Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 18 Gennaio 2007

Sentenza 12 maggio 1990, n.4100

Corte di Cassazione. Sezione Prima Civile. Sentenza 12 maggio 1990, n. 4100: “Giudizio di delibazione delle sentenze dichiarativa della nullità di matrimonio concordatario”.

LA Corte Suprema di Cassazione
Sezione Prima Civile

Composta dagli Ill.mi Signori Magistrati:

Dott. Giuseppe Scanzano Presidente
Dott. Pellegrino Senofonte Consigliere
Dott. Rosario De Musis Consigliere
Dott. Alfio Finocchiaro Consigliere Relatore
Dott. Ernesto Lupo Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da D.C.G. elettivamente domicilata in Roma Via E.Q. Visconti 8 presso l’avv. Leo Leli che la rappresenta e difende giusta delega in atti – ricorrente

contro
F.D. – Intimato

avverso l’ordinanza della Corte di Appello di Lecce del 30.5-13.6.1985;

Udita la relazione svolta dal Cons. Dr. Alfio Finocchiaro;
Udito per il ricorrente l’avv. Leli;
Udito il P.M. Dr. Gennaro Tridico che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

La Corte d’appello di Lecce, con ordinanza 13 giugno 1985 dichiarava esecutiva, agli effetti civili, la sentenza definitiva del Tribunale Ecclesiastico di Benevento in data 20 dicembre 1979, con la quale era stato dichiarato nullo, per difetto di consenso, il matrimonio concordatario tra D. F. e G.D.C., celebrato in Lecce il 26 aprile 1973.
A sostegno della decisione ed in relazione ai motivi di opposizione alla delibazione prospettati dalla D.C., la Corte rilevava che l’istanza di sospensione del giudizio non poteva essere accolta in quanto la sentenza ecclesiastica era definitiva, mentre la nova causae propositio attivata dalla D.C. era ancora in corso e rappresentava – dopo la c.d. doppia conforme – un rimedio basato su nuovi e gravi argomenti e documenti, inidoneo ad incidere sulla definitività della pronuncia ecclesiastica affermata dal decreto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, per tacere poi del fatto che l’art. 295 c.p.c. era applicabile a “controversie civili e amministrative” e non anche a quelle “ecclesiastiche”.

Con riferimento all’eccezione circa la violazione del diritto di difesa nel procedimento ecclesiastico per essere lo stesso proseguito, malgrado l’intervenuta morte del curatore della D.C., conosciuta solo in occasione della nova causae propositio, la Corte osservava che anche nell’ordinamento italiano è riservato al procuratore costituito il potere di far proseguire il giudizio nella sua impostazione originaria ovvero di dichiarare, nei modi di legge, la perdita della capacità di stare in giudizio della parte o del suo rappresentante legale o la cessazione di tale rappresentanza, sicchè nessuna violazione del diritto di difesa si era verificata per la D.C., la quale si era difesa nel giudizio ecclesiastico per il tramite del suo procuratore.

Avverso questa ordinanza ha proposto ricorso per cassazione G.D.C. sulla base di due motivi.
Il F. non ha svolto attività difensiva in questa sede.
All’udienza del 10 febbraio 1989 la Corte di cassazione ha ordinato l’integrazione del contraddittorio nei confronti del Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Lecce.
A tale integrazione la ricorrente ha tempestivamente adempiuto.

Diritto

Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 295 c.p.c. e degli art. 1 l. n. 810 del 1929 e 17 l. n. 847 del 1929, nel testo emendato dalla Corte costituzionale, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché difetto di motivazione circa un punto decisivo della controversia, in ordine alla sospensione del giudizio, ex art. 360 n. 5 c.p.c. per non avere la Corte d’appello disposto la sospensione del giudizio di esecutività in pendenza della nova causae propositio.
Secondo la ricorrente, infatti, il giudice della delibazione doveva riconoscere l’obiettiva situazione di pregiudizialità dei due processi (quello definito e quello in corso per la proposizione della nova causae propositio) e sospendere quello pregiudicato in attesa della definizione di quello pregiudiziale, senza che a tale sospensione fosse di ostacolo la dizione testuale dell’art. 295 c.p.c., dal momento che la controversia innanzi al giudice ecclesiastico era pur sempre “civile”, essendo ben noto che, in tema di nullità di matrimoni concordatari, la giurisdizione ecclesiastica ha carattere sostitutivo della giurisdizione italiana.

Il motivo è infondato ed ai fini della sua reiezione è sufficiente fare richiamo alla costante giurisprudenza, di questa Corte per il cui superamento la ricorrente non ha addotto argomenti nuovi o diversi da quelli già in precedenza esaminati e disattesi – secondo cui non sussiste un’ipotesi di sospensione necessaria del processo ex art. 295 c.p.c. qualora nel corso del processo di esecutività della pronuncia definitiva di sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio si riapra il giudizio ecclesiastico sulla base di nuovi e gravi documenti e argomenti (Cass. 1 luglio 1978 n. 3280; Cass. 16 dicembre 1983 n. 7418).

Tale giurisprudenza, che questo Collegio condivide, è giustificata dal rilievo che – ai fini della sospensione – il compito dei giudici civili appare limitato ad accertare se la decisione della causa civile sull’esecutorietà o meno della sentenza di nullità matrimoniale “dipende” dalla definizione della controversia canonica riapertasi, dopo la duplice sentenza conforme di nullità dinanzi al tribunale ecclesiastico.
La soluzione a tale sequestro deve essere negativa, non solo perché il rapporto di pregiudizialità è previsto dall’art. 295 c.p.c. rispetto a controversie “civili o amministrative”, ma soprattutto perché non sussiste il rapporto di dipendenza attuale fra le due controversie.
La mera eventualità dell’emanazione di una pronuncia pro-validitate del vincolo non costituisce indispensabile antecedente logico-giuridico della decisione sull’esecuzione della sentenza di nullità e non esclude che al momento esistano tutti gli estremi previsti dalle norme concordatarie per dare esecutività alla sentenza di nullità del matrimonio, ed in particolare il carattere di “definitività” ex duplici sententis conformi, accertato e certificato dal Tribunale della Segnatura Apostolica e non contestato dalla parte.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione degli art. 101, 75, 299 e 300 c.p.c., violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa (art. 360 n. 3 c.p.c.); difetto di motivazione circa il punto decisivo della violazione del diritto di difesa, per avere la Corte d’appello omesso di considerare che essa ricorrente aveva eccepito la violazione del diritto di difesa sotto il profilo del difetto di legittima rappresentanza, dal quale era derivata la nullità della sentenza ecclesiastica per mancata interruzione del processo.
Secondo la ricorrente, infatti, non è possibile ipotizzare che il procuratore in giudizio assuma i poteri del curatore dell’incapace nè che il detto procuratore abbia la facoltà di far proseguire il processo in caso di sopravvenuta incapacità processuale della parte da lui rappresentata.

Anche tale motivo di ricorso è infondato.
A seguito della sentenza della Corte costituzionale del 2 febbraio 1988 n. 18, con la quale, fra gli altri, sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi l’art. 1 l. n. 810 del 1929, limitatamente all’esecuzione data all’art. 34, comma 6, del Concordato fra l’Italia e la Santa Sede, e l’art. 17, comma 2, l. n. 847 del 1929 ed è stato precisato che “il diritto alla tutela giurisdizionale si colloca al livello di principio supremo solo nel suo nucleo più ristretto ed essenziale”, la corte d’appello, all’atto di rendere esecutiva la sentenza del tribunale ecclesiastico che pronuncia la nullità del matrimonio canonico, deve accertare se risultino rispettati gli elementi essenziali del diritto di agire e di resistere nell’ambito dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato (e che sono rispettati quando risulti che le parti abbiano avuto la garanzia sufficiente per provvedere alla propria difesa) e non anche per riscontrare se siano state rispettate puntualmente tutte le norme canoniche e se queste diano le stesse garanzie offerte dal nostro ordinamento (Cass. 15 maggio 1982 n. 3024 e successive conformi).
Sulla base dell’anzidetto principio la delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario non trova ostacolo, sotto il profilo della violazione del diritto di difesa, nella circostanza che il processo canonico sia proseguito malgrado la morte del curatore dell’incapace – e ciò anche se in violazione delle norme di diritto canonico, come ha sostenuto il difensore della ricorrente nel corso dell’odierna discussione orale – da una parte perché la possibilità di prosecuzione del processo, malgrado gli eventi menomativi o esclusivi della capacità della parte o del suo curatore, è espressamente prevista dal nostro ordinamento (art. 299, 300 c.p.c.) e ciò stesso esclude l’esistenza di un principio supremo dell’ordinamento costituzionale dello Stato che imponga l’interruzione del processo in una situazione quale quelle dedotta e, dall’altra, perchè, l’eventuale inosservanza delle norme canoniche che, in ipotesi, tale interruzione impongano, anche se può incidere sulla validità della sentenza emessa in quell’ordinamento, è irrilevante in sede di delibazione, non potendo la corte d’appello sindacare la pronuncia ecclesiastica una volta che tale nullità non abbia inciso – per quanto in precedenza esposto – sul diritto di difesa così come enunciato.

A tali principi si è attenuta la corte d’appello e la relativa ordinanza non merita censura.
Conclusivamente, il ricorso va rigettato.
Nulla per le spese non avendo l’intimato svolto attività difensiva in questa sede;

P.Q.M

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.