Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 28 Luglio 2006

Sentenza 27 marzo 1992

Corte di Cassazione, Sez. un. pen. Sentenza 27 marzo 1992: “Tutela delle persone e dei simboli della religione cattolica”.

(Omissis)

1. — Con la sentenza indicata in epigrafe, C. M. è stato assolto, perché il fatto non costituisce reato, dalla contravvenzione di cui all’art. 724 c.p.(contestatagli per aver pubblicamente bestemmiato contro la divinità venerata nella religione dello Stato)

2. — Alla detta decisione il pretore è pervenuto sia per l’“attuale ambito di operatività dell’art. 724 c. p.” (in conseguenza dell’entrata in vigore della l. n. 121 del 1985, di ratifica ed esecuzione dell’accordo, con protocollo addizionale, del 18 febbraio 1984, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, con cui sono state apportate modificazioni al concordato lateranense dell’11 febbraio 1929), sia “per mancanza, nella specie, del requisito della pubblicità”.

3. — Entrambe le argomentazioni sono censurate col presente ricorso: per violazione di legge (primo motivo), la affermata insussistenza, nella fattispecie in esame, del requisito della pubblicità; e per errata interpretazione (secondo motivo) dell’art. 724, la ritenuta non « operatività » della norma predetta.

4. — La terza sezione penale di questa corte, cui il ricorso era stato assegnato, ha rilevato la possibilità di un contrasto giurisprudenziale sulla questione che forma oggetto del secondo motivo di ricorso; e l’opportunità, quindi, di una pronuncia, sul punto, da parte di queste sezioni unite: cui ha, pertanto, rimesso (art. 618 c.p.p.) la decisione del ricorso.

5. — L’affermazione, che forma oggetto del secondo motivo di ricorso (il cui esame, è ovviamente, pregiudiziale al primo) sulla non e operatività » della norma dell’art. 724 c.p.,. è sorretta, nella sentenza impugnata, col rilievo che la detta norma «non può più trovare concreta applicazione» dopo l’entrata in vigore della legge n. 121 del 1985 (concernente la ratifica e l’esecuzione dell’accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, con cui sono state apportate modificazioni al concordato lateranense dell’11 febbraio 1929). E ciò perché al punto primo del detto protocollo addizionale è stato stabilito che si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato tal modo, invero, si afferma con la sentenza impugnata, è stata data concreta attuazione ai principi dettati dalla Costituzione repubblicana sulla libertà religiosa (artt. 8 e 19) sì che, “nell’ambito di questo generale quadro costituzionale”, la norma dell’art. 724 “appare anacronistica e legata ad un particolare momento storico”, costituito dalla “applicazione, in sede penale, dell’impegno assunto dallo Stato italiano, con i patti lateranensi, di onorare la divinità, le persone e i simboli venerati dal cattolicesimo, garantendo alla religione cattolica una più penetrante tutela”. E di “conseguenza, poiché con il nuovo concordato e il relativo protocollo addizionale cade il principio per cui la religione cattolica è la sola religione ed i ne dello Stato, la norma dell’art. 724 non può trovare applicazione e non è più in vigore”.

6. — Tali argomentazioni, ritiene la corte, sono prive di giuridico fondamento.
Va, invero, osservato, in primo luogo, che infondato è l’assunto secondo cui il “nuovo concordato” tra lo Stato italiano e la Santa Sede e la considerazione, in particolare, sul non essere più in vigore il principio della religione cattolica come sola religione dello Stato, inciderebbe sulla validità della norma dell’art. 721 c.p. (e di tutte le altre norme, deve aggiungersi, sia del codice penale che dell’ordinamento giuridico italiano, in genere, in cui la religione cattolica è indicata con tale qualificazione).
La indicazione normativa (anteriore al 1948) della religione cattolica come religione dello Stato derivava, invero, il suo fondamento giuridico, non da una norma di relazione (il concordato del 1929, stipulato, unitamente al trattato, tra lo Stato italiano e la Santa Sede), ma da un’autonoma, autosufficiente, norma interna: quella nella Carta costituzionale (lo Statuto albertino), in vigore all’epoca, che, all’art.I stabiliva che la religione cattolica era “la sola religione dello Stato”.
Col concordato del 1929, non si pose, quindi, in essere, con efficacia costitutiva, una tal qualificazione giuridica ma, al contrario, si prese atto del « principio con¬sacrato nell’art. I dello statuto a: già « consacrato a, quindi, ed in vigore sin dal 1848. Le modificazioni dei patti lateranensi del 1984 non hanno, quindi, posto nel nulla, con efficacia abrogativa, tal principio, né, ovviamente, avrebbero potuto farlo.
Le parti contraenti hanno solo preso atto che « si considera» non più in vigore il principio in questione (aggiungendo, sì da fugare ogni equivoco che tal principio era stato solo “richiamato” dai patti lateranensi del 1929).

7. — L’abolizione, invece, del concetto giuridico della religione “dello Stato” discende, come è noto, dalla modificazione del regime costituzionale italiano: dalla sostituzione dello Statuto albertino con la Costituzione repubblicana del 1948 chenon solo non prevede più il concetto giuridico di religione “dello Stato”, ma, per converso, espressamente prevede, sia (art. 7) i “ rapporti a tra lo Stato e la Chiesa cattolica (regolati dai patti lateranensi e successive, eventuali modificazioni), sia (art. 8) i “rapporti” (da regolarsi sulla base di intese con le relative rappresentanze) con le altre confessioni religiose, tutte egualmente libere davanti alla legge: così come pienamente libere sono le professioni, la propaganda, l’esercizio di qualunque fede religiosa (art. 19), con l’unico limite del buon costume.

8. — Se, quindi, l’abrogazione della norma dell’art. 724 c.p. (del solo I comma, ovviamente, che concerne il fatto di bestemmiare in pubblico) dovesse derivare, come si sostiene con la sentenza impugnata, dalla abolizione del concetto di religione dello Stato, tale abrogazione dovrebbe essersi verificata, non per effetto degli accordi con la Santa Sede del 1984 (e della relativa legge. Di ratifica ed esecuzione del 1985), ma per effetto della mutata disciplina Costituzionale, e perciò dal 1948, dalla entrata in vigore della Costituzione repubblicana.

9. — Esclusa, quindi, l’efficacia abrogativa (su cui tanto si sofferma la sentenza impugnata) della citata l. n. 121 del 1985, va, poi, osservato che, come, è noto, la corte cui è demandato il controllo della validità costituzionale delle leggi ha, peraltro, ripetutamente escluso (sentenze n. 79 del 1958; n. 14 del 1983; n. 925 del 1988) che l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana abbia inciso sulla validità della norma che punisce il reato di bestemmia.
E, sulla scorta di tali pronunce, va perciò osservato che la dizione “religione dello Stato” è usata, come è inequivoco, nella norma in esame (art. 724, I comma, c.p.) solo per indicare la religione cattolica: con riferimento al regime giuridico che la caratterizzava all’epoca di emanazione del codice; ma senza che tale definizione abbia alcun valore che sia essenziale al precetto normativo e che, al fine di tale precetto, sia diretto a dare rilievo a tale qualificazione come contrapposta alla situazio¬ne giuridica che caratterizza (all’epoca) gli altri culti.

10. — Il detto comma dell’art. 724 non è, invero, come si sostiene con la sen¬tenza impugnata, mezzo di tutela — e,di speciale tutela, — della religione cattolica, e, tanto meno, per il fatto di essere questa (all’epoca, si ripete, dell’emanazione del codice) religione dello Stato.
La tutela, invero, della religione cattolica è prevista, come è noto, in modo completo e articolato, al capo primo – dei delitti contro la religione dello Stato e i culti ammessi – del titolo quarto (delitti contro il sentimento religioso), del libro secondo del codice (con gli artt. 402, vilipendio della religione dello Stato; 403, offesa alla religione dello Stato mediante vilipendio di persona; 404, offesa alla religione dello Stato mediante: vilipendio di cose; art. 405, turbamento di funzioni religiose del culto cattolico).
Come mezzo di tutela, poi, della sola religione cattolica, la norma dell’art. 724, I comma, sarebbe in contrasto con la disciplina citata del sentimento religioso che, all’art. 406, estende, come è noto, la stessa, identica tutela ai culti diversi da quello cattolico, purché « ammessi a nello Stato (in base, anche in tal caso, alla qualificazione giuridica in vigore all’epoca) con la previsione che gli stessi fatti (esclusa sola, ovviamente, la previsione dell’art. 402). costituiscono. egualmente delitto e sono puniti con le medesime pene degli art. 403, 404 e 405 (soggette solo alla diminuzio¬ne, massima, di un terzo).

11. — Se, quindi, alla tutela della religione cattolica (e dei culti « ammessi o) provvedono le norme citate, contenute nell’apposito titolo e nello specifico capo, del codice, è evidente che ineludibile si pone il problema, di quale sia, allora, il fine che giustifica la previsione della norma del I comma dell’art. 724; quale sia il bène giuridico che, con tale norma, si è inteso tutelare.
E non può prescindersi, allora, dal considerare che l’art. 724 è compreso, come è noto, nella sezione prima, relativa alle contravvenzioni concernenti la “polizia dei costumi”, del capo secondo, sulla polizia amministrativa sociale, del libro terzo del codice; che tale capo comprende, dalla disciplina penale dei giochi d’azzardo o vietati (artt. 718-723), gli atti contrari alla pubblica decenza (art. 726) fino ai maltrattamento di animali (art. 727). E che la punizione della bestemmia pubblica è compresa, perciò, fra le norme dirette alla tutela dei principi fondamentali del pubblico buon costume: oggetto specifico, appunto, della polizia amministrativa sociale e in particolare, della “polizia dei costumi”.

12. — Il I comma, invero, dell’art. 724 non punisce il fatto, in sé, di arrecare offesa alla religione: punisce l’uso dei modi volgari e fecciosi: li fatto di bestemmiare pubblicamente, con “invettive” e “parole oltraggiose” contro la divinità, i simboli o le persone, della religione.
Oggetto della norma non è, perciò, la tutela (già specificamente prevista, come s’è detto) del sentimento religioso, e di quello cattolico, in particolare, ma la espressione della volgarità pubblica; di quella particolare forma di volgarità che si estrinseca, appunto, con l’inveire, con invettive ed espressioni oltraggiose, contro la divini¬tà, i simboli, le persone della religione.
Allo stesso modo, lo stesso art. 724, II comma, punisce, con la stessa pena prevista dal I comma, le manifestazioni oltraggiose verso i defunti. E evidente, anche in tal caso, che oggetto della norma non è “la pietà dei defunti” (bene giuridico oggetto della specifica tuteli del capo secondo dei citato titolo quarto con gli artt. 407 a 413) ma il buon costume: in quanto la norma tende a perseguire, appunto il malcostume, l’odioso costume (particolarmente diffuso, purtroppo in certe zone e in certi strati sociali del paese) di rivolgere pubblicamente espressioni oltrag¬giose verso i defunti, i congiunti defunti, di una persona (e il reato è procedibile d’ufficio, e non à querela, proprio perché non è l’ingiuria che è perseguita, ma il costume).
Anche con tale norma, quindi, così come con quella dell’art. 726, che prevede come reato il fatto di abbandonarsi, pubblicamente, ad un linguaggio volgare, contrario alla pubblica decenza, il bene giuridico tutelato è quella del pubblico, civile, comportamento sociale: espressamente indicato, come oggetto cui tendere, dalla intitolazione del capo del codice e della sezione, che tali norme comprendono.

13. — Il fatto che la norma del I comma dell’art. 724 prevede come reato quello solo, le invettive e le parole oltraggiose rivolte pubblicamente contro la divinità e contro le persone o i simboli della religione cattolica (individuata con la qualificazione giuridica che la caratterizzava) non è espressione di discriminazione verso gli altri culti: è una conferma, invece, del fatto che la norma non ha per oggetto la tutela del sentimento religioso, né del culto cattolico né degli altri atti (tutti tutelati, come si è visto, con apposite norme). Ma ha per oggetto, invece, la tutela del buon costume contro a comportamenti pubblici, volgari e sconvenienti. E, in relazione a tal fine, la norma fa oggetto della sua previsione il dato sociologico (presupposto di ogni polizia dei costumi) che l’uso di bestemmiare concerne normalmente (e può pure dirsi, esclusivamente) oltre alla divinità, le persone e, i simboli della religione cattolica.
Non esiste (si ripete, come dato sociologico presupposto dal legislatore e corrispondente alla comune conoscenza) l’uso di bestemmiare, di inveire, contro persone e simboli di altre religioni (contro Mosè o Budda o Maometto o anche Lutero).
Il malcostume da perseguire, in atto, nel nostro paese, all’epoca di emanazione del codice, e tutt’ora, si concreta in espressioni volgari solo concernenti la religione cattolica, non altre.
E non avrebbe, perciò, senso realistico una norma di polizia dei costumi che perseguisse fatti e comportamenti, estranei alla effettiva realtà sociale.
Non è, quindi, la diffusione, nella popolazione dello Stato, della religione cattolica, che rileva ai fini della norma in questione, il fatto che di tal religione si proclami seguace la “quasi totalità” dei cittadini italiani (Corte cost. n. 925 del 1988); rileva, invece, il dato sociologico, relativo, al mal costume, che si è inteso perseguire, e alla concreta; effettiva, caratterizzazione di tal mal costume.
E dei tutto infondata, quindi, è la tesi, sostenuta con la sentenza impugnata, secondo cui la norma del I comma dell’art. 724 sarebbe espressione di una disparità di trattamento, tra la religione cattolica e le altre religioni, voluta dal legislatore in base alla considerazione dell’essere solo la prima religione dello Stato.

14. — Solo per completezza d’indagine va rilevato, poi, che assurdo e fuori di luogo è il voler ricondurre la bestemmia alla manifestazione del pensiero e alla libertà costituzionalmente garantita, di tale manifestazione (sia sotto il profilo dell’art. 21 che dell’art. 19 che, del primo, costituisce specifica enunciazione).
Ciò che, invero, vien sanzionato, con la norma in questione, è il fatto di bestemmiare con invettive e parole oltraggiose: non la manifestazione di un pensiero, ma, una manifestazione pubblica di volgarità. Ed è pur superfluo il rilievo che, comunque, il diritto di libera manifestazione del pensiero trova il suo limite proprio nel divieto delle manifestazioni contrarie al buon costume (art.21 ultimo comma, Cost.): le manifestazioni, cioè, perseguite, appunto, in concreto, dalle norme sulla polizia dei costumi.

15. — Per quel che concerne, poi, il primo motivo di ricorso, rileva la corte che altrettanto infondatamente è stato ritenuto, con la sentenza impugnata, la sussistenza, nella specie, del requisito di pubblicità.
Con la stessa sentenza, invero, è stato accertato, in fatto che l’espressione oltraggiosa venne pronunciata dall’imputato in luogo pubblico (una strada pubblica della città di Genova) in presenza di due militari verbalizzanti.
La tesi secondo cui sarebbe necessario, per integrare il detto requisito della pubblicità, la presenza di “una pluralità indeterminata di persone”, fra le quali, oltretutto, non dovrebbero essere compresi i verbalizzanti, è smentita, indipendentemente da ogni altro rilievo, proprio dalla norma del IV comma, n. 2, dall’art. 266 c.p. citata la sentenza stessa. Norma che, come è noto, prevede che, agli effetti della legge penale, il reato si considera avvenuto pubblicamente quando il fatto è commesso “in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone”: senza alcuna altra qualificazione.
Perché sussista, pertanto, il detto requisito, è sufficiente che il fatto sia commesso in presenza di due persone (per tutte, Cass., Sez. I, 11 giugno 1986, N.) e bene le stesse possono essere quelle previste dall’art. 331, I comma, c.p.p.

16. — In accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata deve, perciò, essere annullata con rinvio allo stesso Pretore di Genova (altro magistrato). (Omissis).