Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 28 Aprile 2006

Parere 15 febbraio 2006

Consiglio di Stato. Sezione seconda. Parere 15 febbraio 2006: “Esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche”.

Consiglio di Stato
Adunanza della Sezione SECONDA 15 febbraio 2006
N. Sezione 4575/03-2482/04

OGGETTO
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – Ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica proposto dall’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti – UAAR e dal sig. G. V., n. 9 di legale rapp.te della predetta unione

Visto il ricorso indicato in oggetto, depositato presso il Segretariato Generale del Consiglio di Stato in data
03.11.2003 ai sensi dell’art. 11, secondo comma, D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199; Visto il proprio parere interlocutorio del 17 marzo 2001;
Letti gli atti e udito il relatore consigliere Armando Pozzi;

Premesso:
Avverso la direttiva in oggetto l’Associazione ricorrente ed il suo legale rappresentante deduce quattro motivi di illegittimità lamentando l’incompetenze del Ministero, la violazione dei principi costituzionali di laicità dello Stato e di libertà di religione e di insegnamento, violazione dei principio di imparzialità.

Considerato:
Al fine di decidere vale ricordare che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è espressamente prescritta, rispettivamente per le scuole medie ed elementari, dall’art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965, e dall’art. 119 del r.d. 26 aprile 1928 E. 1297 (Tabella C allo stesso allegata).
I due citati regi decreti del 1924 e del 1928, sebbene risalenti, sarebbero tuttora in vigore, come confermato dal parere 27 aprile 1988 n. 63/1988, reso da questa stessa Sezione.
Il citato art. 118 del r.d. 965/24 – inserito nel capo XIl relativo ai “locali e arredamento scolastico” – dispone che ogni istituto d’istruzione media “ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re”; l’art. 119 del r.d. 1297/28, a sua volta, stabilisce che gli arredi delle varie classi scolastiche sono elencati nella tabella C, allegata allo stesso regolamento: e tale elencazione include il crocifisso per ciascuna classe elementare.
Tali previsioni, anteriori al Trattato ed al Concordato tra la Santa Sede e l’ltalia – cui fu data esecuzione con la legge 27 maggio 1929, n. 810 – non appaiono contrastare con le disposizioni contenute in quegli atti pattizi, in cui nulla viene stabilito relativamente all’esposizione del crocifisso nelle scuole, come in qualsiasi ufficio pubblico; inoltre, come rileva il citato parere n. 63/1988, le modificazioni apportate al Concordato con l’Accordo, ratificato e reso esecutivo con la legge 25 marzo 1985, n. 121, “non contemplando esse stesse in alcun modo la materia de qua, così come nel Concordato originario, non possono influenzare, né condizionare la vigenza delle norme regolamentari di cui trattasi”, mancando i presupposti di cui all’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale.
In particolare, prosegue lo stesso parere, “non appare ravvisabile un rapporto di incompatibilità con norme sopravvenute né può configurarsi una nuova disciplina dell’intera materia, già regolata dalle norme anteriori”: sicché, in conclusione, poiché le disposizioni in parola “non attengono all’insegnamento della religione cattolica, né costituiscono attuazione degli impegni assunti dallo Stato in sede concordataria, deve ritenersi che esse siano tuttora legittimamente operanti”.
La natura regolamentare dei due atti citati si desume, anzitutto, da specifiche previsioni che li autoqualificano per tali (ad es. l’art. 144 del r.d. 965/24, e la stessa intestazione per il r.d. 1297/28); si aggiunga che, nei rispettivi preamboli, vengono richiamati atti di grado sicuramente legislativo – il testo unico delle leggi sull’istruzione elementare, approvato con il r.d. 5 febbraio 1928, n. 577, da una parte, ed il r.d. 6 maggio 1923, n. 1054, recante l’ordinamento della istruzione media, dall’altra – rispetto ai quali sono destinati ad introdurre norme attuative di dettaglio.
Per completezza va rilevato che a loro volta le citate leggi risultano attualmente vigenti nella formulazione di cui al d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, testo unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado.
Invero, rammentato nuovamente che il crocifisso costituisce, secondo l’art. 118 del r.d, 30 aprile 1924, n. 965 e l’art. 119 del r.d. 26 aprile 1928 n. 1297 (e, in particolare, nella Tabella C allo stesso allegata), un arredo scolastico, va ricordato che l’art. 159, primo comma, del d. lgs. 297/94, dispone che spetta ai comuni provvedere, tra l’altro, “alle spese necessarie per l’acquisto, la manutenzione, il rinnovamento del materiale didattico, degli arredi scolastici, ivi compresi gli armadi o scaffali per le biblioteche scolastiche, degli attrezzi ginnici e per le forniture dei registri e degli stampati occorrenti per tutte le scuole elementari”; per la scuola media, poi, l’art. 190 del citato d. lgs. 297/94, dispone, analogamente, che i comuni sono tenuti a fornire, oltre ai locali idonei, l’arredamento, l’acqua, il telefono, l’illuminazione, il riscaldamento, e così via.
Un’altra disposizione dello stesso d. lgs. 297/94 va analizzata: l’art. 676, intitolato “norma di abrogazione”, il quale dispone che “le disposizioni inserite nel presente testo unico vigono nella formulazione da esso risultante; quelle non inserite restano ferme ad eccezione delle disposizioni contrarie od incompatibili con il testo unico stesso, che sono abrogate”.
Invero, le norme recate dall’art. 118 del r.d. 965/24 e dall’art. 119 del r.d. 1297/28 non confliggono affatto con il testo unico e restano dunque in vigore in forza dello stesso art. 676.
Occorre appena aggiungere come il riferimento alla natura del regime che governava il Paese all’epoca dell’emanazione delle citate norme regolamentari e al loro utilizzo talvolta strumentale, non può affatto comportare la loro abrogazione, sia perché si tratta di considerazioni metagiuridiche, sia perché la norma, una volta emanata, prescinde dalla sua occasione storica e mantiene la sua validità fino a che non intervenga un atto o fatto giuridico (e non storico) a valenza abrogativa.
Neppure va sottaciuta la circostanza che le norme sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche risalgono addirittura al 1859, in un contesto storico di profonda laicità dello Stato, desumibile dal noto aforisma cavouriano “libera Chiesa in libero Stato”. Segno evidente, proprio sotto il profilo storico, che l’esposizione del simbolo cristiano era considerata all’epoca, accanto alla collocazione del ritratto del re e della bandiera, come richiamo ai valori unificanti della nazione.
Va ancora ricordato, per seguire l’impronta storicistica del ricorrente, che l’esposizione del crocifisso nelle scuole é perdurata tanto a lungo, anche dopo la caduta del fascismo, che qualcuno ne ha parlato come di una consuetudine nel senso giuridico del termine.
Le considerazioni sopra svolte consentono di contrastare l’assunto secondo cui le due disposizioni regolamentari citate, il r.d. 965/24 ed il r.d. 1297/28, in quanto strettamente collegate allo Statuto albertino e alla sua previsione del cattolicesimo come religione di Stato (articolo 1) sarebbero state abrogate dalla Costituzione repubblicana o almeno dalle modificazioni apportate al Concordato con l’Accordo, ratificato e reso esecutivo con la legge 25 marzo 1985, n. 121, che espressamente hanno espunto dall’ordinamento lo stesso concetto di religione di Stato.
Va osservato, al riguardo, che – non trattandosi di abrogazione espressa ma solo di quella tacita – la tesi dell’abrogazione comporterebbe la diretta derivazione delle ricordate norme regolamentari sull’esposizione del crocifisso dall’articolo 1 dello Statuto albertino, e quindi la sua evidente incompatibilità sia con la Costituzione sia con la modifica del Concordato del 1985.
Tuttavia, le ripetute norme regolamentari hanno quale fondamento le leggi sulla pubblica istruzione e non costituiscono applicazione diretta dello Statuto albertino.
In definitiva, la tesi dell’abrogazione implicita non trova corrispondenza né nel quadro storico (anche a voleme ammettere la diretta rilevanza), né in quello normativo, dando oltretutto per dimostrato, la stessa tesi, un assorbente significato univocamente religioso del simbolo della croce nel contesto scolastico, che risulta invece dubbio e controversa, come meglio si vedrà in prosieguo.
In conclusione, le due disposizioni in questione non possono ritenersi abrogate, né espressamente, né implicitamente, da successive norme di grado costituzionale, legislativo ovvero regolamentare.
Tale affermazione trova ulteriore conforto proprio nell’ordinanza della Corte costituzionale, 15 dicembre 2004, n. 389.
La Corte, infatti, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di costituzionalità. degli art. 159, 190 e 676 del d.lg. 16 aprile 1994 n. 297, relativi alla manutenzione e gestione degli edifici scolastici, arredi compresi, come assertivamente specificati, rispettivamente, dall’art. 119 r.d. 26 aprile 1928 n. 1297, tabella C, e dall’art. 118 r.d. 30 aprile 1924 n. 965, nella parte in cui includono il crocifisso tra gli arredi delle aule scolastiche (questione sollevata in riferimento al principio di laicità dello Stato), in quanto avente ad oggetto sostanzialmente ed unicamente norme regolamentari prive di forza di legge, con ciò presupponendone la vigenza.
Resta dunque da vedere – su un piano di esegesi complessiva e pur prescindendo dal fatto che le predette norme regolamentari non risultano impugnate in questa sede – se tali norme regolamentari siano conformi ai precetti costituzionali invocati da parte ricorrente.
Si tratta cioè di stabilire se l’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche, che per il suo evidente carattere simbolico non può essere considerata alla stregua di un qualsiasi arredo scolastico, sia compatibile con le norme vigenti, soprattutto quelle di rango costituzionale.
I valori costituzionali cui fare riferimento sono quelli inerenti alla laicità dello Stato ed alla libertà passiva ed attiva di religione e di insegnamento (artt. 7, 8, 19 e 33 Cost.).

2 – Quanto al primo dei predetti valori, occorre subito precisare che la nozione di laicità non si contrappone a quella di religiosità, ma comporta, più semplicemente, che lo Stato democratico riconosce una valenza autonoma alla sfera religiosa come estranea alla sua volontà di determinazione; in sostanza, lo Stato si proclama neutro rispetto alle diverse religioni a cui il cittadino può liberamente aderire o restare estraneo o indifferente.
Laicità significa riconoscimento di una sfera autonoma lasciata in campo religioso alla libera determinazione del singolo; significa, inoltre, nel nostro ordinamento, la regolamentazione a certe condizioni dei rapporti con alcune specifiche religioni, riconosciute purché non si pongano in contrasto con i valori fondanti della Repubblica, e, tramite lo speciale regime concordatario, con la chiesa cattolica.
Le numerose pronunce della Corte costituzionale in materia, se da un lato hanno riguardato questioni in cui si discuteva di una specifica prescrizione o imposizione normativa, d’altro lato hanno affermato un principio cardine, quello, appunto, della laicità dello Stato, che trascende le singole questioni giuridiche, prevalentemente di carattere penale, ora processuali, ora sostanziali, ovvero di trattamento economico.
La laicità é, in via generale, l’applicazione del principio di eguaglianza da parte dello Stato, il cui “comportamento” non può che essere di equidistanza e imparzialità nei confronti di tutte le confessioni religiose, senza che assumano rilevanza il dato quantitativo dell’adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa (Corte Costituzionale, 20 novembre 2000, n. 508; cfr. anche sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329 del 1997) e la maggiore o minore ampiezza delle reazioni sociali che possono seguire alla violazione dei diritti di una o di un’altra di esse (ancora la sentenza n. 329 del 1997), imponendosi la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede quale che sia la confessione di appartenenza (così ancora la sentenza n. 440 del 1995),
Laicità significa altresì, come logico corollario in ambito scolastico, che nella scuola pubblica, in cui si devono diffondere anche i valori di libertà, democrazia e non discriminazione, non é lecito imporre alcun tipo di credo religioso e anzi risulta doverosa un’educazione improntata alla massima libertà e al rispetto reciproco in tale campo.
D’altra parte, il principio di laicità è corollario di quello più fondante di libertà, che trova riconoscimento a sua volta, altresì, nelle norme sopranazionali, come nell’articolo 9 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata il 4 novembre 1950 e ratificata con legge 4 agosto 1955 n. 848 che sancisce il diritto inviolabile “alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”, ovvero la Convenzione dei diritti del fanciullo siglata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata con legge 27 maggio 1991 n. 176.
La laicità dello Stato, d’altronde, rappresenta un principio fondamentale anche in tutti i sistemi democratici occidentali e fa parte del patrimonio giuridico europeo (come dimostra anche l’ampio dibattito sull’inserimento del richiamo alla tradizioni cristiane nella nuova Costituzione europea); ciò che risulta anche dalle numerose pronunce giurisdizionali (alcune delle quali riportate anche in ricorso), che in vari Paesi si sono occupate della legittimità della collocazione di simboli religiosi negli spazi pubblici e nelle scuole, pur nella diversità dei contesti normativi e sociali; pronunce che hanno sempre affermato con forza la priorità del principio di laicità dello Stato, ovvero di neutralità rispetto a tutte le fedi religiose e alle convinzioni atee, e questo anche se l’esito di dette sentenze è stato il più vario.
II principio supremo della aconfessionalità dello Stato è stato invero considerato come parametro di riferimento nella sentenza del Bundesverfassungsgericht del 16 maggio 1995, in quella della Corte costituzionale del Land Bavarese del 1 agosto 1997, nella sentenza del Tribunale federale svizzero del 26 settembre 1990, del Tribunale supremo di Spagna del 12 giugno 1990, ma anche in numerose pronunce di tribunali statunitensi, sia pure attinenti a simboli diversi dalla croce.

3 – Tutto ciò premesso, va osservato, tuttavia, come il principio di laicità non risulta compromesso dall’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche.
Il crocifisso costituisce, infatti, anche un simbolo storico — culturale; esso rappresenta un segno di identificazione nazionale; esso rappresenta, insieme ad altre forme di vita collettiva e di pensiero, uno dei percorsi di formazione dei nostro Paese e in genere di gran parte dell’Europa (alcuni vessilli nazionali del nord Europa contengono il segno della croce e non a caso, forse, essi sono stati oggetto di recenti episodi di ritorsione in Paesi di religione islamica ), la cui cristianità o il cui cattolicesimo non possono essere cancellate, anzitutto come dato sociologico, dal ricordato principio di laicità, al quale il cristianesimo si accompagna come elemento di integrazione e sviluppo e non certo di contrapposizione né, tanto meno, di discriminazione.
Al riguardo, neppure va dimenticato che l’accordo per la modifica al Concordato lateranense dell’U febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede”, ratificato dalla legge n. 121 del 1985, all’articolo 9 dispone che “La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado”, con ciò riconoscendo espressamente che i principi cristiani “fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano”, con un’affermazione di contenuto generale di particolare significato precettivo, che trova d’altronde riscontro nello specifico e differenziato riconoscimento operato nei confronti dell’ordinamento ecclesiastico e dei valori ad esso connessi, ai sensi dell’art. 7 e dell’articolo 8, comma 2, della Costituzione e non riferibile unicamente al contesto dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole.
La stessa parte ricorrente, d’altronde. richiama la predetta norma concordataria, seppure per ritenerne l’irrilevanza sul piano esegetico limitandone la sua funzione a semplice ratio giustificatrice del permanere dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche. Ma proprio la ratio evidenzia un dato storico e sociologico assunto a criterio giuridico trasfuso in una norma patrizia la cui violazione esporrebbe lo Stato italiano a denunce di violazione dei trattati internazionali e della stessa Carta costituzionale. La stessa Corte costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 402 del Codice penale (Vilipendio della religione dello Stato), ha osservato che pur nel rispetto del principio di laicità e pluralismo dello Stato, comportante la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede quale che sia la confessione di appartenenza (così ancora la sentenza n. 440 del 1995 cit.), deve pur sempre correlarsi alla possibilità di regolare bilateralmente e quindi in modo differenziato, nella loro specificità, i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica tramite lo strumento concordatario [C. Cost., 20 novembre 2000, n. 508].
E’ poi da considerare che la più autorevole dottrina costituzionalistica, nel commentare le norme della Costituzione inerenti la materia religiosa, ha ripetutamente sottolineato la dimensione “sociale” del fenomeno religioso, cioè la sua qualificazione in termini non soltanto spirituali, filosofici e trascendenti

4 – Tuttavia, deve pur ammettersi che il crocifisso non può, oggi, essere considerato come un mero simbolo storico e culturale, nemmeno nel contesto scolastico, ma deve essere valutato anche come un simbolo religioso.
Peraltro, così come sarebbe riduttivo e semplicistico considerare – sia pure a determinati fini – la croce quale mero segno storico e culturale, altrettanto riduttivo sarebbe correlare automaticamente e acriticamente la qualificazione di tale simbolo quale religioso con il divieto di collocarlo in un’aula di una scuola pubblica, almeno senza prima approfondire la sua particolare incidenza sul concetto di laicità, giuridicamente e costituzionalmente garantito, che si intende preservare e difendere.
A tale proposito va evidenziato come la croce vada intesa quale simbolo del cristianesimo, non già semplicemente del cattolicesimo, e quindi riassuma in sé oltre al cattolicesimo stesso anche i valori delle altre molteplici confessioni cristiane presenti nel nostro Paese (valdese, ortodosse, evangeliche, ecc.).
In sostanza, la croce è un simbolo in cui si possono identificare numerose confessioni religiose che si rifanno alla figura del Cristo e che, in certo qual moda, costituisce quindi anche il segno del loro comune denominatore; di conseguenza si può e deve escludere che essa vada riferita alle peculiarità di una soltanto delle varie denominazioni cristiane, nemmeno di quella cattolica.
Se, pertanto, la croce rappresenta il segno distintivo di una pluralità di confessioni cristiane, già questa constatazione vale ad evidenziarne una posizione non confliggente con i principi di laicità, i quali, come detto, presuppongono il pluralismo e il non confessionalismo .

5 – Per converso, neppure va sottaciuta l’influenza che la dottrina cristiana, incentrata sui valori della dignità umana, ha avuto nella formazione degli Stati moderni e laici.
E’ ampiamente noto che nella redazione della nostra Costituzione repubblicana e nella fissazione dei principi di laicità dello Stato in essa contenuti, ha avuto parte decisiva (insieme a quello marxista e liberale) l’elemento culturale di ispirazione cristiana, quale fattore di libertà e democrazia.
Il legame ideologico tra cristianesimo e Stato moderno implica una consequenzialità storica attraverso la quale , nonostante arresti, fratture e patologie (inquisizione, antisemitismo, crociate, ecc.) si può cogliere il principio di dignità dell’uomo, di tolleranza, di libertà anche religiosa e quindi, in ultima analisi, il fondamento della stessa laicità dello Stato.
Si può, quindi, fondatamente sostenere che, nell’attuale realtà sociale, il crocifisso debba essere considerato non solo come simbolo di un’evoluzione storica e culturale, e quindi dell’identità del nostro popolo, ma quale simbolo altresì di un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato, che trovano espresso riconoscimento nella nostra Carta costituzionale.
In altri termini, i principi costituzionali di libertà hanno molte radici, e una di queste indubbiamente é il cristianesimo.
Appare, quindi, contraddittorio con le stesse origini della nostra Carta costituzionale, nonché con il sentire stesso del nostro popolo escludere un segno cristiano da una struttura pubblica in nome di una laicità, che trova una delle sue fonti lontane proprio nella religione cristiana.

6 – Resta da esaminare il profilo di contrarietà con i principi di libertà religiosa, e di insegnamento.
Come già detto, non ê contestabile che ancor oggi del simbolo della croce si possono fornire diverse interpretazioni: innanzi tutto quella strettamente religiosa, sia riferita al cristianesimo in generale sia in particolare al cattolicesimo. E’ altresì accettabile l’osservazione che alcuni alunni frequentanti la scuola pubblica potrebbero liberamente e legittimamente attribuire alla croce valenza ancora di inaccettabile preferenza data ad una religione rispetto ad altre, ovvero di un vulnus alla libertà individuale e quindi alla stessa laicità dello Stato.
Si tratta, tuttavia, di opinioni tutte rispettabili, ma in fondo non rilevanti nella causa in esame, anche se parte ricorrente invoca il principio di “protezione da esposizione” affermato dal Tribunale costituzionale federale tedesco nella già ricordata sentenza del 16 maggio 1995.
Il diritto soggettivo individuale di libertà religiosa attiene al riconoscimento di professare il proprio credo in forma individuale e collettiva, la facoltà di esercitare il proprio culto in privato ed in pubblico, alla facoltà di fare propaganda e proselitismo, di esternare manifestazione di fede, di riunirsi e comunicare per scopi religiosi: insomma, di esercitare tutti i diritti di libertà costituzionalmente riconosciuti applicati alla sfera religiosa. Ma la protezione non può estendersi anche alla sfera psicologica, cioè alle dimensioni delle coscienze e dei sentimenti individuali, ciò che porterebbe al riconoscimento di un diritto ad un ambiente sterile, in cui tutti siano preservati dal ricevere messaggi stridenti con le sensibilità e le suscettibilità di ciascuno.
Ma se così fosse e quell’ambiente sterile non venisse assicurato dai pubblici poteri, ciascuno che si sentisse leso da messaggi, simboli, opinioni, manifestazioni ritenuti non rispondenti al suo personale sentire, si riterrebbe legittimato a reagire con comportamenti di intolleranza e reazione, con ciò negando quello stesso diritto di libertà da lui invocato.
In altri termini, la libertà di professione religiosa, riconosciuta in ogni sua forma senza altro limite che non sia quello del buon costume, non significa infatti soltanto « libertà da ogni coercizione che imponga il compimento di atti di culto propri di questa o quella confessione da parte di persone che non siano della confessione alla quale l’atto di culto, per così dire, appartiene »: essa esclude, in generale, ogni imposizione da parte dell’ordinamento giuridico statale [C. Cost., 8 ottobre 1996, n. 334 ]. Quindi la libertà di religione attiene alla tutela delle coscienze individuali nel loro sentire religioso da ogni forma di imposizione oggettivamente vessatoria, ma non anche alla tutela delle singole sensibilità ed alla percezione soggettiva di messaggi ritenuti assertivamente discriminatori, senza trovare oggettivo riscontro in concrete attività discriminatorie dei pubblici poteri.
Anche se nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, come anche ricordata in ricorso, la protezione del sentimento religioso é venuta ad assumere il significato di un corollario del diritto costituzionale di libertà di religione, corollario che, naturalmente, deve abbracciare allo stesso modo l’esperienza ed il sentimento religioso di tutti coloro che la vivono, nella sua dimensione (ma non sensazione) individuale e comunitaria, indipendentemente dai diversi contenuti di fede delle diverse confessioni, tuttavia il superamento di questa soglia deve avvenire ed assume rilevanza, ai fini della tutela costituzionale, attraverso valutazioni e apprezzamenti legislativi differenziati e differenziatori, con conseguenze circa la diversa intensità di tutela [ C. Cost., 14 novembre 1997, n. 329 ].
La libertà di religione deve trovare tutela a fronte di interventi statali che effettivamente la pongano in pericolo. Interventi che la legislazione scolastica non sembra porre in essere.
Il d.P.R. n. 104 del 1985, recante l’approvazione dei nuovi programmi didattici per
la scuola primaria, espressamente riproduce l’intero articolo 3 della Costituzione e di seguito, per quanto concerne la religione, dopo avere evidenziato i valori di tolleranza, di comprensione, di parità, di un costume di reciproca comprensione e di rispetto anche in materia di credo religioso, aggiunge che: “La scuola statale non ha un proprio credo da proporre né un agnosticismo da privilegiare. Essa riconosce il valore della realtà religiosa come un dato storicamente, culturalmente e moralmente incarnato nella realtà sociale di cui il fanciullo ha esperienza ed, in quanta tale, la scuola ne fa oggetto di attenzione nel complesso della sua attività educativa, avendo riguardo per l’esperienza religiosa che il fanciullo vive nel proprio ambito familiare ed in modo da maturare sentimenti e comportamenti di rispetto delle diverse posizioni in materia di religione e di rifiuto di ogni forma di discriminazione”.
Analoghi principi di democrazia, partecipazione, pluralismo e libertà si trovano nel D.Lgs. 16-4-1994 n. 297, recante il testo unico in materia di istruzione di ogni ordine e grado, il cui articolo 1, a proposito della formazione della personalità degli alunni e della libertà di insegnamento, stabilisce che nel rispetto delle norme costituzionali e degli ordinamenti della scuola stabiliti dal medesimo testo unico, ai docenti è garantita la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale dei docente, dirette a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni, con la garanzia dell’autonomia professionale nello svolgimento dell’attività didattica, scientifica e di ricerca.
Alla libertà di insegnamento, non improntata ad alcuna direttiva confessionale o ideologica, si correla dunque l’azione di promozione degli alunni, la quale, ai sensi del successivo articolo 2, è attuata nel rispetto della coscienza morale (quindi anche religiosa) e civile degli alunni.
Con specifico riferimento al riconoscimento del diritto degli studenti di scegliere se avvalersi o non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica, di cui all’art. 309 del citato testo unico, l’articolo 310 dello stesso stabilisce, poi, che, ai sensi dell’articolo 9 dell’accordo con la Santa Sede, ratificato con la già ricordata legge 25 marzo 1985, n. 121 , nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno, nelle scuole di ogni ordine e grado, il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica, senza che tale scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione.
Anche il D.P.R. 8-3-1999, n. 275, con cui è stato emanato il regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, é improntato al rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa delle famiglie, al riconoscimento e valorizzazione delle diversità, al principio generale dell’integrazione degli alunni nella classe e nel gruppo.
In sostanza, nel momento attuale, mentre non si ravvisano elementi positivi di concreta discriminazione in danno dei non appartenenti ala religione cattolica, il crocifisso in classe presenta, dal canto suo, una valenza formativa di nessun peso qualificante ai predetti fini di libertà e può e deve essere inteso, anzi, come uno dei simboli dei principi di libertà, eguaglianza e tolleranza e infine della stessa laicità dello Stato, fondanti la nostra convivenza e ormai acquisiti al patrimonio giuridico, sociale e culturale d’Italia.
Non appare inopportuno rilevare, a tal riguardo, che il simbolo del crocifisso , così inteso, assume oggi, con il richiamo ai valori di tolleranza e solidarietà in esso racchiusi, una valenza particolare nella considerazione che la scuola pubblica italiana risulta attualmente frequentata da numerosi allievi extracomunitari, ai quali risulta piuttosto importante trasmettere quei principi di apertura alla diversità e di rifiuto di ogni integralismo – religioso o laico che sia – che impregnano di sé il nostro ordinamento. Viviamo in un momento di tumultuoso incontro con altre culture, e, per evitare che esso si trasformi in scontro, è indispensabile riaffermare anche simbolicamente la nostra identità, che si caratterizza proprio per i valori di rispetto per la dignità di ogni essere umano e di universalismo solidale. Superati i profili di illegittimità sostanziale dedotti con i motivi di ricorso, resta da considerare quello di incompetenza sollevato con il primo motivo, secondo cui il Ministro non avrebbe titolo ad emanare inviti del tipo di quello in contestazione.
La censura è infondata sotto ogni profilo, tenuto conto che: a) gli artt. 84 e 85 del t. u. n. 297/1994 attengono all’edilizia scolastica; b) il crocifisso, come detto, non é qualificabile alla stregua di un “arredo” scolastico, attese le sue molteplici implicazioni simboliche; c) in relazione alla valenza non meramente materiale del crocifisso ma altamente simbolica ed inerente ai valori fondamentali di libertà, come dedotti dallo stesso ricorrente, la sua disciplina attiene alle norme generali sull’istruzione, di cui all’art. 117, comma 3, Cost.; il potere di adottare le decisioni in materia di atti normativi e l’adozione dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo spetta al Ministro e non all’organo dirigenziale (art. 4 d.lgs. n. 165/2001).

P.Q.M.

La Sezione esprime il parere che il ricorso vada respinto.

Il presidente della Sezione (Salvatore Rosa)
L’estensore (Armando Pozzi)
La segretaria d’Adunanza (Paola Sgreccia)