di un margine di apprezzamento particolarmente ampio; invece, la sentenza della camera omette di prendere in considerazione il margine di apprezzamento eludendo in tal modo un aspetto fondamentale della problematica.
35. Rimprovera anche alla sentenza della camera di dedurre dal concetto di “neutralità” confessionale un principio di esclusione di qualsiasi relazione fra lo Stato e una religione determinata, laddove invece la neutralità presuppone la considerazione di tutte le religioni da parte dell’autorità pubblica. La sentenza si fonderebbe così su una confusione tra “neutralità” (un “concetto inclusivo”) e “laicità” (“un concetto esclusivo”). In più, secondo il Governo la neutralità implica che gli Stati si astengano dal promuovere non solo una religione specifica, ma anche l’ateismo, il “laicismo” di Stato, essendo questi non meno problematici che il proselitismo di Stato. La sentenza della camera insomma si fonderebbe su un malinteso e condurrebbe a favorire una interpretazione areligiosa o antireligiosa di cui sarebbe sostenitrice la ricorrente, membro dell’unione degli atei e agnostici razionalisti.
36. Il Governo prosegue sottolineando che occorre considerare che uno stesso simbolo può essere interpretato in modo diverso da una persona all’altra. Sarebbe proprio il caso della “croce” che potrebbe essere percepita non solamente come un simbolo religioso, ma anche come un simbolo culturale e identitario dei principi e dei valori che fondano la democrazia e la civiltà occidentale; non a caso è presente sulle bandiere di numerosi paesi europei. Il Governo aggiunge che, quale che sia la sua forza evocatrice, una “immagine” è un simbolo “passivo” il cui impatto sugli individui non è paragonabile a quello di un “comportamento attivo”; nessuno può sostenere nel caso di specie che il contenuto dell’insegnamento impartito in Italia sia influenzato dalla presenza del crocifisso nelle aule scolastiche.
Precisa che questa presenza è l’espressione di una “particolarità nazionale” caratterizzata dagli stretti rapporti tra lo Stato, il popolo e il cattolicesimo che si giustificano per l’evoluzione storica, culturale e territoriale dell’Italia, nonché per un radicamento profondo e antico dei valori del cattolicesimo. Mantenere appeso il crocifisso in questi luoghi consente dunque di preservare una tradizione secolare. Secondo il Governo, il diritto dei genitori al rispetto della loro “cultura familiare” non deve ledere né quello della comunità di trasmettere la sua cultura, né quello dei ragazzi di scoprirla. In più, limitandosi a un “rischio potenziale” di turbamento emotivo per concludere nel senso della violazione dei diritti all’istruzione e alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, la camera avrebbe considerevolmente ampliato il campo di applicazione di questi ultimi.
37. Rifacendosi alla sentenza Otto-Preminger-Institut contro Austria del 20 settembre 1994 (serie A n. 295-A), il Governo sottolinea che, se occorre considerare il fatto che la religione cattolica è quella della grande maggioranza degli italiani, non è per dedurne una circostanza aggravante, come ha fatto la camera. La Corte dovrebbe al contrario riconoscere e proteggere le tradizioni nazionali così come i sentimenti popolari dominanti e lasciare a ogni Stato il compito di bilanciare gli interessi in conflitto. Risulterebbe d’altra parte dalla giurisprudenza della Corte che i programmi scolastici o le disposizioni che statuiscono una prevalenza della religione di maggioranza non costituiscono in quanto tali una influenza indotta da parte dello Stato o un tentativo di indottrinamento e che la Corte deve rispettare le tradizioni e i principi costituzionali relativi ai rapporti tra lo Stato e le religioni – e in particolare la peculiare interpretazione della laicità che è prevista in Italia – e tenere conto del contesto di ogni Stato.
38. Valutando d’altra parte che il secondo capoverso dell’art. 2 del Protocollo n. 1 non vale che per i programmi scolastici, critica la sentenza della camera laddove conclude per una violazione di tali norme, senza indicare in che cosa la sola presenza del crocifisso nelle aule scolastiche frequentate dai figli della ricorrente fosse tale da limitare sostanzialmente le possibilità di educarli secondo le proprie convinzioni, adducendo quale unica motivazione che questi ultimi si sarebbero sentiti educati in un ambiente scolastico caratterizzato da una religione determinata. Aggiunge che questa motivazione è erronea alla luce della giurisprudenza della Corte da cui risulta, come è noto, da una parte che la Convenzione non impedisce agli Stati membri di avere una religione di Stato, né di esprimere preferenza per una religione determinata, né di offrire agli studenti un insegnamento religioso più approfondito trattandosi della religione dominante e, dall’altra, che è necessario considerare che l’influenza educativa dei genitori è molto più grande di quella della scuola.
39. Secondo il Governo la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole contribuisce legittimamente a far comprendere ai ragazzi la comunità nazionale nella quale si trovano ad integrarsi. Una “influenza ambientale” sarebbe tanto più improbabile dal momento che gli alunni beneficiano in Italia di un insegnamento che permette di sviluppare un senso critico rispetto al fatto religioso in una atmosfera serena e preservata da ogni forma di proselitismo. Si aggiunga in più che l’Italia opta per una interpretazione benevola delle religioni minoritarie nello spazio scolastico: il diritto positivo interno consente di indossare il velo islamico e altri abbigliamenti o simboli religiosi; l’inizio e la fine del ramadan sono spesso festeggiati nelle scuole; l’insegnamento religioso è consentito per tutte le confessioni riconosciute; sono tenute in considerazione le esigenze degli alunni appartenenti a confessioni minoritarie: per esempio, nel caso degli alunni ebrei, è riconosciuto il diritto di non sostenere esami il giorno di sabato.
40. Il Governo pone infine l’accento sulla necessità di considerare il diritto dei genitori che desiderano conservare il crocifisso nelle aule scolastiche. Questa sarebbe la volontà della maggioranza in Italia: questa sarebbe anche quella democraticamente espressa, nel caso di specie, da quasi tutti i membri del consiglio di istituto. Procedere alla rimozione del crocifisso dalle aule scolastiche in tale contesto costituirebbe un “abuso di posizione di minoranza”. Ciò sarebbe inoltre in contrasto con il dovere dello Stato di aiutare gli individui a soddisfare i loro bisogni religiosi.
2. I ricorrenti
41. I ricorrenti ritengono che l’esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche, che il secondo e terzo di essi frequentavano, costituisce una ingerenza illegittima nel loro diritto alla libertà di pensiero e di coscienza e viola il principio del pluralismo educativo nella misura in cui è espressione di una preferenza dello Stato per una determinata religione in un luogo in cui si formano le coscienze. Così facendo lo Stato non adempie inoltre il suo obbligo di proteggere in modo particolare i minori contro ogni forma di propaganda o di indottrinamento. In più, secondo i ricorrenti, essendo l’ambiente educativo connotato in questo modo da un simbolo della religione dominante, la denunciata esposizione del crocifisso disconosce il diritto del secondo e terzo ricorrente di ricevere una educazione aperta e pluralista diretta allo sviluppo di una capacità di giudizio critico. Infine, essendo la ricorrente favorevole alla laicità, ciò violerebbe il suo diritto di educare i figli conformemente alle proprie convinzioni filosofiche.
42. Secondo i ricorrenti il crocifisso è senza ombra di dubbio un simbolo religioso e volergli attribuire un valore culturale costituisce un tentativo di difesa estremo ed inutile. Nulla nel sistema giuridico italiano permette di affermare che si tratti di un simbolo dell’identità nazionale: secondo la Costituzione è la bandiera che simboleggia questa identità.
In più, come ha sottolineato la Corte costituzionale federale tedesca nella sua sentenza del 16 maggio 1995 (cf. qui sopra § 28), attribuendo al crocifisso un significato profano ci si allontanerebbe dal suo significato di origine e si contribuirebbe alla sua desacralizzazione. Quanto al vedere in esso solo un semplice “simbolo passivo”, ciò significherebbe negare il fatto che come tutti i simboli e più di tutti gli altri il crocifisso concretizza una realtà cognitiva, intuitiva ed emotiva che va oltre ciò che è immediatamente percepibile. La Corte costituzionale federale tedesca lo avrebbe d’altronde constatato, deducendo nella sentenza citata, che la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche ha un carattere evocativo del contenuto della fede che simboleggia e serve a fargli “pubblicità”. Infine i ricorrenti ricordano che nella sentenza Dahlab contro Svizzera del 15 febbraio 2001 (n. 42393/98, CEDH 2001-V) la Corte ha sottolineato la forza particolare che i simboli religiosi hanno nell’ambiente scolastico.
43. I ricorrenti sottolineano che ogni Stato democratico deve garantire la libertà di coscienza, il pluralismo, una uguaglianza di trattamento delle credenze e la laicità delle istituzioni. Precisano che il principio di laicità implica prima di tutto la neutralità dello Stato il quale deve prendere le distanze dalla sfera religiosa e adottare un atteggiamento identico rispetto a tutti gli orientamenti religiosi. In altre parole, la neutralità obbliga lo Stato a mettere a disposizione uno spazio neutro nell’ambito del quale ognuno può liberamente vivere le proprie convinzioni. Imponendo i simboli religiosi come il crocifisso nelle aule scolastiche, lo Stato italiano farebbe il contrario.
44. L’interpretazione che i ricorrenti difendono si distinguerebbe dunque chiaramente dall’ateismo di Stato che conduce a negare la libertà di religione imponendo autoritariamente una visione laica. Vista in termini di imparzialità e di neutralità dello Stato, la laicità è all’opposto uno strumento che permette di affermare la libertà di coscienza religiosa e filosofica di tutti.
45. I ricorrenti aggiungono che è indispensabile tutelare in modo particolare le credenze e le convinzioni di minoranza al fine di proteggere i loro sostenitori da un “dispotismo della maggioranza”. Anche questo perorerebbe la tesi in favore della rimozione dei crocifissi dalle aule scolastiche.
46. In conclusione, i ricorrenti sottolineano che se, come pretende il Governo, rimuovere i crocifissi dalle aule delle scuole pubbliche costituirebbe una minaccia per l’identità culturale italiana, mantenerli appesi è incompatibile con i fondamenti del pensiero politico occidentale, i principi dello Stato liberale e di una democrazia pluralista e aperta e il rispetto dei diritti e delle libertà individuali consacrati sia dalla Costituzione italiana che dalla Convenzione.
C. Le osservazioni dei terzi intervenienti
1. I governi dell’Armenia, della Bulgaria, di Cipro, della Federazione Russa, della Grecia, della Lituania, di Malta e della Repubblica di San Marino
47. Nelle osservazioni comuni presentate in udienza i governi dell’Armenia, della Bulgaria, di Cipro, della Federazione Russa, della Grecia, della Lituania, di Malta e della Repubblica di San Marino hanno affermato che secondo loro il ragionamento della camera si basa su una comprensione erronea del concetto di “neutralità” che essa avrebbe confuso con quello di “laicità”. Hanno sottolineato in proposito che i rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati in modo diverso da un paese europeo all’altro e che più della metà della popolazione europea vive in un paese non laico. Hanno aggiunto che inevitabilmente dei simboli dello Stato sono presenti nei luoghi in cui è erogata l’educazione pubblica e che numerosi di questi simboli hanno un’origine religiosa, la croce – che sarebbe tanto un simbolo nazionale quanto religioso – non essendo che l’esempio più visibile. Secondo essi negli Stati europei non laici, la presenza di simboli religiosi nello spazio pubblico è largamente tollerata dai sostenitori della laicità come facente parte dell’identità nazionale; non bisognerebbe che gli Stati abbiano a rinunciare ad un elemento della loro identità culturale semplicemente perché questo ha un’origine religiosa. Il ragionamento seguito dalla camera non sarebbe espressione del pluralismo, che pervade il sistema della Convenzione, ma dei valori dello Stato laico; applicarlo a tutta l’Europa equivarrebbe ad “americanizzarla” nella misura in cui si imponessero a tutti una stessa e identica regola e una rigida separazione della Chiesa dallo Stato.
Secondo gli Stati intervenienti optare per la laicità è un punto di vista politico, certo rispettabile, ma non neutro; così, nella sfera dell’educazione, uno Stato che sostiene la dimensione laica in opposizione alla dimensione religiosa non è neutro. Analogamente, rimuovere i crocifissi dalle aule scolastiche dove sono sempre stati non sarebbe senza conseguenze educative. In realtà, quale che sia l’opzione scelta dagli Stati – ammettere o meno la presenza del crocifisso nelle aule – ciò che importa sarebbe lo spazio che i programmi e l’insegnamento scolastico lasciano alla tolleranza e al pluralismo.
I governi intervenienti non escludono che ci possano essere situazioni in cui le scelte di uno Stato in questo campo sono inaccettabili. E’ compito dei singoli tuttavia dimostrarlo e la Corte non dovrebbe intervenire che nei casi estremi.
2. Il governo del Principato di Monaco
48. Il governo interveniente dichiara di condividere il punto di vista del Governo convenuto secondo cui, collocato nelle scuole, il crocifisso è un “simbolo passivo”, che si trova sugli stemmi o le bandiere di numerosi Stati e che nella fattispecie testimonia un’identità nazionale radicata nella storia. Inoltre, indivisibile, il principio di neutralità dello Stato obbliga le autorità ad astenersi dall’imporre un simbolo religioso laddove non c’è mai stato come di rimuoverlo laddove c’è sempre stato.
3. Il governo della Romania
49. Il governo interveniente reputa che la camera non ha tenuto sufficientemente conto del largo margine di apprezzamento di cui dispongono gli Stati contraenti allorché sono in gioco questioni sensibili e non vi sia consenso a livello europeo. Ricorda che la giurisprudenza della Corte riconosce in particolare a tali Stati un ampio margine di apprezzamento quanto all’indossare simboli religiosi da parte dei singoli nelle scuole pubbliche; considera che nello stesso modo deve essere trattata l’esposizione di simboli religiosi in tali luoghi. Sottolinea inoltre che la sentenza della camera si fonda sul postulato che l’esposizione dei simboli religiosi nelle scuole pubbliche viola gli artt. 9 della Convenzione e 2 del Protocollo n. 1 e contrasta con il principio di neutralità obbligando gli Stati contraenti ad intervenire per rimuovere tali simboli. Secondo il governo il principio di neutralità è meglio attuato quando decisioni di questo genere sono adottate dalla comunità formata dai professori, dagli allievi e dai genitori. In questo stato di cose, poiché non è accompagnata da obblighi particolari relativi alla religione, la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche non colpirebbe i sentimenti religiosi degli uni o degli altri a tal punto da configurare violazione delle disposizioni qui evocate.
4. L’organizzazione non governativa Greek Helsinki Monitor
50. Secondo l’organizzazione interveniente non si può vedere nel crocifisso altro che un simbolo religioso, sicché la sua esposizione nelle aule delle scuole pubbliche può essere percepita come un messaggio istituzionale in favore di una determinata religione. Ricorda in particolare che la Corte ha ritenuto nella causa Folgerø che la partecipazione degli alunni ad attività religiose può avere un’influenza su di essi e ritiene che lo stesso accade quando essi frequentano i corsi nelle aule in cui sono esposti simboli religiosi. Attira inoltre l’attenzione della Corte sul fatto che bambini o genitori a cui si pone questo problema potrebbero rinunciare a protestare per paura di rappresaglie.
5. L’organizzazione non governativa Associazione nazionale del libero Pensiero
51. L’organizzazione interveniente, secondo cui la presenza di simboli religiosi nelle aule delle scuole pubbliche non è compatibile con gli artt. 9 della Convenzione e 2 del Protocollo n. 1, reputa che le restrizioni imposte ai diritti dei ricorrenti non erano “previste dalla legge” ai sensi della giurisprudenza della Corte. Sottolinea in proposito che l’esposizione del crocifisso nella aule delle scuole pubbliche è prescritta non dalla legge ma dai regolamenti adottati durante il periodo fascista. Aggiunge che questi testi devono considerarsi implicitamente abrogati dalla Costituzione del 1947 e dalla legge del 1985 che ha ratificato gli accordi di modifica dei Patti lateranensi del 1929. Precisa che in questi termini si è pronunciata la sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza del 1 marzo 2000 (n. 4273) relativa ad un caso simile concernente l’esposizione del crocifisso in un seggio elettorale. Giudizio che essa ha confermato in una sentenza del 17 febbraio 2009 relativa all’esposizione del crocifisso nelle aule di udienza dei tribunali (senza peraltro pronunciarsi sul merito). Vi è dunque una divergenza fra la giurisprudenza del Consiglio di Stato – che ha viceversa giudicato i regolamenti di cui si tratta applicabili – e la Corte di cassazione, ciò che lede il principio della certezza giuridica, pilastro dello stato di diritto. Ora, essendosi la Corte costituzionale dichiarata incompetente, non esiste in Italia un meccanismo che permetta di regolare questo problema.
6. L’organizzazione non governativa European Centre for Law and Justice
52. L’organizzazione interveniente reputa che la camera ha mal risposto alla questione posta dal caso in esame che è quella di sapere se i diritti che la ricorrente deduce dalla Convenzione sono stati nel caso di specie violati per il solo fatto della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche. Secondo l’organizzazione interveniente si impone una risposta negativa. Da una parte perché il “foro esterno” dei figli della ricorrente non è stato forzato, non essendo questi stati costretti ad agire contro la loro coscienza, né impediti ad agire secondo la loro coscienza. Dall’altra, perché il loro “foro interno”, così come il diritto della ricorrente di educarli in conformità alle proprie convinzioni filosofiche, non sono stati violati dal momento che i primi non sono stati né costretti a credere né impediti a non credere; non sono stati indottrinati, né hanno subito proselitismo indebito. Considera che la camera ha commesso un errore nel giudicare contraria alla Convenzione la volontà di uno Stato di appendere i crocifissi nelle aule scolastiche (mentre non era questa la questione che le era stata sottoposta): così facendo la camera ha creato “una nuova obbligazione relativa non tanto ai diritti della ricorrente, quanto alla natura “dell’ambiente educativo””. Secondo l’organizzazione interveniente la camera ha creato questa nuova obbligazione di secolarizzazione completa dell’ambiente educativo, oltrepassando così l’ambito del ricorso e i limiti delle sue competenze, stante la sua incapacità di stabilire perché sarebbero stati lesi il “foro interno o esterno” dei figli della ricorrente.
7. L’organizzazione non governativa Eurojuris
53. L’organizzazione interveniente concorda con le conclusioni della camera. Dopo aver ricordato il diritto positivo interno italiano – e in particolare sottolineato il valore costituzionale del principio di laicità – rinvia alla giurisprudenza della Corte laddove in particolare si afferma che la scuola non deve essere teatro di proselitismo o di predicazione; si riferisce ugualmente alle cause in cui la Corte ha esaminato la questione del velo islamico nei luoghi destinati all’educazione. Sottolinea poi che la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche italiane è prescritta non dalla legge ma dai regolamenti emanati durante il periodo fascista che riflettono una concezione confessionale dello Stato oggi incompatibile con il principio di laicità consacrato dal diritto costituzionale positivo. Contesta il ragionamento seguito nel caso di specie dal giudice amministrativo italiano, secondo il quale la prescrizione della presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche è tuttavia compatibile con il principio di laicità dal momento che il crocifisso è simbolo di valori laici. Secondo l’organizzazione interveniente, da un lato si tratta di un simbolo religioso, nel quale coloro che non si identificano con il cristianesimo non si riconoscono. Dall’altro, prescrivendone l’esposizione nelle aule delle scuole pubbliche, lo Stato conferisce uno status particolare ad una determinata religione a scapito del pluralismo.
8. Le organizzazioni non governative International Commission of Jurists, Interights et Human Rights Watch
54. Le organizzazioni intervenienti ritengono che la prescrizione dell’esposizione di simboli religiosi come il crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche è incompatibile con il principio di neutralità e con i diritti che gli artt. 9 della Convenzione e 2 del Protocollo n. 1 garantiscono agli alunni e ai loro genitori. Secondo esse, da un lato il pluralismo educativo è un principio consacrato non solo dalla giurisprudenza della Corte, ma anche dalla giurisprudenza di numerose supreme giurisdizioni e da diversi testi internazionali. Dall’altro, si deve dedurre dalla giurisprudenza della Corte un dovere di neutralità e di imparzialità dello Stato a proposito delle credenze religiose quando esso eroga servizi pubblici come l’educazione. Precisano che questo principio di imparzialità è riconosciuto non solo dalle corti costituzionali italiana, spagnola e tedesca, ma anche particolarmente dal Consiglio di Stato francese e dal Tribunale federale svizzero. Aggiungono che, così come giudicato da diverse alte giurisdizioni, la neutralità dello Stato rispetto alle religioni si impone tanto più in ambiente scolastico dove, obbligati a frequentare i corsi, i bambini sono privi di difesa di fronte all’indottrinamento, quando è la scuola ad esserne teatro. Ricordano poi che la Corte ha giudicato che se la Convenzione non impedisce agli Stati di divulgare, attraverso l’insegnamento o l’educazione, informazioni o conoscenze aventi un carattere religioso o filosofico, essi devono assicurarsi che ciò si svolga in modo obiettivo, critico e pluralista esente da indottrinamento; sottolineano che questo vale per tutte le funzioni che essi svolgono nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, compreso quando si tratti dell’organizzazione dell’ambiente scolastico.
9. Le organizzazioni non governative Zentralkomitee der deutschen Katholiken, Semaines sociales de France e Associazioni cristiane Lavoratori italiani
55. Le organizzazioni intervenienti dichiarano di condividere il punto di vista della camera secondo cui, se il crocifisso ha più significati, è in primo luogo il simbolo principale della cristianità. Aggiungono tuttavia di essere in disaccordo con la sua conclusione e di non vedere in cosa la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche potrebbe “turbare emotivamente” gli alunni o ledere lo sviluppo del loro spirito critico. Secondo le organizzazioni, questa presenza non può come tale essere assimilata ad un messaggio religioso o filosofico: si tratta piuttosto di un modo passivo di trasmettere valori morali fondamentali di base. Bisognerebbe perciò considerare che la questione si ricollega alle competenze degli Stati in materia di definizione dei programmi scolastici; ora, i genitori devono accettare che alcuni aspetti dell’insegnamento pubblico possano non essere completamente in linea con le loro convinzioni. Aggiungono che non si può dedurre dalla sola decisione di uno Stato di esporre il crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche che esso persegua uno scopo di indottrinamento proibito dall’art. 2 del Protocollo n. 1. Sottolineano che occorre fare, nel caso di specie, il bilanciamento tra i diritti e gli interessi dei credenti e dei non credenti, tra i diritti fondamentali degli individui e gli interessi legittimi della società e tra l’emanazione di norme in materia di diritti fondamentali e la conservazione della diversità europea. Secondo loro la Corte deve in questo contesto riconoscere un largo margine di apprezzamento agli Stati dal momento che l’organizzazione dei rapporti tra lo Stato e la religione varia da un paese all’altro e che questa organizzazione – trattandosi in particolare del ruolo della religione nelle scuole pubbliche – ha le sue radici nella storia, la tradizione e la cultura di ognuno.
10. 33 membri del Parlamento europeo che agiscono congiuntamente
56. Gli intervenienti sottolineano che la Corte non è una corte costituzionale e che deve rispettare il principio di sussidiarietà e riconoscere un margine di apprezzamento particolarmente ampio agli Stati contraenti non solamente quando si tratti di definire le relazioni tra lo Stato e la religione, ma anche quando essi esercitano le loro funzioni nel campo dell’istruzione e dell’educazione. Secondo loro adottando una decisione il cui effetto sarebbe di obbligare alla rimozione dei simboli religiosi dalle scuole pubbliche, la Grande Camera invierebbe un messaggio ideologico radicale. Aggiungono che risulta dalla giurisprudenza della Corte che uno Stato, che per ragioni legate alla sua storia o alla sua tradizione dimostra una preferenza per una determinata religione, non oltrepassa questo margine. Così, secondo loro, l’esposizione del crocifisso negli edifici pubblici non contrasta con la Convenzione e non bisogna vedere nella presenza di simboli religiosi nello spazio pubblico una forma di indottrinamento, ma l’espressione di una unità e di una identità culturali. Aggiungono che in questo specifico contesto i simboli religiosi hanno una dimensione laica e non devono dunque essere soppressi.
D. La valutazione della Corte
57. In primo luogo la Corte precisa che la sola questione di cui si trova investita è quella della compatibilità, avuto riguardo alle circostanze della causa, della presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche italiane con il contenuto degli artt. 2 del Protocollo n. 1 e 9 della Convenzione.
Così, nel caso specifico, da una parte non è chiamata ad esaminare la questione della presenza del crocifisso in luoghi diversi dalle scuole pubbliche, dall’altro non le compete di pronunciarsi sulla compatibilità della presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche con il principio di laicità, così come consacrato nel diritto italiano.
58. In secondo luogo la Corte sottolinea che i sostenitori della laicità si avvalgono delle interpretazioni relative al “grado di forza, di serietà, di coerenza e di importanza” richieste perché si tratti di “convinzioni” ai sensi degli artt. 9 della Convenzione e 2 del Protocollo n. 1 (sentenza Campbell e Cosans contro Regno unito, del 25 febbraio 1982, serie A n. 48, § 36). Più precisamente, occorre verificare il profilo delle “convinzioni filosofiche” ai sensi del secondo comma dell’art. 2 del Protocollo n. 1, dal momento che esse meritano “rispetto “in una società democratica””, non sono incompatibili con la dignità della persona e non sono in contrasto con il diritto fondamentale del bambino all’istruzione (ibidem).
1. La posizione della ricorrente
a) Principi generali
59. La Corte ricorda che in materia di educazione e di insegnamento l’art. 2 del Protocollo n. 1 è in linea di massima lex specialis rispetto all’art. 9 della Convenzione. Ciò vale a maggior ragione quando, come nel caso di specie, è in gioco l’obbligo degli Stati contraenti – che pone il secondo capoverso di tale art. 2 – di rispettare, nel quadro dell’esercizio delle funzioni che essi svolgono in questo campo, il diritto dei genitori di assicurare questa educazione e questo insegnamento in conformità alle loro convinzioni religiose e filosofiche (sentenza Folgerø e altri contro Norvegia [GC] del 29 giugno 2007, n. 15472/02, CEDH 2007-VIII, § 84).
Conviene dunque esaminare il caso in questione principalmente con riferimento al secondo capoverso dell’art. 2 del Protocollo n. 1 (cf. Appel-Irrgang e altri contro Germania (déc.), n. 45216/07, 6 ottobre 2009, CEDH 2009).
60. Occorre tuttavia leggere questa disposizione alla luce non solo del primo capoverso dello stesso articolo, ma anche, particolarmente, dell’art. 9 della Convenzione (cf. per esempio la sentenza Folgerø citata, § 84) che garantisce la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, nonché la libertà di non aderire ad alcuna religione e che pone a carico degli Stati contraenti un “dovere di neutralità e di imparzialità”.
In proposito occorre ricordare che gli Stati hanno quale missione di garantire, rimanendone neutrali e imparziali, l’esercizio delle diverse religioni, culti e credo. Il loro ruolo è di contribuire ad assicurare l’ordine pubblico, la pace religiosa e la tolleranza in una società democratica, in particolare tra gruppi contrapposti (cf. per esempio la sentenza Leyla Şahin contro Turchia [GC] del 10 novembre 2005, n. 44774/98, CEDH 2005-XI, § 107). Questo concerne sia le relazioni tra credenti e non credenti sia le relazioni tra seguaci delle diverse religioni, culti e credenze.
61. La parola “rispettare” alla quale rinvia l’art. 2 del Protocollo n. 1 significa più di “riconoscere” o “prendere in considerazione”; piuttosto che un impegno negativo, questo verbo implica a carico dello Stato una qualche obbligazione positiva (sentenza Campbell e Cosans citata, § 37). Ciò nonostante, le esigenze della nozione di “rispetto” che si ritrovano anche nell’art. 8 della Convenzione cambiano molto da un caso all’altro, vista la diversità delle pratiche seguite e delle condizioni esistenti negli Stati contraenti. Tale nozione implica anche che gli Stati godano di un ampio margine di apprezzamento per determinare, in funzione dei bisogni e delle risorse della comunità e degli individui, le misure da adottare al fine di assicurare l’osservanza della Convenzione. Nel contesto dell’art. 2 del Protocollo n. 1 questa nozione significa in particolare che tale disposizione non potrebbe essere interpretata nel senso di consentire ai genitori di esigere dallo Stato che organizzi un determinato insegnamento (cf. Bulski contro Polonia (déc.), n. 46254/99 e 31888/02).
62. Occorre ugualmente ricordare la giurisprudenza della Corte relativa al ruolo della religione nei programmi scolastici (cf. essenzialmente le sentenze Kjeldsen, Busk Madsen e Pedersen contro Danimarca, del 7 dicembre 1976, serie A n. 23, §§ 50-53, Folgerø, citata, § 84, e Hasan et Eylem Zengin contro Turchiae, del 9 ottobre 2007, n. 1448/04, CEDH 2007-XI, §§ 51-52).
Secondo tale giurisprudenza la definizione e la regolazione dei programmi scolastici sono riservate alla competenza degli Stati contraenti. Non compete in linea di massima alla Corte pronunciarsi su queste questioni dal momento che la loro soluzione varia a seconda dei paesi e delle epoche.
In particolare, il secondo capoverso dell’art. 2 del Protocollo n. 1 non impedisce agli Stati di divulgare, attraverso l’insegnamento o l’educazione, informazioni o conoscenze aventi direttamente o meno carattere religioso o filosofico; allo stesso modo non autorizza i genitori ad opporsi all’integrazione di un simile insegnamento o educazione nei programmi scolastici.
In compenso, dal momento che mira a salvaguardare la possibilità di un pluralismo educativo, implica che lo Stato, nell’adempimento delle sue funzioni in materia di educazione e di insegnamento, vigili affinché le informazioni e le conoscenze comprese nei programmi siano divulgate in maniera obiettiva, critica e pluralista, così da permettere agli alunni di sviluppare un senso critico a proposito in particolare del fatto religioso, in un’atmosfera serena, preservata da ogni proselitismo. Il secondo capoverso dell’art. 2 del Protocollo n. 1 fa divieto di perseguire uno scopo di indottrinamento che potrebbe essere considerato come non rispettoso delle convinzioni religiose e filosofiche dei genitori. E’ qui che si pone per gli Stati il limite da non superare (sentenze citate in questo stesso paragrafo rispettivamente §§ 53, § 84, § 52).
b) Valutazione dei fatti della causa alla luce dei principi enunciati
63 La Corte non condivide la tesi del Governo secondo cui l’obbligo che grava sugli Stati contraenti ai sensi del secondo capoverso dell’art. 2 del Protocollo n. 1 verte unicamente sul contenuto dei programmi scolastici, sicché la questione della presenza del crocifisso nella aule delle scuole pubbliche esula dal suo campo di applicazione.
E’ vero che numerose cause di cui la Corte si è occupata relative a questa disposizione riguardano il contenuto o l’attuazione dei programmi scolastici. Nondimeno, come la Corte ha del resto già evidenziato, l’obbligo degli Stati contraenti di rispettare le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori non si limita solo al contenuto dell’istruzione e alle modalità di erogarla: si impone ad essi “nell’esercizio” dell’insieme delle “funzioni” – ai sensi del secondo capoverso dell’art. 2 del Protocollo n. 1 – che essi esercitano in materia di educazione e di insegnamento. (cf. essenzialmente le sentenze Kjeldsen, Busk Madsen e Pedersen, citate, § 50, Valsamis contro Grecia del 18 dicembre 1996, Raccolta delle sentenze e delle decisioni 1996-VI, § 27, e Hasan e Eylem Zengin, citata, § 49, e Folgerø, citata, § 84). Ciò include senza alcun dubbio la regolamentazione dell’ambiente scolastico quando il diritto nazionale prevede che questa funzione sia riservata alle autorità pubbliche.
Ora, è nel quadro così descritto che si inserisce la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche italiane (cf. gli artt. 118 del regio decreto n. 965 del 30 aprile 1924, 119 del regio decreto n. 1297 del 26 aprile 1928 e 159 e 190 del decreto legislativo n. 297 del 16 aprile 1994; qui sopra §§ 14 e 19)
64. Da un punto di vista generale la Corte reputa che, quando la regolamentazione dell’ambiente scolastico è riservata alla competenza delle autorità pubbliche, ciò comporta l’assunzione di una funzione da parte dello Stato nel campo dell’educazione e dell’insegnamento ai sensi del secondo capoverso dell’art. 2 del Protocollo n. 1.
65. Ne consegue che la decisione relativa alla presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche riguarda funzioni assunte dallo Stato convenuto nel campo dell’educazione e dell’insegnamento e ricade nell’ambito di applicazione del secondo capoverso dell’art. 2 del Protocollo n. 1. Ci si colloca quindi in un campo in cui entra in gioco l’obbligo dello Stato di rispettare il diritto dei genitori di educare ed istruire i propri figli in conformità alle loro convinzioni religiose e filosofiche.
66. La Corte considera che il crocifisso è innanzitutto un simbolo religioso. Le giurisdizioni nazionali l’hanno ugualmente sostenuto e del resto il Governo non lo contesta. Che la simbologia religiosa c’entri o meno, il significato del crocifisso non è decisivo a questo stadio del ragionamento. Non ci sono per la Corte elementi che attestano l’eventuale influenza che l’esposizione sui muri delle aule scolastiche di un simbolo religioso potrebbe avere sugli alunni: non si potrebbe quindi ragionevolmente affermare che essa abbia o meno un’influenza su giovani persone le cui convinzioni non sono ancora definite.
Si può tuttavia comprendere che la ricorrente possa vedere nell’esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche frequentate dai suoi figli una mancanza di rispetto da parte dello Stato del suo diritto di educare ed istruire questi ultimi in conformità alle sue convinzioni filosofiche. Peraltro la percezione soggettiva della ricorrente non sarebbe di per sé sufficiente ad integrare una violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 1.
67. Il Governo argomenta che la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche è il frutto dell’evoluzione storica dell’Italia, circostanza questa che gli attribuisce un significato non solo culturale, ma anche identitario, corrispondendo oggi ad una tradizione che giudica importante perpetuare. Aggiunge che al di là del suo significato religioso il crocifisso è simbolo dei principi e dei valori che fondano la democrazia e la civiltà occidentale giustificandone la presenza nelle aule scolastiche.
68. Secondo la Corte la decisione di conservare o meno una tradizione ricade nell’ambito del margine di apprezzamento dello Stato convenuto. La Corte deve del resto considerare il fatto che l’Europa è caratterizzata da una grande diversità fra gli Stati che la compongono in particolare sul piano dell’evoluzione culturale e storica. Sottolinea tuttavia che evocare una tradizione non esonera uno Stato contraente dal suo obbligo di rispettare i diritti e le libertà consacrati dalla Convenzione e dai suoi protocolli.
Quanto al punto di vista del Governo relativo al significato del crocifisso, la Corte constata che il Consiglio di Stato e la Corte di cassazione hanno sul punto posizioni divergenti e che la Corte costituzionale non si è pronunciata (cf. qui sopra § 16 e 23). Non appartiene alla Corte prendere posizione su un dibattito interno alle giurisdizioni nazionali.
69. Rimane che gli Stati contraenti godono di un margine di apprezzamento quando si tratti di conciliare l’esercizio delle funzioni che essi assumono nel campo dell’educazione e dell’insegnamento e il rispetto dei diritti dei genitori di assicurare tale educazione e insegnamento in conformità alle proprie convinzioni religiose e filosofiche. (cf. qui sopra § § 61-62).
Questo vale sia per la regolazione dell’ambiente scolastico sia per la definizione e la regolazione dei programmi (come la Corte ha già precisato: cf. essenzialmente le sentenze citate Kjeldsen, Busk Madsen e Pedersen, §§ 50-53, Folgerø, § 84, e Zengin, §§ 51-52; cf. qui sopra § 62). La Corte dunque deve in linea di massima rispettare le scelte degli Stati contraenti in questi ambiti compreso il ruolo che essi assegnano alla religione nella misura in cui tuttavia queste scelte non conducono ad una forma di indottrinamento (ibidem).
70. La Corte deduce nel caso concreto che la scelta circa la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche ricade nell’ambito del margine di apprezzamento dello Stato convenuto. Il fatto che non esista un consenso europeo sulla questione della presenza dei simboli religiosi nelle scuole pubbliche (cf. qui sopra §§ 26-28) avvalora questa interpretazione.
Questo margine di apprezzamento va tuttavia di pari passo con un controllo europeo (cf. per esempio, mutatis mutandis, la sentenza Leyla Şahin citata, § 110) consistendo il compito della Corte nell’assicurarsi che il limite indicato al § 69 qui sopra non venga trasgredito.
71. A tale proposito è vero che prescrivendo la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche – crocifisso che, si riconosca o meno ad esso un valore simbolico laico, rinvia senza dubbio al cristianesimo – si attribuisce alla religione di maggioranza del paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico.
Tuttavia, questo non è di per sé sufficiente ad integrare un tentativo di indottrinamento da parte dello Stato convenuto e a stabilire un inadempimento delle prescrizioni di cui all’art. 2 del Protocollo n. 1.
La Corte rinvia su questo punto, mutatis mutandis, alle sue sentenze Folgerø e Zengin citate. Nella causa Folgerø, in cui aveva dovuto esaminare il contenuto del programma di un corso di “cristianesimo, religione e filosofia” (“KRL”) ha infatti stabilito che il fatto che questo programma accordi una parte più ampia alla conoscenza del cristianesimo rispetto a quella delle altre religioni e filosofie non configurerebbe in sé una violazione dei principi di pluralismo e di obiettività suscettibile di tradursi in indottrinamento. La Corte ha precisato che, visto il posto che occupa il cristianesimo nella storia e nella tradizione dello Stato convenuto – la Norvegia – tale questione ricadeva nel margine di apprezzamento di cui godono gli Stati per definire e regolare i programmi scolastici (sentenza citata, § 89). La Corte è pervenuta a una conclusione simile nel contesto dei corsi di “cultura religiosa e conoscenza morale” erogati nelle scuole turche i cui programmi accordavano una più ampia conoscenza all’islam in ragione del fatto che la religione musulmana è praticata dalla maggioranza della popolazione nonostante il carattere laico dello Stato turco (sentenza Zengin citata § 63).
72. Ancora, il crocifisso appeso al muro è un simbolo essenzialmente passivo e questo aspetto è particolarmente rilevante per la Corte con riguardo specificamente al principio di neutralità (cf. qui sopra §§ 60). Non gli si potrebbe attribuire una influenza sugli alunni comparabile a quella che può avere una lezione o la partecipazione ad attività religiose (cf. sentenze Folgerø e Zengin citate, rispettivamente § 94 e § 64).
73. La Corte osserva che, nella sua sentenza del 3 novembre 2009, la camera ha all’opposto sostenuto la tesi secondo cui l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche avrebbe un impatto notevole sul secondo e terzo ricorrente di 11 e 13 anni all’epoca dello svolgimento dei fatti. Secondo la camera, nel contesto dell’educazione pubblica il crocifisso, che è impossibile non notare nelle aule scolastiche, è necessariamente percepito come parte integrante dell’ambiente scolastico e può di conseguenza essere considerato come un “segno esteriore forte” così come già indicato nella sentenza Dahlab citata (cf. §§ 54 e 55 della sentenza).
La Grande Camera non condivide questa interpretazione. Giudica infatti che non ci si possa basare nel caso di specie su questa decisione essendo completamente diverse le circostanze della causa.
Ricorda infatti che la causa Dahlab concerneva il divieto rivolto a un’insegnante di indossare il velo islamico nel quadro della sua attività di insegnamento, motivando il divieto con la necessità di proteggere i sentimenti religiosi degli allievi e dei loro genitori e di applicare il principio di neutralità confessionale della scuola consacrato dal diritto interno svizzero. Dopo aver rilevato che le autorità elvetiche avevano debitamente bilanciato gli interessi in conflitto, la Corte ha giudicato, in virtù soprattutto della giovane età dei bambini affidati alla cura delle ricorrente, che esse non avevano oltrepassato il loro margine di apprezzamento.
74. Gli effetti dell’accresciuta visibilità che la presenza del crocifisso attribuisce al cristianesimo nello spazio scolastico meritano di essere ulteriormente relativizzati in relazione ai seguenti elementi. Da una parte questa presenza non è associata ad un insegnamento obbligatorio del cristianesimo (cf. gli elementi di diritto comparato esposti nella citata sentenza Zengin § 33). Dall’altra, secondo le indicazioni del Governo, l’Italia apre ugualmente lo spazio scolastico ad altre religioni. Il Governo indica in particolare che il velo islamico indossato dalle studentesse e altri simboli e abbigliamenti con significato religioso non sono proibiti; sono previste delle regole per conciliare agevolmente la frequenza scolastica e le pratiche religiose di minoranza; l’inizio e la fine del ramadan sono “spesso festeggiati” nelle scuole e un insegnamento religioso facoltativo può essere attivato nelle scuole per “ogni confessione religiosa riconosciuta” (cf. qui sopra § 39). D’altra parte, nulla indica che le autorità scolastiche si dimostrino intolleranti rispetto agli alunni che professano altre religioni, a quelli non credenti o aventi convinzioni filosofiche che non si rifanno ad alcuna religione.
In più, i ricorrenti non sostengono che la presenza del crocifisso nelle aule ha incitato a sviluppare insegnamenti aventi carattere di proselitismo, né reputano che il secondo e terzo di essi si siano trovati di fronte ad insegnanti che, nell’esercizio delle loro funzioni, avrebbero in modo tendenzioso insistito sulla presenza del crocifisso.
75. Infine, la Corte osserva che la ricorrente ha mantenuto intatto il suo diritto, in qualità di genitore, di illuminare e consigliare i proprio figli, di esercitare nei loro confronti il suo ruolo naturale di educatrice e di orientarli in una direzione conforme alle proprie convinzioni filosofiche (cf. le sentenze citate Kjeldsen, Busk Madsen e Pedersen, e Valsamis, §§ 54 e 31 rispettivamente).
76. Ne deriva da ciò che precede che decidendo di mantenere appeso il crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche frequentate dai figli della ricorrente, le autorità italiane hanno agito nei limiti del margine di apprezzamento di cui dispone lo Stato convenuto nell’ambito del suo obbligo di rispettare, nell’esercizio delle funzioni che esso assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, il diritto dei genitori di educare ed istruire i figli in conformità alle proprie convinzioni religiose e filosofiche.
77. La Corte ne deduce che non vi è stata violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 1 con riferimento alle doglianze sollevate dalla ricorrente. Considera d’altro canto che nessuna questione distinta si pone nel caso di specie con riguardo all’art. 9 della Convenzione.
2. La posizione del secondo e del terzo ricorrente
78. La Corte considera che, letto come si deve alla luce dell’art. 9 della Convenzione e del secondo comma dell’art. 2 del Protocollo n. 1, il primo capoverso di questa disposizione garantisce agli allievi un diritto all’istruzione nel rispetto del loro diritto di credere o di non credere. Comprende di conseguenza come studenti sostenitori della laicità vedano nella presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche che frequentano una lesione ai propri diritti derivanti da queste disposizioni.
Valuta, tuttavia, che per le ragioni indicate nell’ambito dell’esame della posizione della ricorrente, non vi è stata violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 1 con riferimento alle doglianze sollevate dal secondo e dal terzo ricorrente. Considera d’altro canto che nessuna questione distinta si pone nel caso di specie con riguardo all’art. 9 della Convenzione.
 
II. SULL’ADDOTTA VIOLAZIONE DELL’ART. 14 DELLA CONVENZIONE
79. I ricorrenti sostengono che, avendo dovuto subire, il secondo e terzo di essi, l’esposizione del crocifisso collocato nelle aule delle scuole pubbliche da essi frequentate, sono stati tutti e tre, dal momento che non sono cattolici, discriminati rispetto ai genitori cattolici e ai loro figli. Sottolineando che “i principi consacrati dagli artt. 9 della Convenzione e 2 del Protocollo n. 1 sono rafforzati dalle disposizioni dell’art. 14 della Convenzione”, essi denunciano una violazione di quest’ultimo articolo ai sensi del quale:
“Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione”.
80. La camera ha giudicato che, avuto riguardo alle circostanze della causa e al ragionamento che l’aveva condotta a constatare una violazione del combinato disposto dell’art. 2 del Protocollo n. 1 con l’art. 9 della Convenzione, non era necessario esaminare la causa con riferimento all’art. 14, sia singolarmente sia in combinazione con altre disposizioni.
81. La Corte, che reputa che questo motivo di doglianza sia troppo poco motivato, ricorda che l’art. 14 della Convenzione non ha una esistenza autonoma, ma ha valore unicamente ai fini del godimento dei diritti e delle libertà garantite dalle altre norme della Convenzione e dai suoi Protocolli.
Anche supponendo che i ricorrenti intendano denunciare una discriminazione nel godimento dei diritti garantiti dagli artt. 9 della Convenzione e 2 del Protocollo n. 1, derivante dal fatto che essi non si riconoscono nella religione cattolica e che il secondo e il terzo hanno subito l’esposizione del crocifisso che si trovava nelle aule delle scuole pubbliche da essi frequentate, la Corte non vede alcuna questione distinta da quelle che ha già risolto sul piano dell’art. 2 del Protocollo n. 1. Non si procede dunque ad esaminare questa parte del ricorso.
 
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE,

1 Dichiara, con quindici voti contro due, che non vi è stata violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 1 e che nessuna questione distinta si pone con riferimento all’art. 9 della Convenzione;
2 Dichiara, all’unanimità, non doversi esaminare le doglianze relative all’art. 14 della Convenzione.
 
Redatta in francese e in inglese e comunicata nell’udienza pubblica svoltasi presso il Palazzo dei diritti dell’uomo in Strasburgo il 18 marzo 2011
Erik Fribergh Cancelliere
Jean-Paul Costa Presidente
 
Alla presente sentenza è allegata, conformemente agli artt. 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l’esposizione delle seguenti opinioni:
a) Opinione concordante del giudice Rozakis alla quale si aggiunge la giudice Vajić;
b) Opinione concordante del giudice Bonello;
c) Opinione concordante della giudice Power;
d) Opinione dissenziente del giudice Malinverni alla quale si aggiunge la giudice Kalaydjieva.