Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 6 Marzo 2009

Sentenza 23 gennaio 2009, n.1731

Corte di Cassazione. Sezione Prima Civile. Sentenza 23 gennaio 2009, n. 1731: “Matrimonio concordatario: rapporti tra giurisdizione ecclesiastica e giurisdizione statale”.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Presidente –
Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –
Dott. GIULIANI Paolo – rel. Consigliere –
Dott. PANZANI Luciano – Consigliere –
Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via dei Gracchi n. 291/a, presso lo studio dell’Avv. MARCHIONE MAURO che lo rappresenta e difende in forza di procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –

contro

C.M.C., elettivamente domiciliata in Roma, Via Ottaviano n.105, presso lo studio dell’Avv. LEO ENRICO che la
rappresenta e difende, anche disgiuntamente dall’Avv. Aldo Falcone, in forza di procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma n. 1614/2007, pronunciata il 21.2.2007 e pubblicata il 4.4.2007;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19.9.2008 dal Consigliere Dott. Paolo Giuliani;
Udito il difensore della controricorrente;
Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE Ignazio Giovanni, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 19.4.2005, C.M.C. chiedeva al Tribunale di Roma che fosse pronunciata la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto il (OMISSIS) con S.M., domandando altresì la conferma delle condizioni già fissate nella sentenza di separazione, passata in giudicato, emessa il (OMISSIS) dal medesimo Tribunale, rispettivamente relative all’affidamento delle due figlie minori F. e Fr. alla madre, alle modalità di visita del padre ed al contributo dovuto da quest’ultimo al mantenimento dell’una e delle altre.
Si opponeva alle pretese avversarie lo S., chiedendone il rigetto.
Il Giudice adito, con sentenza non definitiva in data 14/27.10.2005, pronunciava la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dalle parti, disponendo la prosecuzione del processo per la definizione delle altre domande e lasciando ferme, nelle more, le statuizioni già adottate in sede di separazione.
Avverso la decisione, proponeva appello lo S..
Resisteva nel grado la C., confutando il gravame e chiedendone il rigetto, ovvero la declaratoria di inammissibilità.
La Corte territoriale di Roma, con sentenza del 21.2/4.4.2007, respingeva l’appello, confermando integralmente la pronuncia impugnata e, segnatamente, assumendo:
a) che la sola ragione di doglianza dello S. consistesse nella opposizione di quest’ultimo alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, in quanto, come cattolico credente, riteneva che lo scioglimento del vincolo dovesse essere pronunciato esclusivamente dal Tribunale ecclesiastico “, davanti al quale, mediante libello in data 20.11.2003, aveva incardinato il giudizio, prossimo alla definizione in primo grado, per la declaratoria della nullità del vincolo coniugale;
b) che lo stesso S. riconoscesse l’indipendenza dei due giudizi relativi al vincolo sopraindicato, là dove, però, affermava di ritenere necessario che la cessazione degli effetti civili del matrimonio tra le parti venisse decisa con sentenza definitiva, unitamente a tutte le altre condizioni del divorzio, le quali, a suo avviso, dovevano essere profondamente modificate rispetto a quelle stabilite in sede di separazione;
c) che l’impugnazione fosse manifestamente infondata, facendo esplicito riferimento ad una motivazione metagiuridica (relativa, cioè, alle convinzioni religiose dello S.), come tale priva di pregio in sede giudiziaria, là dove erano da applicare le leggi della Repubblica Italiana;
d) che non risultasse condivisibile, invece, l’ulteriore rilievo dell’appellata di inammissibilità del gravame per assoluta carenza di motivi di censura, posto che sussisteva una ragione di impugnazione chiaramente espressa dall’appellante, seppure priva di alcun fondamento.
Avverso tale sentenza, ricorre per cassazione lo S., deducendo un solo motivo di gravame cui resiste con controricorso la C..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo di impugnazione, lamenta il ricorrente omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, assumendo:
a) che, a fondamento del gravame per la riforma della decisione di primo grado, lo S. aveva censurato la statuizione di una sentenza a sè sfavorevole, in quanto lesiva della propria posizione di cattolico credente e della relativa prerogativa alla pronuncia dello scioglimento del matrimonio esclusivamente ad opera del Tribunale Ecclesiastico ;
b) che la Corte territoriale, rigettando una simile censura, è incorsa in palese contraddizione, giacchè, pur affermando l’infondatezza del motivo di appello, ne riconosce al tempo stesso la consistenza, là dove detta contraddizione si palesa ancor più nel rigetto del rilievo dell’appellata circa l’inammissibilità del gravame;
c) che, inoltre, il connotato di giuridicità del motivo di appello è, in realtà, insito nell’interesse attuale dello S. ad evitare l’irreparabile pregiudizio che conseguirebbe dal concorso di giudicati, ecclesiastico e civile, anticipando quest’ultimo l’imminente conclusione del procedimento canonico, nel senso che la cessazione degli effetti civili del matrimonio, intervenuta con pronuncia non definitiva in un giudizio incardinato due anni dopo l’instaurazione della procedura di nullità ecclesiastica, potrebbe precludere la pienezza effettuale di tale definizione, onde la scelta di un sindacato canonico, nelle more di un accertamento suscettibile di richiedere un tempo maggiore, verrebbe vanificata e, quindi, surclassata, se il giudice civile successivamente adito, pronunciando parzialmente, anticipasse il giudice ecclesiastico con la cessazione degli effetti civili del matrimonio, pur facendo proseguire la trattazione del giudizio di divorzio, con conseguente disparità che il coniuge cattolico potrebbe subire nell’esercizio di una libera determinazione, costituzionalmente contemplata ma non altrettanto garantita sul piano operativo;
d) che sarebbe stato, quindi, doveroso, da parte della Corte territoriale, quanto meno soffermarsi sull’opportunità di una sentenza parziale a fronte delle ragioni addotte dall’appellante, considerato altresì che l’opposizione spiegata dallo S. in primo grado prevedeva, nella non voluta ipotesi di accoglimento, che il divorzio venisse dichiarato solo con sentenza definitiva, onde il ricorrente, facendone fondamento del gravame, deduce l’effetto pregiudizievole di una sentenza non definitiva, nei termini risultanti dalle sue convinzioni di cattolico credente, le quali, diversamente, là dove non si desse ingresso ad una simile censura, vedrebbero paralizzata ogni possibilità di far valere il proprio diritto.
Il motivo, pur ammissibile, non è fondato.
Sotto il primo profilo, infatti, giova considerare che l’impugnata sentenza risulta pubblicata il 4.4.2007, onde, ai sensi della disciplina transitoria contenuta nel D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 27, comma 2, occorre, nella specie, fare riferimento al disposto dell’art. 366 bis c.p.c., introdotto dal citato D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6, il quale si applica ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati dalla data (“2.3.2006”) di entrata in vigore del medesimo D.Lgs. n. 40 del 2006.
Peraltro, è da notare che il motivo in esame, anche indipendentemente dalla denominazione formale datane dal ricorrente nella rubrica ed avuto piuttosto riguardo al tenore sostanziale delle doglianze ivi sviluppate, reca censure le quali attengono alla denuncia di vizi sussumibili sotto le specie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, cosicchè, se, per un verso, si palesa del tutto ininfluente la mancata formulazione, nel motivo stesso, di un quesito di diritto, non venendo in considerazione alcuno dei casi previsti dal suddetto art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1 ), 2, 3) e 4), appare, per altro verso, indubitabile come l’odierno ricorrente abbia, tuttavia, adempiuto al precetto enunciato nella seconda parte del già richiamato art. 366 bis c.p.c., là dove impone, nel caso appunto previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che l’illustrazione di ciascun motivo contenga, a pena di inammissibilità, “la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”. Per quanto, poi, riguarda la fondatezza del motivo in esame, si osserva preliminarmente che la Corte territoriale, con apprezzamento di per sè incensurato, ha rilevato:
a) che “l’unico motivo di impugnazione della sentenza non definitiva di divorzio è relegato nell’ultima mezzo pagina dell’atto di appello e si risolve in quello esposto al capo 4^ del medesimo ricorso,…espressamente intitolato motivi di appello”;
b) che “la sola ragione del gravame consiste, dunque, nell’opposizione dello S. alla pronunciata cessazione degli effetti civili del matrimonio, in quanto, come cattolico credente,…ritiene che lo scioglimento del vincolo debba essere pronunziato esclusivamente dal Tribunale ecclesiastico , aggiungendo di avere incardinato il giudizio di annullamento del vincolo matrimoniale dinanzi al Giudice ecclesiastico …, con imminente definizione del primo grado della causa”;
c) che “lo S. riconosce l’indipendenza dei due giudizi relativi al vincolo matrimoniale, pendenti davanti al Tribunale civile e dinanzi al Giudice ecclesiastico , e, tuttavia, afferma di ritenere necessario che la cessazione degli effetti civili del matrimonio tra le parti sia decisa con sentenza definitiva, unitamente a tutte le altre condizioni del divorzio, che, a suo avviso, devono essere profondamente modificate rispetto a quelle determinate in sede di separazione”.
Sulla base, quindi, degli apprezzamenti sopra riportati, la medesima Corte ha concluso nel senso che “l’impugnazione è manifestamente infondata, facendo esplicito riferimento ad una motivazione metagiuridica (convinzione religiosa dello S. che si dichiara cattolico credente), che, evidentemente, non può avere alcun pregio nella presente sede giudiziaria, in cui devono essere applicate le leggi della Repubblica italiana”.
A fronte di quanto precede, le censure dell’odierno ricorrente non si palesano fondate, atteso che quest’ultimo:
1) per un verso, dopo avere confermato l’apprezzamento della Corte territoriale sopra riportato alla lettera “b” ((a fondamento del gravame per la riforma della decisione di primo grado, lo S. lamentava la statuizione di una sentenza a sè sfavorevole, in quanto lesiva della propria posizione di cattolico credente e della relativa prerogativa a che lo scioglimento del matrimonio venisse pronunciato esclusivamente dal Tribunale Ecclesiastico “), ha denunciato una insussistente contraddizione in capo all’impugnata sentenza (la quale, si assume dal ricorrente stesso, “pur affermando l’infondatezza del motivo di appello, ne riconosce al tempo stesso la sua consistenza, contraddizione che si appalesa ancor più nel rigetto della domanda di inammissibilità sollevata dall’appellata”), là dove, cioè, altro è riconoscere la “consistenza” del motivo anzidetto in quanto tale (“posto che sussiste una ragione d’impugnazione chiaramente espressa dall’appellantè”, onde l’affermata impossibilità di condividere “l’ulteriore rilievo dell’appellata di inammissibilità del gravame”), altro è riconoscerne la fondatezza, la quale, quindi, ben può essere esclusa senza che “l’immediato rigetto dell’appello nel merito” contraddica l’affermazione di cui sopra circa la sua ammissibilità;
2) per altro verso, ha denunciato che il connotato di giuridicità del motivo di appello disatteso dalla Corte territoriale sarebbe, in realtà, insito nell’interesse attuale dello S. ad evitare l’irreparabile pregiudizio che conseguirebbe dal concorso di giudicati, ecclesiastico e civile, nel senso che la cessazione degli effetti civili del matrimonio, intervenuta con pronuncia non definitiva in un giudizio incardinato due anni dopo l’instaurazione della procedura di nullità ecclesiastica , potrebbe precludere la pienezza effettuale di quest’ultima definizione, là dove, però, osserva il Collegio odierno come il pericolo paventato dal ricorrente (secondo cui la scelta di un sindacato canonico, nelle more di un accertamento suscettibile di richiedere un tempo maggiore, verrebbe vanificata e, quindi, surclassata, se il giudice civile successivamente adito, pronunciando parzialmente, anticipasse il giudice ecclesiastico con la cessazione degli effetti civili del matrimonio, pur facendo proseguire la trattazione del giudizio di divorzio, con conseguente disparità che il coniuge cattolico potrebbe subire nell’esercizio di una sua libera determinazione) si palesi insussistente proprio in ragione del fatto, di per sè, peraltro, riconosciuto dallo stesso ricorrente, che, tra il giudizio di nullità del matrimonio concordatario e quello avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili del medesimo non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità, tale che il secondo debba essere necessariamente sospeso a causa della pendenza del primo ed in attesa della sua definizione, dal momento che trattasi di procedimenti autonomi, non solo sfocianti in decisioni di differente natura (e con peculiare e specifico rilievo in ordinamenti diversi, tanto che la decisione ecclesiastica solo a seguito di un eventuale giudizio di delibazione, e non automaticamente, può produrre effetti nell’ordinamento italiano), ma anche aventi finalità e presupposti differenti (Cass. 19 settembre 2001, n. 11751; Cass. 25 maggio 2005, n. 11020);
3) per altro verso, ancora, ha denunciato la mancata considerazione, da parte della Corte territoriale, dell’opportunità di una sentenza parziale a fronte delle ragioni addotte dall’appellante, considerato altresì che l’opposizione spiegata dallo S. in primo grado prevedeva, nella non voluta ipotesi di accoglimento, che il divorzio venisse dichiarato solo con sentenza definitiva, onde l’effetto pregiudizievole di una sentenza non definitiva, nei termini risultanti dalle sue convinzioni di cattolico credente, là dove, tuttavia, si osserva che, in effetti, nel novero delle “leggi della Repubblica italiana” correttamente richiamate dal Giudice di merito, la L. 1 dicembre 1970, n. 898, art.4, comma 9, secondo il testo introdotto dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 8, il quale prevede, anche senza istanza di parte, la pronuncia di sentenza non definitiva di divorzio, nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell’assegno (venendo in considerazione, in realtà, quando residui controversia non solo in ordine alla spettanza o alla quantificazione dell’assegno di divorzio, ma anche in ordine al mantenimento della prole, ovvero in ordine all’assegnazione della casa coniugale ed al diritto alle quote delle indennità di fine lavoro), configura un’ipotesi di applicazione del principio generale di cui all’art. 277 c.p.c., comma 2, (con l’unico elemento distintivo della sostituzione, all’istanza di parte ed alla necessaria verifica della sussistenza di un apprezzabile interesse concreto di questa alla sollecita definizione della domanda, di una valutazione generale ed astratta della rispondenza della pronuncia non definitiva ad un interesse siffatto), perseguendo, in particolare, senza che possano spiegare rilievo, in contrario, le convinzioni “di cattolico credente” del ricorrente, la finalità di consentire una sollecita pronuncia in ordine allo status delle parti, in ossequio al favor libertatis a fronte di una situazione irrimediabilmente compromessa, rinviando all’esito di una più approfondita istruttoria, quando ciò sia ritenuto necessario, la definizione delle questioni patrimoniali conseguenti (Cass. 20 febbraio 1996, n. 1314; Cass. 17 dicembre 2004, n. 23567).
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
La sorte delle spese del giudizio di cassazione segue il disposto dell’art. 385 c.p.c., comma 1, liquidandosi dette spese in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per onorari, oltre le spese generali (nella misura percentuale del 12,50 % sull’importo degli onorari medesimi) e gli accessori (I.V.A. e Cassa Previdenza Avvocati) dovuti per legge.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso in favore della controricorrente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per onorari, oltre le spese generali e gli accessori dovuti per legge.

Così deciso in Roma, il 19 settembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2009