Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 17 Luglio 2006

Sentenza 26 maggio 2006, n.12641

Corte di Cassazione. Sezione prima civile. Sentenza 26 maggio 2006, n. 12641: “Attribuzione del cognome paterno e tutela dell’identità personale del minore”.

(omissis)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale per i minorenni di Napoli, con decreto in data 29 maggio 2003, rigettò la richiesta di F. T. di attribuire al figlio naturale A. E., nato il 5 giugno 1997 da una relazione con R. E. e da lui riconosciuto successivamente, il cognome paterno in sostituzione di quello della madre.

Il reclamo prodotto dal T., nella perdurante resistenza della E., venne respinto dalla Corte d’appello sezione minorenni di Napoli in base alle seguenti considerazioni.

Vi era stato un notevole intervallo temporale tra il riconoscimento materno, effettuato alla nascita del minore, e il successivo riconoscimento paterno, intervenuto con sentenza resa pubblica l’11 nov. 2000.

Nelle more, il minore aveva maturato una propria identità personale come A. E., essendo conosciuto nell’ambito scolastico e sociale con tale appellativo.

Raggiunta una età che gli consentiva una cera capacità di discernimento, il minore aveva acquisito nelle relazioni interne ed esterne la consapevolezza dell’appartenenza al gruppo familiare della madre, per cui sarebbe stata sicuramente fonte di turbamento o disagio l’assunzione del cognome paterno sostituito o aggiunto a quello della madre.

Ulteriore elemento ostativo alla predetta attribuzione era la pessima reputazione posseduta nel ristretto ambiente di vita del minore (S. G.V. e comuni limitrofi) dall’avo paterno G. T., noto esponente della criminalità organizzata locale.

Nessuna utilità poteva derivare al minore dall’essere contrassegnato in società del cognome T. e individuato, quindi, come nipote di un camorrista.

Tale discendenza non poteva non avere una ricaduta negativa nella stima in pubblico della figura paterna, pur immune da precedenti penali e pendenze giudiziarie.

Avendo il cognome la funzione di strumento identificativo della persona, di rilievo costituzionale, non era conforme all’interesse del minore l’attribuzione del cognome paterno.

Di tale decreto il T. ha chiesto la cassazione con ricorso affidato a due motivi, poi illustrati con memoria.

Resiste con controricorso R. E.

L’intimato Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Napoli ha svolto attività difensiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Nel corso della discussione orale la difesa della resistente ha eccepito la nullità del ricorso in quanto non notificato al procuratore generale presso il giudice a quo.

L’eccezione è infondata in fatto, risultando il ricorso ritualmente notificato al predetto ufficio.

Peraltro, essa è anche priva di consistenza giuridica, giacché dall’art.262 c.c. si evince che, nelle cause relative all’attribuzione del cognome al figlio naturale, il PM non assume la veste di parte necessaria.

In tali giudizi, pertanto, il ricorso per cassazione avverso la pronuncia emessa dalla Corte d’appello non va notificata anche al PG presso la Corte medesima.

Con il primo motivo, il T. denunzia violazione dell’art. 262 c.c. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

Trascurando le ragioni addotte in sede di reclamo contro il provvedimento del Tribunale dei minorenni, la corte napoletana ha omesso di rilevare che il riconoscimento paterno era intervenuto a distanza di tempo dalla nascita del minore a causa dell’opposizione della madre e della conseguente necessità di ricorrere all’autorità giudiziaria.

La corte di appello non ha considerato, in via comparativa, gli svantaggi collegato al mantenimento del cognome materno e, in particolare, il disagio cui il minore sarebbe andato incontro, specie in età adolescenziale, per oil fatto di portare il cognome della madre e di sapersi qualificato nel ristretto ambiente frequentato come figlio illegittimo.

Lo stesso giudice ha ignorato, inoltre, che il minore è ben consapevole di appartenere anche alla famiglia T. e rammarico di non portarne il cognome ancor più dopo la nascita di un fratellino, figlio anch’esso del papa e della di lui attuale compagna.

Viene infine criticata l’affermazione della corte secondo cui il minore ha diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli, avendo il cognome la funzione, di rilievo costituzionale, di strumento identificativo della persona; si obietta, al riguardo, che se esistesse il nesso di consequenzialità ipotizzato tra cognome assunto per primo e diritto del minore a mantenerlo, le opzioni di cui all’art. 262 c.c. non avrebbe senso e la norma sarebbe inoperante, laddove è destinata a ricevere attuazione proprio in contesti in cui è già stato attribuito un cognome.

Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia e violazione e falsa applicazione dell’art. 262 c.c.

La Corte sarebbe incorsa in palese contraddizione per aver dapprima affermato che l’attribuzione del cognome paterno deve essere sempre disposta a meno che non risultino elementi pregiudizievoli, presumendola quindi vantaggiosa sino a prova contraria, e in seguito subordinato tale attribuzione alla prova positiva che sia di una qualche utilità per il minore.

Altra contraddizione della sentenza consisterebbe nell’avere individuato, quale elemento ostativo all’attribuzione del cognome del padre, la cattiva reputazione dell’avo paterno.

Si evidenzia, in proposito, che proprio grazie all’intervento del tribunale per i minorenni il minore si era ormai inserito nel nucleo T. frequentandolo assiduamente, tanto da esserne ovunque e da chiunque ritenuto membro a pieno titolo.

Peraltro, il cognome T. è assai diffuso nell’ambito territoriale di appartenenza del minore, sicché appare incoerente sostenere che il portarlo possa arrecargli pregiudizio.

Vertendo su un’unica questione, i sopra riassunti motivi vanno esaminati congiuntamente.

Essi si rivelano infondati.

L’interpretazione della norma di cui all’art. 262 c.c. implica la necessità di considerare la funzione del cognome nel nostro ordinamento, di individuare la ratio dell’enunciato normativo e, in una prospettiva più generale, di tenere conto della emersione nel sistema e del costume sociale di una tendenza a mettere in discussione la regola della automatica attribuzione del patrocinio.

È dato ormai incontrovertibile che il cognome nel nostro ordinamento giuridico non svolge solo una funzione pubblicistica, tesa a offrire una tutela della famiglia consentendo ai suoi membri di essere identificabili come appartenenti a un determinato nucleo familiare, ma assolve anche a una fondamentale funzione di natura privatistica, quale strumento identificativo della persona.

La protezione dell’identità personale, immancabilmente contraddistinta da peculiari connotati morali, culturali, ideologici, trova, infatti, il suo nucleo centrale nella tutela del nome, che viene considerato non tanto come mezzo necessario di individuazione del singolo nell’ambito dei soggetti di un ordinamento giuridico secondo principi normativi di interesse generale, quanto piuttosto nella sua corrente qualità di simbolo emblematico dell’identità personale di un individuo e quindi come aspetto, meritevole di protezione, della personalità umana.

Come è stato rilevato in dottrina, la tutela costituzionale del diritto al mantenimento del nome attribuito alla persona al momento della nascita in accordo con le norme di legge deve ritenersi assoluta.

Nel caso di filiazione naturale peraltro, non essendovi una famiglia legittima da tutelare, il cognome del figlio assolve, quanto meno in prevalenza, alla funzione privatistica, in virtù della quale il cognome è una componente dell’inviolabile diritto di ciascun uomo ad avere un propria identità personale (artt. 2 e 22 Cost.).

Dalla stretta connessione tra cognome e status familiare discende che ogni mutamento del secondo sia destinato, di regola, a riflettersi sul primo.

Tuttavia, il passaggio da una concezione del cognome qual mero segno di identificazione della discendenza familiare a una visione che lo inquadra tra gli elementi costitutivi del diritto soggettivo all’identità personale, intesa come un bene a se, indipendente dallo status familiare, ha progressivamente sganciato le sorti del cognome dalla titolarità di una determinata posizione all’interno della famiglia.

Questa evoluzione è sfociata in alcune significative decisioni della Corte Costituzionale, la quale, da ultimo con sentenza 11 mag. 2001 n. 120, co. 2 c.c., ha giudicato costituzionalmente illegittimo l’art. 299, co. 2 c.c., per contrasto con l’art. 2 Cost., nella parte in cui non prevede che, qualora sia figlio naturale non riconosciuto dai propri genitori, l’adottato (maggiorenne) possa aggiungere al cognome dell’adottante anche quello originariamente attribuito dall’ufficiale di stato civile, sottolinenando che il diritto al nome costituisce uno dei diritto fondamentali di ciascun individuo.

Già in precedenza, però, con la sentenza 3 feb. 1994 n. 13, la Corte aveva sancito la illegittimità costituzionale dell’art. 165 del RD 9 lug. 1939 n. 1238, per violazione dell’art. 2 Cost., nella parte in cui non prevede che, quando la rettifica degli atti dello stato civile, intervenuta per ragioni indipendenti dalla volontà del soggetto cui si riferisce, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto stesso possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli, ove questo sia da ritenersi acquisito come autonomo segno distintivo della sua identità personale.

Essa ha, cioè, riconosciuto che il cognome gode di una distinta tutela anche nella sua funzione di strumento identificativo della persona e che, in quanto tale, costituisce parte essenziale e irrinunciabile della personalità.

Si tratta, poi, di tutela di rilievo costituzionale perché il nome, che costituisce il primo e più immediato elemento che caratterizza l’identità personale, è riconosciuto come bene oggetto di autonomo diritto, riconducibile nell’ambito dell’art. 2 Cost.

Riprendendo tali concetti, ola stessa Corte, con sentenza 23 lug. 1996 n. 297, intervenendo proprio sull’art. 262 c.c., ha dichiarato incostituzionale tale norma laddove non prevede che il soggetto dichiarato alla nascita figlio di ignoti e successivamente riconosciuto da uno dei genitori possa conservare, anteponendolo o aggiungendolo al nuovo cognome, quello originariamente attribuitogli dall’ufficiale dello stato civile ove tale cognome sia diventato autonomo segno distintivo della sua identità personale.

Questa decisione ha portato a completamento il disegno del legislatore del 1975, che aveva già modificato l’art. 262, co. 2 c.c., stabilendo, evidentemente nell’intento di garantire, nella conservazione del cognome, il profilo identificativo della persona e non quello identificativo della discendenza familiare, che il figlio naturale maggiore d’età, riconosciuto dal padre solo successivamente al riconoscimento da parte della madre, non assumesse più automaticamente il cognome paterno, ma potesse scegliere se aggiungerlo o sostituirlo a quello materno.

Secondo il giudice delle leggi, quindi, per i figli nati fuori dal matrimonio e non riconosciuti dal padre immediatamente o comunque contemporaneamente alla madre, non solo è esclusa per legge l’automatica imposizione del cognome paterno (art. 262 c.c.), ma deve essere riconosciuta al cognome già acquisito dal figlio, anche se non conforme al rapporto di filiazione, una propria autonoma tutela quale segno distintivo dell’identità personale fino ad allora da lui posseduta nell’ambiente in cui vive.

Sulla scia di tali principi, incentrati sull’interesse anche del minore di mantenere il proprio cognome, qualora sia divenuto segno distintivo della personalità, questa Suprema Corte (sent. n. 6098/2001), in una fattispecie in cui il padre, dopo aver legittimato per provvedimento del giudice il figlio naturale successiva,mente alla madre, aveva chiesto di attribuire il proprio cognome, ha statuito che, ai fini della delibazione di una simile domanda ai sensi dell’art. 262 c.c. (applicato analogicamente alla controversia), deve valutarsi l’interesse esclusivo del minore, avuto riguardo al di lui diritto alla propria identità personale fino a quel momento posseduta nell’ambiente in cui è vissuto, nonché a ogni altro elemento di valutazione suggerito dal caso concreto, esclusa qualsivoglia automaticità.

Già da queste prime notazioni è evidente come, diversamente da quanto opina il ricorrente, la rasoio dell’art. 262 c.c. non va rintracciata nell’esigenza di rendere la posizione del figlio naturale quanto più simile possibile a quella del figlio legittimo, ovvero, sia di parificare la filiazione naturale a quella legittima, privilegiando per tale via l’assunzione del cognome paterno quale quello che, da un punto di vista sociale, non rende riconoscibile lo stato di figlio naturale, ancora ritenuto in molti ambienti svantaggiato: ratio della norma è invece garantire l’interesse del figlio a conservare o a non cambiare il cognome con cui è ormai conosciuto nell’ambito delle proprie relazioni sociali.

Nell’applicazione dell’art. 262 c.c., quindi, l’organo giurisdizionale è chiamato a emettere un provvedimento contrassegnato da ampio margine di discrezionalità e frutto di libero (e prudente) apprezzamento, nell’ambito del quale rileva non tanto l’interesse dei genitori quanto il modo più conveniente di individuazione del minore, con riguardo allo sviluppo della sua personalità, nel contesto delle relazioni sociali in cui si trovi a essere inserito.

Pertanto, il giudice chiamato a valutare l’interesse del minore preventivamente riconosciuto dalla madre a vedersi attribuito il patronimico a seguito del successivo riconoscimento paterno, dovrà impedire il mutamento di cognome non solo nei casi in cui la cattiva reputazione del genitore possa comportare un pregiudizio al minore, ma anche nel caso in cui il matronimico sia assurto ad autonomo segno distintivo della di lui identità personale.

Del resto, lo stesso co. 2 dell’art. 262 c.c., rimettendo al figlio maggiorenne la scelta di sostituire o aggiungere al cognome materno quello del padre, dimostra di tenere in considerazione l’interesse del figlio a conservare la propria identità fino a quel momento consolidatasi.

Medesime valutazioni, quindi, non potrà evitare di compiere una decisione per il minore che, soprattutto se si dovesse trovare in una fase preadolescenziale o adolescenziale della sua vit, potrebbe avere già acquistato una sua bene definitiva e formata identità.

In questo asseto, caratterizzato dalla esigenza di adeguare il diritto di famiglia ai valori costituzionali, si inserisce coerentemente, seppur in una prospettiva più generale, la accennata crisi del principio dell’automatica attribuzione del cognome paterno.

La norma, chiaramente desumibile dal sistema, in quanto presupposta da una serie di disposizioni regolatrici di fattispecie diverse, in base alla quale il padre trasmette automaticamente il proprio cognome ai figli legittimi è, infatti, ormai da tempo oggetto di forti critiche, sottolineandosi la patente violazione del principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi sancito nell’art. 29, co. 2, Cost., emanazione del più generale principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.

Anche in giurisprudenza si sono riscontate posizioni favorevoli all’abolizione della predetta regola, giudicata maschilista e non più rispondente al mutato assetto costituzionale, essendosi in passato, ad esempio, tentato (invano) di sollecitare una dichiarazioni di incostituzionalità degli artt. 71, 72, co. 5, e 73 vecchio ordinamento stato civile, nella parte in cui non prevedevano la facoltà dei genitori di determinare anche il cognome da attribuire al proprio figlio legittimo mediante l’imposizione di entrambi i loro cognomi, ne il diritto di quest’ultimo di assumere anche il cognome materno (questione dichiarata inammissibile dalla Corte Costituzionale, con ordinanza 11 feb. 1988, n. 176).

Comunque, al di la dei profili di incostituzionalità di tale norma, che, pur non avendo trovato corpo in una disposizione espressa, è tuttavia immanente nel sistema, quale traduzione giuridica di un’usanza consolidata da tempo e radicata in larghi strati della società, va dato atto di un sempre maggior interessamento al problema a livello politico, ove da più parti sono giunte proposte di modifica della situazione attualmente vigente, volte ad adeguare al p,principio di eguaglianza la disciplina sulla trasmissione del cognome.

Molteplici sono stati, infatti, i progetti di legge che si sono succeduti (anche se senza successo), tendenti all’eliminazione della discriminazione, ai danni della donna, che consegue al principio dell’automatica trasmissione del cognome paterno ai figli legittimi.

In effetti, dando uno sguardo alle esperienze giuridiche dei Paesi a noi più vicini, ci si rende conto dell’esistenza di una tendenza normativa che abbandona il principio dell’automatica attribuzione del cognome, optando per una soluzione che, rispettosa dell’eguaglianza tra i coniugi, lascia questi ultimi liberi di scegliere, sia pur entro certi limiti, il cognome da trasmettere alla prole.

Va poi ricordato che con la legge 14 mar. 1985 n. 132 l’Italia ha ratificato la Convenzione di New York dl 18 dic. 1979 sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna; e tra i vari impegni assunti dal nostro Paese con tale legge vi è anche quello, sancito nell’art. 16, lett. g) della Convenzione, di assicurare gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome.

Vanno del pari menzionate le raccomandazioni del Consiglio d’Europa n. 1271 del 1995 e n. 1362 del 1998 e, ancor prima, la risoluzione n. 37 del 1978, relative alla piena realizzazione della uguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome dei figli, nonché una serie di pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, che vanno nella direzione della eliminazione di ogni discriminazione basata sul sesso nella scelta del cognome (16 feb. 2005, affaire Stjerna c. Filande; 24 gen. 1994, affaire Burghartz c. Suisse).

A parte queste considerazioni, occorre anche osservare che rimettere l’imposizione del cognome a meccanismi automatici costituisce una tecnica che, come è stato giustamente già segnalato dalla Corte Costituzionale con la sopra citata sentenza n. 13/1994, può condurre a conseguenze assurde qualora un soggetto subisca cambiamenti del cognome in età avanzata, dal momento che tale avvenimento coinvolgerebbe anche i suoi eventuali discendenti, comportando situazioni di estremo imbarazzo dal punto di vista personale, oltre che inevitabili confusioni.

D’altronde, anche il legislatore ha riservato alcuni spazi in cui il principio dell’automatica trasmissione del cognome non opera, come, ad esempio, nel caso dell’art. 5, co. 3, della legge 1 dic. 1970 n. 898, così come modificato dall’art. 9 della legge 6 mar. 1987 n. 74, che, per l’ipotesi dello scioglimento del matrimonio, consente alla moglie di conservare il cognome del marito qualora sussista un interesse, suo o dei suoi figli, meritevole di essere tutelato, rappresentato dall’esigenza di assicurare l’identità personale fino a quel momento maturata.

Similmente, l’art. 156 bis c.c., in tema di separazione personale tra i coniugi, concedendo al giudice la facoltà di vietare alla moglie l’uso del cognome del marito, qualora tale uso possa a lui causare un grave pregiudizio, è norma che non si concilia con il principio dell’automatica attribuzione del cognome.

Un’autorevole eco delle cennate spinte evolutive si rinviene in una recentissima decisione la n. 61 del 2006, della Corte Costituzionale.

Con essa i giudici della Consulta sono stati chiamati a giudicare della costituzionalità, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29, 2 co., della Costituzione, di una serie di articoli di legge dai quali, come si è sopra accennato, si desume la norma secondo cui il figlio acquista automaticamente, all’atto della nascita, il cognome del padre, così che i coniugi non possono, neanche di comune accordo, derogarvi, ad esempio imponendo il cognome materno.

La Corte di Cassazione (come giudice a quo) aveva sostenuto, in particolare, che l’impossibilità per la madre di trasmettere al figlio il proprio cognome e, di conseguenza, l’impedimento posto a carico di quest’ultimo di acquisire segni di identificazione rispetto ad entrambi i genitori, testimoniando la continuità della sua storia familiare anche con riferimento alla linea materna, rappresentasse una violazione del principio di uguaglianza e pari dignità dei coniugi, garantito dagli artt. 2, 3 e 29, co. 2, Cost.

La Cote delle leggi, dopo aver ripreso i propri precedenti in cui aveva giustificato la soluzione legislativa contestata poiché essa rappresentava comunque una regola radicata nel costume sociale come criterio di tutela dell’unità della famiglia fondata sul matrimonio (sent. n. 586 del 1988), finisce tuttavia per riconoscere significativamente che, a distanza di 18 anni dalle decisioni in precedenza richiamate, non può non rimarcarsi che l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistica, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna.

(Malgrado la lettura evolutiva dei principi costituzionali invocati, favorita anche dalle convenzioni internazionali in materia e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la Corte ha dichiarato tuttavia inammissibile la questione di legittimità prospettata nel giudizio, poiché, data l’estrema diversità delle soluzioni normative astrattamente ipotizzabili, l’intervento manipolativo richiesto trascende i poteri del giudice di costituzionalità).

Quanto precede induci, in definitiva, a considerare ormai non più attuale un criterio di trasmissione del cognome assolutamente affidato a rigidi meccanismi automatici, che se, da un lato, possono soddisfacentemente proteggere interessi di ordine pubblico, dall’altro non riescono ne a impedire forme di discriminazione basate sulla differenza di sesso tra uomo e donna, ne a tutelare adeguatamente situazioni esistenziali connesse all’uso del cognome.

Pertanto, un intervento legislativo capace, da un lato, di adeguare la disciplina sul cognome alle mutate esigenze di una famiglia che da tempo non si ispira più al modello patriarcale e, all’altro, di conciliare il diritto all’identità personale della famiglia legittima con il medesimo diritto di quella naturale, appare ormai indifferibile.

Tirando le fila del discorso, va ribadito che in sede di applicazione dell’art. 262, co. 2, c.c., si deve partire del presupposto, innucleato nella ratio della norma, che il diritto al nome costituisce uno dei diritti fondamentali di ciascun individuo, avente copertura istituzionale assoluta.

Nell’operare la valutazione richiestagli dall’enunciato normativo, il giudice deve prescindere da qualsiasi meccanismo di automatica attribuzione del cognome, ma deve avere riguardo all’identità personale posseduta dal minore nell’ambiente in cui è cresciuto fino al momento del riconoscimento da parte del padre.

A tutela dell’eguaglianza fra i genitori, il giudice non dovrà autorizzare l’assunzione del patronimico (non soltanto ove ne possa derivare danno per il minore, ma anche) allorquando il cognome materno si sia radicato nel contesto in cui il minore si torva a vivere, giacché precludergli il diritto di mantenerlo si risolverebbe in un’ingiusta privazione di un elemento della sua personalità, tradizionalmente definito come il diritto a essere se stessi.

Il provvedimento deve, quindi, tutelare l’interesse del minore, non necessariamente coincidente co quello dell’uno o dell’altro genitore, alla propria identità.

Il giudice può e deve ricercare di ufficio i dati informativi per conoscere l’interesse del minore; la relativa valutazione ha connotati di ampia discrezionalità, non trovando limitazione neppure nella volontà favorevole o contraria del minore medesimo.

La corte territoriale ha tenuto ben presenti i principi, rilevando in premessa che la contrarietà all’interesse del minore può sussistere solo in caso di concreto accertamento di una cattiva reputazione del padre, di per se pregiudizievole per il figlio, ovvero di prova, ritenuta ampiamente raggiunta nella fattispecie esaminata, che, nell’intervallo tra i due riconoscimenti, il minore abbia maturato una precisa, infungibile identità individuale e sociale per il fatto di essere riconosciuto con il cognome della madre nella cerchia sociale in seno alla quale è vissuto.

Nessuna violazione dell’art. 262 c.c. è quindi ascrivibile al giudice a quo.

Rimangono le censure in tema di motivazione.

Al riguardo, conviene premettere, in relazione al tipo di censura mossa in concreto dalla ricorrente, che il decreto reso alla Corte di appello napoletana in tema è ricorribile per cassazione soltanto per violazione di legge, ai sensi dell’art. 111 Cost.

Ora è noto che il vizio di violazione di legge riguardo alla motivazione si ha solo quando questa sia del tutto carente o fittizia, o si fondi su argomentazioni inidonee a sorreggere la ratio decidendi o appaia contraddittoria, essendo invece esclusa l’ammissibilità del ricorso sotto il profilo dell’insufficienza della motivazione in relazione alle risultanze probatorie (cfr. Cass. nn. 13419/1999, 3101/1998, 7139/1996, 4388/1995).

In diversi termini, nella materia in oggetto il ricorso per cassazione è proponibile, con riferimento al vizio della motivazione o di sua ineliminabile contraddittorietà, si da configurarsi la violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c.

Tale radicale vizio della motivazione certamente non ricorre nella fattispecie in esame, avendo il giudice coerentemente e congruamente argomentato che: prima di essere tardivamente riconosciuto dal padre il piccolo, di vivace intelligenza e assai socievole, aveva preso consapevolezza della sua identificazione cognominale, frequentando le organizzazioni educative scolari, egli aveva maturato una precisa identità personale per il fatto di essere conosciuto nella cerchia sociale deove è vissuto con il cognome materno; in questo contesto, una mutazione del cognome sarebbe stata di nocumento alla serena ed equilibrata crescita psico- fisica del minore e alla sua vita di relazione; ulteriore elemento ostativo alla chiesta attribuzione del patronimico era la cattiva fama goduta nel ristretto ambito territoriale di appartenenza del minore dall’avo paterno G. T. per via del sue imprese criminali, quale noto esponente della criminalità organizzata locale, che gli avevano comportato condanne per complessivi 10 anni di reclusione e otto di soggiorno obbligato; era contrario all’interesse del minore il poter essere additato come nipote di un camorrista.

Nella specie, quindi, l’impugnato decreto contiene una compiuta motivazione sul punto dell’interesse del minore, con il qual ha ritenuto contrastante la richiesta di attribuzione del cognome paterno sulla base di una serie di elementi non sindacabili in questa sede, sicché deve escludersi che ricorra una delle ipotesi di motivazione sopra richiamate e, di conseguenza, la sussistenza di un vizio di violazione di legge che renda ammissibile il ricorso ex art. 111 Cost.

Le ragioni addotte dal ricorrente, che in parte si appuntano su qualche innocua e relativa sbavatura argomentativa della Corte del merito (quale quella concernente l’assenza di utilità per il minore ad assumere il cognome paterno), tenendo in buona sostanza a ottenere dalla corte di legittimità un’inammissibile rivisitazione di circostanze di fatto, con la prospettazione di una diversa lettura del contenuto e della sufficienza delle risultanze istruttorie già attentamente vagliate e ritenute determinanti dal giudice di merito, cui spetta istituzionalmente l’attività di scelta e valutazione delle prove, e finisce per allegare vizi motivazionali neppure riferibili al paradigma dell’art. 360 n. 5 c.p.c.

In particolare, del tutto in conferente, per le ragioni in precedenza svolte su ratio e portata esegetica dall’art. 262 c.c., si rivela la deduzione del presunto disagio psicologico in cui il minore sarebbe venuto a trovarsi per aver una connotazione cognominale non corrispondente a quella della discendenza patrilineare propria dell’assetto familiare e rivelatrice dello stato di figlio illegittimo.

Come detto, l’interesse del figlio nato fuori dal matrimonio che la norma intende salvaguardare non è quello di avere un’apparenza di filiazione regolare, ma di conservare (o di non mutare) il cognome originario se questo sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale in una determinata comunità.

Il ricorso va, in definitiva, rigettato con la conseguenziale condanna del suo proponente alle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 4.100,00, di cui 4,000,00 per onorari d’avvocato, oltre spese generali e accessori di legge.