Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 3 Agosto 2007

Sentenza 04 novembre 1995, n.11515

Cassazione civile, SEZIONE LAVORO, sentenza 4 novembre 1995, n. 11515.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Raffaele NUOVO Presidente
" Vincenzo MILEO Consigliere
" Giovanni CASCIARO "
" Ettore MERCURIO "
" Pasquale PICONE Rel. "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da
G.L., elettivamente domiciliato in Roma, via Bellini n. 2,
presso l’Avv. Roberto Donati, rappresentato e difeso dall’Avv. Giancarlo Mayer con procura speciale a margine del ricorso, nonché dall’Avv. Luciano Ventura per procura speciale notaio Ferrando di Genova del 6-5-1994 (Rep. 105387);
Ricorrente

contro

F.D.S. S.P.A. –
in persona del Procuratore speciale Raffaele Ruggiero Rubino, elettivamente domiciliata in Roma, Via di Ripetta n. 22, presso l'Avv. Gerardo Vesci che la rappresenta e difende con procura speciale a margine del controricorso;
Controricorrente

per l’annullamento della sentenza del Tribunale di Genova in data 27-5-1993, dep. 29-6-1993 (R.G.N. 11396-92); udita – nella pubblica udienza tenutasi il giorno 15 marzo 1995 – la relazione della causa svolta dal Cons. Rel. Dott. Picone; uditi gli Avv.ti Ventura e Vesci; udito il P.M. nella persona del Sost. Proc. Gen. Dott. Alessandro Carnevali che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con ricorso al Pretore di Genova in funzione di giudice del lavoro, il dipendente delle ferrovie statali L.G. ha chiesto, previa dichiarazione di nullità dei patti collettivi nella parte in cui assicuravano ai soli lavoratori con residenza amministrativa in impianto del Comune di Roma il godimento della festività del 29 giugno, la condanna del datore di lavoro al pagamento del trattamento economico dovuto per il lavoro prestato nel detto giorno festivo, oppure, in subordine, prestato nelle giornate del 24 giugno, festa di S. Giovanni, Patrono della città di Genova.
L'adito Pretore ha accolto la domanda, giudicando nulle per violazione dell'art. 3 Cost. le disposizioni del contratto collettivo che non consideravano festiva la giornata del 29 giugno per i ferrovieri che non lavoravano nel Comune di Roma.
In accoglimento dell'appello del datore di lavoro, il Tribunale di Genova ha rigettato la domanda del G. osservando che il contratto collettivo, praticando un diverso trattamento ai lavoratori residenti in Roma, aveva dato attuazione alla normativa che, legittimamente – per essere la città di Roma sede del Papato e tenuto conto dell'importanza del culto cattolico – riconosce come giorno festivo la solennità religiosa del 29 giugno (SS. Pietro e Paolo) limitatamente al Comune di Roma, disponendo, quindi, in modo non irrazionale o arbitrario; con riguardo alla richiesta subordinata – di vedere riconosciuto il 24 giugno, festa del Santo Patrono della città come giorno di riposo per i ferrovieri amministrativamente residenti in Genova – il Tribunale ha escluso che al giudice sia consentito sostituirsi alle parti collettive per modificare il contenuto del contratto. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso articolato in quattro motivi il G. Ha resistito con controricorso la s.p.a. Ferrovie dello Stato. Le parti hanno depositato memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c..

Diritto

1. La s.p.a. F.d.S eccepisce l’inammissibilità del ricorso per effetto dell’inesistenza, ovvero della nullità, della notificazione eseguita in data 10 settembre 1993 presso l’Avvocatura dello Stato.
L'eccezione, prospettata sotto un duplice profilo, è priva di fondamento.

1.1. In relazione al primo profilo dell'eccezione di inammissibilità – che richiama il disposto dell'art. 301 c.p.c. – la Corte conferma l'orientamento già espresso (Cass., sez. un., 7 luglio 1994 n. 6378) e secondo il quale ' valida la notificazione del ricorso per cassazione all'Ente Ferrovie sebbene eseguita dopo la trasformazione dell'ente stesso – istituito come ente pubblico economico dalla legge 17 maggio 1985 n. 210, nei cui confronti sia stata originariamente proposta la domanda giudiziale – in società per azioni (in virtù della delibera C.I.P.E. del 12 agosto 1992, adottata a norma dell'art. 8 del d.l. 11 luglio 1992 n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992 n. 359, sulla base di quanto stabilito, in ordine alla trasformazione degli enti pubblici economici in società per azioni, dall'art. 1 del d.l. 5 dicembre 1991 n. 386, convertito nella legge 29 gennaio 1992 n. 35); ciò perché la detta trasformazione non ha determinato l'estinzione dell'ente con la creazione di un nuovo e diverso soggetto succeduto al precedente, nè il mutamento di stato dell'ente medesimo, il quale ha invece mantenuto la sua identità soggettiva cambiando soltanto la forma dell'organizzazione e sopravvivendo a tale vicenda modificativa senza soluzione di continuità.

1.2. In relazione al secondo profilo dell'eccezione di inammissibilità del ricorso – notificazione avvenuta presso l'Avvocatura dello Stato in data successiva all'entrata in vigore della legge 14 marzo 1993 n. 75, di conversione del d.l. 23 gennaio 1993 n. 16 – la Corte osserva che proprio in virtù della disposizione normativa invocata a sostegno dell'eccezione (art. 15, comma 3 bis, del decreto legge, introdotto dalla legge di conversione, secondo cui la trasformazione dell'ente non esclude la persistenza del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato limitatamente alle controversie pendenti e al grado di giudizio in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione), nel giudizio di appello è proseguito per l'Ente Ferrovie il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato malgrado la sopravvenuta trasformazione in società per azioni. Di conseguenza, la notificazione del ricorso contro la sentenza del Tribunale di Genova è stata ritualmente effettuata dal G. a norma dell'art. 330, comma primo, c.p.c., cioè presso in procuratore costituito davanti al giudice a quo.

2. Con il primo motivo del ricorso, denunziando la violazione dell'art. 112 c.p.c., in subordine la violazione degli artt. 156, 414 e 434 dello stesso codice, in ulteriore subordine il vizio di omessa motivazione, il G. ripropone l'eccezione, già tempestivamente sollevata ma non esaminata dal Tribunale di Genova, di inammissibilità dell’appello perché proposto dall’ente Ferrovie, soggetto non più esistente alla data dell'atto stesso (29 settembre 1992).

2.1. Il motivo non è fondato.
La Corte di Cassazione ha il potere di verificare direttamente la sussistenza di un error in procedendo che comporti la nullità della sentenza o del procedimento, con conseguente inconfigurabilità sia del vizio di omessa pronunzia sulla questione prospettata dalla parte, sia del vizio della motivazione.
Per escludere l’inammissibilità dell’appello e il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, è sufficiente richiamare quanto già osservato per giudicare priva di fondamento l'eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione: la permanenza dell’identità soggettiva dell'Ente Ferrovie dopo la sua trasformazione in società per azioni esclude qualsiasi incertezza in ordine al soggetto che ha instaurato il giudizio di appello ai sensi dell'art. 414 n. 2 c.p.c.; il comma 3 bis dell’art. 15 del d.l. n. 16 del 1993, introdotto dalla legge di conversione n. 75 del 1993, nel prevedere che, nonostante la trasformazione, permane il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato "limitatamente al grado di giudizio in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto", ha riconosciuto lo ius postulandi all'Avvocatura dello Stato per tutti i giudizi instaurati anteriormente alla predetta data (cfr. Cass. 14 ottobre 1993 n. 10146).

3. Il secondo motivo del ricorso denunzia la violazione degli art. 1, 2, 3 e 4 Disposizioni sulla legge in generale, preliminari al codice civile, per avere il Tribunale ritenuto che il d.P.R. 28 dicembre 1985 n. 792 potesse legittimamente istituire una nuova festività modificando la precedente regolamentazione legislativa, traendone la conseguenza del carattere non autonomo della previsione del contratto collettivo che limitata la festività del 29 giugno ai dipendenti che eseguivano la prestazione lavorativa nel territorio del Comune di Roma.
Con il terzo motivo del ricorso, denunziando la violazione dell’art. 76 Cost., il ricorrente dubita della legittimità costituzionale della legge di ratifica dell'accordo di revisione del Concordato tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede (legge 25 marzo 1985 n. 121) nella parte in cui ha autorizzato l'amministrazione ad innovare mediante regolamento in materia disciplinata dalla legge.
Con il quarto motivo del ricorso, denunziando la violazione degli art. 3, 36 e 41 Cost., il G. sostiene che la disciplina introdotta dal d.P.R. n. 792 del 1985 non è comunque idonea a derogare al principio, desunto dalle norme costituzionali, che impone la parità di trattamento dei lavoratori; in subordine, criticando le considerazioni svolte dalla sentenza impugnata in ordine all'importanza della religione cattolica e alla peculiare situazione della città di Roma, chiede che sia sollevata questione di legittimità costituzionale delle norme giuridiche che determinano l'ingiustificata disparità di trattamento.
I motivi di ricorso – suscettibili di essere congiuntamente esaminati perché concernono, sotto diversi profili, un'unica questione – non sono fondati.

3.1. Il G. ha agito in giudizio per il riconoscimento del diritto a non prestare attività lavorativa nella giornata del 29 giugno o, in subordine, nella giornata coincidente con la festività del Santo Patrono della Città di Genova.
Il contenuto della domanda giudiziale esclude la sussistenza dell'interesse del G. all'accoglimento dei motivi di ricorso nella parte in cui censurano la sentenza impugnata per aver ritenuto legittima la normativa che riconosce come giorno festivo il 29 giugno, SS. Pietro e Paolo, per il Comune di Roma. Nessun risultato utile potrebbe conseguire il ricorrente dall’accoglimento della tesi secondo cui l’atto regolamentare non avrebbe validamente innovato il precedente dato normativo fornito dalla legge 5 marzo 1977 n. 54 (il cui art. 1 dispone che non è considerata festiva agli effetti civili la solennità religiosa della celebrazione dei SS. Apostoli Pietro e Paolo). Infatti, la disapplicazione delle disposizioni del d.P.R. 28 dicembre 1985 n. 792 ai sensi dell'art. 5 l. n. 2248 del 1865, all. E), ovvero la loro caducazione per effetto della dichiarazione, sotto il profilo dedotto nel terzo motivo di ricorso, dell'illegittimità costituzionale della legge 25 marzo 1985 n. 121 – che fornisce ad esse la necessaria base legislativa – potrebbe soltanto legittimare il dubbio circa la persistente efficacia delle pattuizioni collettive che riconoscono come festiva la giornata del 29 giugno per i dipendenti che lavorano nel Comune di Roma, questione certamente estranea al tema del giudizio.

3.2. La questione di legittimità costituzionale della legge 25 marzo 1985 n. 792, nella parte in cui non dispone che il giorno 29 giugno sia riconosciuto festivo per l'intero territorio nazionale e, quindi, per tutti i lavoratori italiani, è inammissibile perché l'asserita disparità di trattamento non è direttamente riconducibile ai precetti contenuti nella legge, derivando invece dall'attuazione, secondo le previsioni dell'art. 6, delle intese intervenute tra le parti del Concordato in tema di festività religiose, attuazione avvenuta mediante atto di normazione secondaria (cfr. Corte Costituzionale, ordinanza 26 luglio 1988 n. 914 e sentenza 22 giugno 1992 n. 290 – pronunziate in tema di insegnamento nelle scuole della religione cattolica – che hanno escluso il rilievo costituzionale delle scelte adottate dall'amministrazione per adeguarsi alle regole dettate dalla legge di ratifica ed esecuzione dell'accordo tra Repubblica Italiana e Santa Sede del 18 febbraio 1984 per la modifica del concordato dell'11 febbraio 1929). La verifica di legittimità del d.P.R. 28 dicembre 1985 n. 792 rientra quindi nelle attribuzioni degli organi della giurisdizione. Ma, nel giudizio dinanzi al giudice ordinario, il controllo della legittimità delle norme di un regolamento può essere operato ai soli fini della disapplicazione, secondo il già richiamato disposto dell'art. 5 della legge n. 2248 del 1865, all. E), al fine cioè di tutelare il diritto soggettivo attribuito dalla legge e negato dall'atto di normazione secondaria emanato dall'amministrazione senza il rispetto delle disposizioni dettate da fonti di rango preminente. L'istituto processuale della disapplicazione, perciò, non soccorre la pretesa di colui che, deducendo l'illegittimità, sotto il profilo della violazione dell'art. 3 Cost., di una norma regolamentare, potrebbe diventare titolare di una situazione di diritto soggettivo soltanto per effetto dell'emanazione di nuove disposizioni regolamentari adeguate al precetto di eguaglianza secondo le scelte discrezionali riservate all'amministrazione (cfr., in ordine alla precisazione che l'istituto della disapplicazione non consente di riconoscere la titolarità di un diritto soggettivo che soltanto l'atto amministrativo, ove emanato in conformità alla legge, avrebbe potuto attribuire: Cass., sez. un., 15 gennaio 1992 n. 402).

3.3. Infine, la sentenza impugnata viene censurata per aver ritenuto valide le pattuizioni collettive nella parte in cui, indipendentemente dall'esistenza di norme giuridiche che riconoscono festiva la giornata del 29 giugno soltanto per il Comune di Roma, obbligavano i dipendenti non facenti capo amministrativamente ad impianti siti nel detto Comune a prestare una giornata di lavoro in più rispetto ai colleghi di Roma. In sostanza, secondo la tesi del ricorrente come chiarita anche dal richiamo dell'art. 36 Cost., dal contratto di lavoro, come conformato dalle regole e principi inderogabili dall'autonomia privata, discenderebbe il suo diritto di non lavorare nella giornata del 29 giugno, oppure in quella coincidente con la festività del Santo Patrono di Genova.
Anche sotto il descritto profilo di censura il ricorso non può trovare accoglimento.
Il Tribunale ha rigettato la domanda del G. escludendo che vi fosse violazione del principio di parità di trattamento dei lavoratori della medesima azienda, atteso che la situazione di coloro che eseguivano la prestazione dell'ambito del Comune di Roma non era comparabile con quella degli altri lavoratori – a causa del particolare significato che Roma, sede vescovile del Sommo Pontefice, ha per la cattolicità – cosicché il contratto collettivo, dovendosi adeguare alle disposizioni normative che riconoscono la festività del 29 giugno per il solo Comune di Roma, giustificatamente e razionalmente aveva praticato un trattamento differenziato ai dipendenti con sede di lavoro in città diverse. Ha poi aggiunto che il riconoscimento come giorno di riposo della festività religiosa del Santo Patrono avrebbe comportato un'inammissibile intervento giudiziale di sostituzione dell'autonomia collettiva.

3.4. Il dispositivo della sentenza impugnata risulta conforme al diritto, ma la Corte deve correggerne in parte la motivazione ai sensi dell'art. 384, comma secondo, c.p.c. Secondo l’orientamento espresso dalle sezioni unite della Corte a composizione di contrasto di giurisprudenza, l’ordinamento giuridico non contiene un principio inderogabile di parità di trattamento dei lavoratori dalla cui violazione discenda la nullità del trattamento differenziato a parità di lavoro (sostituito dal trattamento migliore); neppure risulta configurabile un obbligo contrattuale, desunto dagli art. 1175 e 1375 c.c., di praticare il trattamento più vantaggioso a tutti i lavoratori che si trovino in situazione omologa a quella di altri che fruiscono di una condizione di maggior favore, salvo che la disparità non scaturisca da una delle ragioni di discriminazione non consentita dalla legge (Cass., sez. un., 29 maggio 1993 n. 6030 e n. 6031; cfr. anche Cass., sez. un., 1 ottobre 1993 n. 9804).
L'indirizzo, sebbene non sia stato seguito dalla decisione che ha ritenuto che, a parità di qualifica e mansioni, il trattamento differenziato è legittimo soltanto se razionalmente giustificato (Cass. 8 luglio 1994 n. 6448), deve essere confermato con ulteriori precisazioni.

3.5. Il quadro complessivo dell’ordinamento giuridico, anche valutato secondo le indicazioni contenute nella sentenza della Corte Costituzionale 9 marzo 1989 n. 103 – sentenza interpretativa di rigetto – non consente di ritenere che l'autonomia privata nei rapporti di lavoro, in quanto rapporti di massa, sia soggetta al vincolo della parità di trattamento. Il vincolo non scaturisce dal precetto dell'art. 36 Cost., atteso che il diritto a una retribuzione proporzionata e sufficiente prescinde completamente dal giudizio di parità di condizioni all'esito di una comparazione intersoggettiva tra i lavoratori della stessa azienda.
Tale vincolo non è posto neppure dall’art. 3 Cost., il quale contiene un precetto che si rivolge esclusivamente al legislatore sul quale soltanto, non sui privati, grava l'obbligo di dettare regole coerenti con una corretta comparazione tra le situazioni dei destinatari. L'inapplicabilità dell’art. 3 Cost. ai rapporti interprivati, ritenuta dalla pressoché unanime giurisprudenza della Corte, riceve un’inconfutabile conferma dal rilievo che la nullità della clausola nei confronti del soggetto discriminato in malam partem travolgerebbe il regolamento negoziale determinando una lacuna di disciplina che solo un nuovo intervento dell'autonomia privata potrebbe colmare, non il giudice. Il sistema giuridico, infatti, non autorizza la sostituzione della clausola, secondo il meccanismo degli art. 1339 e 1419, comma secondo, c.c., con quella relativa al trattamento praticato ai soggetti discriminati in bonam partem.
In tal senso depongono i dati che si desumono dal diritto positivo.
I divieti legali di discriminazione, in quanto limitano a determinate cause l'emersione del principio di eguaglianza nei rapporti di lavoro, da una parte, forniscono un argomento esattamente contrario all'allargamento dell'incidenza del principio in tali rapporti; dall'altra, dimostrano che lo strumento di reazione alle disuguaglianze non consentite è la sostituzione del patto vietato con l'assetto di interessi determinato dalla stessa norma imperativa. In alcune ipotesi, la legge si limita a comminare la nullità del trattamento privilegiato pattuito per perseguire finalità illecite, con l'aggiunta di una sanzione civile per il comportamento tenuto (art. 15 e 16 dello statuto dei lavoratori).
In altre, attraverso il divieto di discriminazione, la norma assicura la parità di trattamento per relationem, assumendo come dato di riferimento il trattamento riservato ad altri lavoratori (art. 37 Cost.; leggi n. 903 del 1977 e n. 125 del 1991; art. 5 della legge n. 230 del 1962; art. 3 della legge n. 1369 del 1960). Nella prospettiva della tutela antidiscriminatoria per ragioni di cittadinanza o di sesso, si collocano e vanno valutati gli art. 7 e 48 del Trattato C.e.e., oltre che l'art. 7 del Regolamento C.e.e. n. 1612 del 15 ottobre 1968, nè da essa si è discostata la Corte di Giustizia della Comunità allorché, avvertendo l'esigenza di assicurare efficaci strumenti contro le pratiche discriminatorie indirette, ha affermato l'obbligo del datore di lavoro di osservare criteri di trasparenza nella gestione dei sistemi retributivi e l'onere, da parte dello stesso, di provare il carattere non discriminatorio dei trattamenti differenziati (sentenza 17 ottobre 1989 in causa n. 109-88). Anche l'art. 7 del cosiddetto patto di New York del dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge n. 881 del 1977, che sancisce "l'impegno degli Stati firmatari a riconoscere il diritto di ciascun individuo di godere di giuste e favorevoli condizioni di lavoro le quali garantiscano, per quanto riguarda la retribuzione, un equo salario ed una eguale rimunerazione per un lavoro di uguale valore, senza distinzioni di sorta", intende evidentemente colpire le discriminazioni attuate per motivi illeciti (basate cioè, in violazione di diritti fondamentali, sul sesso, sul colore, sulla razza, sulle opinioni, sul credo religioso, ecc.).
Esistono inoltre rapporti di lavoro per i quali la legge impone al datore, in deroga all'art. 2077, comma secondo c.c., di applicare esclusivamente le condizioni previste dai patti collettivi, senza la possibilità di introdurre deroghe a livello di contratto individuale (è questo il contenuto dell'obbligo imposto a!le amministrazioni pubbliche, in ordine al rapporto di lavoro dei propri dipendenti, dall'art. 49 del D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29; in senso analogo, per i rapporti di lavoro "parasubordinato" del sanitari convenzionati con il servizio sanitario nazionale, dispone l'art. 48 della l. n. 833 del 1978).

3.6. Escluso che l'autonomia privata nei rapporti di lavoro sia sottoposta al vincolo della parità di trattamento, la sentenza della Corte Costituzionale n. 103 del 1989 sembra tuttavia suggerire che in tali rapporti le disuguaglianze di trattamento, a parità di lavoro, siano soggette – oltre che al divieto legale di discriminazione – al limite generale del principio di ragionevolezza.
Nella pronunzia della Corte Costituzionale, peraltro, risulta richiamato l'art. 41, comma secondo, Cost. per argomentarne che il potere contrattuale dell'imprenditore non può esprimersi in maniera arbitraria, offendendo con disuguaglianze di trattamento manifestamente ingiustificate la dignità di altri lavoratori. Ed è chiaro che questo limite non può essere riferito se non al potere contrattuale dell'imprenditore nei rapporti individuali di lavoro. La contrattazione collettiva, infatti, è sottratta all'ambito normativo dell'art. 41 Cost., come dimostra la stessa collocazione dopo l'art. 39.
Ma anche in ordine alla contrattazione individuale, si deve ritenere che la Corte Costituzionale abbia voluto semplicemente richiamare i principi oramai consolidati in giurisprudenza, secondo cui è consentito il controllo giudiziario dell'esercizio dei poteri unilaterali del datore di lavoro, attribuitigli dalla legge o dal contratto. L'art. 41, comma secondo, Cost., infatti, nella struttura della norma-principio e non della norma-regola (come l'art. 36 Cost.), da una parte non autorizza minimamente a porre l'equazione parità di trattamento uguale dignità umana, dall'altra non fornisce alcuna precisazione circa i modi e la misura del legame tra i due principi.
Dalla norma, pertanto, non è desumibile una regola direttamente limitativa dell'autonomia privata nel senso di impedire la pattuizione, all'interno della medesima azienda, di condizioni diverse a parità di lavoro.

3.7. Il limite del principio generale della ragionevolezza delle disuguaglianze di trattamento nei rapporti di lavoro non è desumibile neppure dagli art. 1175 e 1375 c.c.
Anche riconoscendo che il ruolo del dovere di correttezza e buona fede non può essere limitato al controllo della fase di esecuzione del contratto, potendo rappresentare una fonte di eterointegrazione negoziale, fino addirittura a determinare una diversa conformazione del regolamento negoziale, resta tuttavia ferma la funzione di protezione della controparte all'interno del sinallagma contrattuale.
In altri termini, rammentato che all'attuale ordinamento risulta estranea la concezione c.d. comunitaria del rapporto di lavoro, il controllo di conformità ai precetti degli art. 1175 e 1375 c.c. può spingersi fino a demolire la convenzione negoziale nella parte in cui confligge con il parametro della correttezza, individuando nel contempo la regola necessaria al riequilibrio degli interessi in gioco (cfr. Cass. 20 aprile 1994 n. 3775), ma è certo che il giudice deve desumere sia il detto parametro che la conseguente regola all'interno del contratto stesso, valutando il regolamento negoziale in relazione all'interesse perseguito dalle parti, all'assetto di esso che le disposizioni suppletive della legge indicano come adeguato, anche alla luce di fondamentali principi (come il dovere di solidarietà imposto dall'art. 2 Cost.); dagli art. 1175 e 1375 c.c. non discende invece il potere del giudice di sostituire il contenuto di un contratto con quello di contratti diversi, giudicando "non ragionevoli" le differenze all'esito di un controllo di opportunità, di una valutazione dei fini perseguiti dalle parti, che si porrebbe in radicale contrasto con il principio stesso della libertà contrattuale.
Per la contrattazione collettiva, poi, la questione si pone in termini assai evidenti: l'accordo è intervenuto proprio in ordine al trattamento difforme e il lavoratore discriminato in malam partem, nei cui confronti la clausola è efficace, non si vede proprio come possa invocare la violazione del precetto di ragionevolezza. Il giudice deve, quindi, limitarsi ad accertare che le pattuizioni collettive siano rispettose dei principi costituzionali (tra i quali, salvo che nell'art. 37 Cost., non figura la parità di trattamento nel rapporti di lavoro), delle norme imperative di legge e dell'ordine pubblico, come prescrive l'art. 1322 c.c.
All'inammissibile risultato di sostituire la regolamentazione convenzionale con quella ritenuta più "giusta" dal giudice si perviene anche qualificando come illecito contrattuale, perché in violazione degli art. 1175 e 1375 c.c., il comportamento consistente nel praticare ai dipendenti trattamenti diversificati senza una ragionevole giustificazione (secondo la ricostruzione operata da Cass. n. 6448 del 1994, cit. proprio con riguardo a clausola di contratto collettivo). Con conseguenze evidentemente contraddittorie, atteso che il datore di lavoro resterebbe contrattualmente obbligato a praticare il trattamento più vantaggioso ai dipendenti favoriti, ma sarebbe tenuto, per conformarsi all'obbligo di buona fede e correttezza scaturito dalla medesima pattuizione che stabilisce la limitazione soggettiva del trattamento stesso, ad estenderlo ai dipendenti esclusi.

3.8. Con esclusivo riguardo al piano della contrattazione individuale, si deve però riconoscere che dal complesso dei divieti specifici di discriminazione emerge un principio generale dell'ordinamento che non consente al datore di lavoro di riservare a taluni lavoratori trattamenti che non sono, ingiustificatamente, conformi ai complessivi assetti organizzativi che l'imprenditore medesimo ha adottato per la gestione dei rapporti di lavoro nell'azienda. Fuori cioè dalle ipotesi di discriminazione "nominate", il trattamento deteriore riservato a singoli o a minoranze senza un'adeguata giustificazione rappresenta perciò stesso una discriminazione non consentita perché i principi propri del diritto del lavoro non possono permettere l'arbitrio o il capriccio (indicazioni in tal senso sono contenute della menzionata giurisprudenza della Corte di Giustizia C.e.e.). Non si tratta di integrare o sostituire un contratto attraverso il contenuto di un diverso contratto perché le scelte gestionali dell'imprenditore si inseriscono e modificano il contenuto di ciascuno del contratti individuali di lavoro; sarà quindi il contratto stesso, interpretato secondo il canone della buona fede alla stregua delle modifiche che le scelte gestionali dell'imprenditore hanno provocato, ad attribuire al singolo il diritto di pretendere il trattamento più vantaggioso.

3.9. Nella fattispecie, il trattamento diversificato dei lavoratori della stessa azienda era stabilito dalle clausole del contratto collettivo, non in contrasto con norme imperative di legge e sulle quali non è consentito un controllo di razionalità ai sensi degli art. 1175 e 1375 c.c.
Non risultava, inoltre, che il datore di lavoro avesse organizzato la sua azienda in guisa tale che la maggior parte dei dipendenti godesse di un giorno di riposo aggiuntivo, non riconosciuto senza valida giustificazione ad una minoranza di essi. Pertanto il Tribunale di Genova ha rigettato la domanda con decisione conforme al diritto. 4.
Il diverso esito dei giudizi di merito costituisce giusto motivo per compensare per intero tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese del giudizio.

Così deciso il 15 marzo 1995.