Sentenza 02 settembre 2005, n.17710
Corte di cassazione. Sezione I civile. Sentenza 2 settembre 2005, n. 17710: “Addebitabilità della separazione per eccessiva rigidità nell’educazione dei figli”.
(Omissis)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
M.F.P. conveniva in giudizio il marito F.P. proponendo giudizio di separazione con addebito. Con sentenza 11 luglio 2000 il Tribunale di Vicenza pronunciava la separazione dei coniugi, rigettando la domanda di addebito, e condannava il P. al versamento a favore della moglie di assegno mensile di lire 1.200.000 ed a favore della figlia R. di ulteriore assegno per lire 1.000.000.
La Corte d’appello di Venezia con sentenza 29 luglio 2002 accoglieva in parte l’appello della P. determinando l’assegno di mantenimento a favore di quest’ultima in lire 2.500.000 mensili.
Osservava la Corte che non sussistevano ragioni per la pronuncia di addebito della separazione al P. La P. ne aveva denunciato l’atteggiamento di sprezzante superiorità, frutto di carattere egocentrico; episodi di violenza verificatisi nel 1968; la durezza nei confronti del figlio N., schizofrenico, al cui tentativo di suicidio nel 1983 il P. non aveva creduto, prendendolo a “cinghiate”, mandandolo in collegio e costringendolo a dormire fuori casa dal 1987 al 1988. La Corte aveva ritenuto che non era provata la personalità prevaricatrice del P., che i fatti di violenza così come prospettati dalla stessa P. (un’episodica spinta nel 1968, ripetuta nel 1976) erano insufficienti a ritenere che vi fosse effettivamente stata violenza fisica in tanti anni di matrimonio, che anche la denunciata “persecuzione morale”, a fronte di un matrimonio protrattosi per 28 anni sino alla domanda di separazione del 1995 e da cui erano nati quattro figli, non si era tradotta in fatti rilevanti, posto che se la P., nel 1976 si era quasi determinata a chiedere la separazione, poi vi aveva rinunciato ed il matrimonio era proseguito per altri vent’anni.
Quanto al comportamento del P. nei confronti del figlio N. doveva ritenersi che, poiché soltanto recentemente la scienza medica aveva ricollegato la schizofrenia a motivi organici con possibilità di terapia farmacologica, quasi certamente il P. non aveva avuto piena contezza del male e, nel desiderio di riportare il figlio ad una condizione di vita normale, aveva in buona fede adottato un sistema educativo troppo rigido.
Per quanto concerneva l’assegno di mantenimento la Corte d’appello considerava che il P. aveva, secondo gli accertamenti compiuti dalla Guardia di Finanza, un volume d’affari quale avvocato di non meno di 340 milioni di lire annui con un reddito dichiarato di 160-180 milioni all’anno, ed era proprietario di sei immobili, sì da pervenire ad un reddito complessivo di non meno di 200 milioni netti annui. L’assegno di mantenimento poteva pertanto essere determinato nella misura indicata.
Ha proposto ricorso per cassazione la P. con cinque motivi, illustrati da memoria. Resiste con controricorso il P.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione dell’art. 151, comma 2, c.c. e difetto di motivazione. La Corte avrebbe errato nell’escludere il nesso di causalità tra i fatti di violenza verificatisi nel 1960 e 1976 e l’intollerabilità della convivenza, perché, a tutto concedere, tali fatti non potrebbero essere richiamati come causa esclusiva dell’addebito, assumendo rilevanza nella globale valutazione della condotta del P.
Con il secondo motivo la ricorrente lamenta violazione degli artt. 151, comma 2, 143 c.c., dell’art. 112 c.p.c. nonché difetto di motivazione.
Nel valutare la condotta del P. che si assumeva essere stata contraria ai doveri di assistenza morale, di fedeltà spirituale, di solidarietà, di collaborazione, oltre che lesiva dei diritti di libertà del pensiero e religiosa, ed il comportamento pregiudizievole nei confronti dei figli, la Corte di merito non avrebbe considerato le prove documentali emergenti dal memoriale redatto dalla ricorrente e dai documenti ad esso allegati (in particolare le numerose lettere delle figlie R. e S.), oltre che i capi di prova testimoniale non ammessi dal giudice di primo grado e riproposti in appello.
Sussisterebbe violazione dell’art. 112 c.p.c. perché la Corte di merito non avrebbe risposto alle censure della ricorrente, formulate con l’appello, con cui si doleva della mancata ammissione delle prove dedotte.
Ancora la Corte d’appello avrebbe errato nel qualificare come peculiarità caratteriali del P. le aggressioni, anche fisiche, nei confronti di moglie e figli, gli insulti e le denigrazioni. Non avrebbe inoltre preso in considerazione i fatti successivi alla separazione di fatto e all’autorizzazione del Tribunale a vivere separati, pur oggetto di deduzioni istruttorie. Sarebbe apodittica l’affermazione della Corte secondo la quale il comportamento del P. con il figlio N. sarebbe stato conseguenza della mancata comprensione della natura del male da cui quest’ultimo era affetto. In realtà il comportamento del P. era denigratorio non soltanto di N., ma di tutti i figli.
Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione degli artt. 2697 c.c. e 116 c.p.c. in ordine all’erronea valutazione delle istanze istruttorie nonché difetto di motivazione. La Corte d’appello, senza congrua motivazione, avrebbe dato rilevanza alle dichiarazioni rese dai testi indicati dal P. e svalutato la deposizione della teste A., madre della P., che aveva riferito, per averne avuto cognizione indiretta, dell’aggressione subita dalla figlia.
Con il quarto motivo la ricorrente deduce violazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 156, commi 1 e 2, c.c., dell’art. 5 l. 898/1970 nonché difetto di motivazione perché la Corte d’appello avrebbe omesso di disporre l’adeguamento automatico secondo gli indici Istat dell’assegno di mantenimento riconosciuto alla P.
Con motivazione illogica la Corte avrebbe determinato l’assegno considerando soltanto le risultanze delle indagini svolte dalla Guardia di Finanza, senza considerare le prove per testi e documenti offerte dalla ricorrente. I dati raccolti dalla Guardia di Finanza non sarebbero corretti e sarebbero viziati da errori.
Con il quinto motivo la ricorrente deduce violazione dell’art. 156, commi 1 e 2, c.c. nonché difetto di motivazione. Nel determinare l’assegno di mantenimento la Corte non avrebbe considerato i redditi effettivi del P., valutando il reddito degli immobili in soli 48 milioni di lire annui, non considerando il risparmio di spesa di cui il P. si avvantaggerebbe utilizzando immobili di proprietà per l’abitazione e lo studio professionale, non considerando infine l’incremento del reddito che il P. avrebbe certamente avuto dopo la separazione. L’assegno di lire 2.500.000 mensili sarebbe infine incongruo a fronte di un reddito annuo accertato non inferiore a lire 200 milioni netti.
2. I primi tre motivi di ricorso sono connessi e possono pertanto essere esaminati congiuntamente. Essi sono fondati.
Va premesso che è indubbio che costituisce violazione del dovere di assistenza morale e materiale sancito dall’art. 143, comma 2, c.c., oltre che del dovere di collaborazione nell’interesse della famiglia, tale da giustificare la pronuncia di addebito della separazione, la condotta del coniuge che si traduca in fatti di violenza nei confronti dell’altro coniuge ed in forme di persecuzione morale. Da tali corrette premesse ha mosso il suo ragionamento la Corte di merito che ha anche richiamato la giurisprudenza di questa Corte (Cassazione 8013/1990), che il Collegio condivide, secondo la quale al fine dell’addebitabilità della separazione, il comportamento di un coniuge, rivolto ad imporre i propri particolari principi e la propria particolare mentalità, può assumere rilevanza solo se si traduca in violazione dei doveri discendenti dal matrimonio, o comunque sia inconciliabile con i doveri medesimi, atteso che, in caso contrario, e per quanto detti principi o mentalità siano criticabili, si resta nell’ambito delle peculiarità caratteriali, le quali valgono a spiegare le difficoltà del rapporto, ed eventualmente l’errore originariamente commesso nella reciproca scelta, ma non integrano situazioni d’imputabilità della crisi, nel senso previsto dall’art. 151, secondo comma, c.c.
Il ragionamento seguito dalla Corte di merito per escludere che la ricorrente avesse fornito adeguata prova che i comportamenti del P. fossero stati causa dell’intollerabilità della convivenza è peraltro censurabile sotto diversi profili.
La Corte d’appello ha osservato che gli episodi di violenza fisica lamentati dalla ricorrente, che si sarebbero concretati in due spinte risalenti la prima al 1968 e la seconda al 1976, non possono essere stati causa dell’intollerabilità della convivenza, a fronte di un matrimonio che si è protratto sino al 1995, con la nascita di quattro figli. Ed ha ulteriormente affermato che i fatti, così come prospettati dalla ricorrente (le due spinte già ricordate), “escludono che vi sia stata effettivamente violenza fisica in tanti anni di matrimonio”.
Tale affermazione è manifestamente illogica. I giudici d’appello hanno infatti ritenuto che i fatti di violenza fisica denunciati – le due spinte risalenti al 1969 ed al 1976 – si sono effettivamente verificati, ma che essi non hanno avuto incidenza causale nel determinare l’intollerabilità della convivenza. Questa conclusione peraltro non poteva essere raggiunta sulla base del solo esame delle singole specifiche condotte prese in considerazione dalla Corte, valutate atomisticamente, in modo del tutto avulso da quello che, secondo la ricorrente, era stato l’atteggiamento complessivo del P. nell’intero arco di durata del matrimonio.
Così pure, per quanto concerne i fatti che integrerebbero, per usare l’espressione impiegata dalla sentenza impugnata, la “persecuzione di ordine morale” posta in essere dal P. in danno della P., la Corte d’appello afferma che non sarebbe dimostrato che “tale fosse l’atteggiamento” del controricorrente. Ciò in quanto gli episodi riferiti sarebbero del tutto sporadici, non provati, anteriori al 1976, anno in cui la P. si era determinata a chiedere la separazione per poi recedere dall’intento, irrilevanti sul piano del nesso di causalità con l’intollerabilità della convivenza manifestatasi in un matrimonio durato 28 anni ed allietato dalla nascita di quattro figli.
Nel pervenire a tale conclusione la corte di merito non ha motivato specificamente sui fatti esposti dalla ricorrente, non ha esaminato i documenti prodotti e la loro rilevanza, non ha preso in considerazione le istanze istruttorie formulate e nuovamente ha esaminato i fatti in termini sintetici e riassuntivi, senza in alcun modo valutare la vicenda nel suo complesso, senza considerare i fatti di violenza dedotti e la lamentata persecuzione morale in un unico contesto, in relazione alla loro idoneità a fondare l’intollerabilità della convivenza.
Ad analoghe conclusioni si deve pervenire per quanto concerne le doglianze della ricorrente in ordine all’atteggiamento assunto dal P. nei confronti dei figli. La Corte d’appello ha ritenuto che l’atteggiamento del P. nei confronti del figlio N., affetto da schizofrenia, fosse dovuto alla mancata comprensione della natura della malattia ed alla convinzione che un atteggiamento educativo rigido potesse essere salutare. Ha aggiunto che la ricorrente non aveva formulato doglianze in ordine al comportamento del marito nei confronti degli altri figli.
In proposito va premesso che il dovere che entrambi i coniugi hanno di mantenere, istruire ed educare la prole, sancito dall’art. 147 c.c., non impone obblighi soltanto nei confronti dei figli, ancorché costoro siano ovviamente i primi beneficiari del dovere stabilito dal legislatore a carico dei coniugi. L’art. 144 stabilisce infatti l’obbligo per i coniugi di concordare tra di loro l’indirizzo della vita familiare, sì che le scelte educative e gli interventi diretti a risolvere i problemi dei figli non possono che essere adottati d’intesa tra i coniugi. Un atteggiamento unilaterale, sordo alle valutazioni ad alle richieste dell’altro coniuge, a tratti violento ed eccessivamente rigido, può tradursi, oltre che in una violazione degli obblighi del genitore nei confronti dei figli, anche nella violazione dell’obbligo nei confronti dell’altro coniuge di concordare l’indirizzo della vita familiare e, in quanto fonte di angoscia e dolore per l’altro coniuge, nella violazione del dovere di assistenza morale e materiale sancito dall’art. 143 c.c. Ove tale condotta si protragga e persista nel tempo, aprendo una frattura tra un coniuge e i figli ed obbligando l’altro coniuge a schierarsi a difesa di costoro, essa può divenire fonte d’intollerabilità della convivenza e rappresentare, in quanto contraria ai doveri che derivano dal matrimonio sia nei confronti del coniuge che dei figli in quanto tali, causa di addebito della separazione ai sensi dell’art. 151, comma 2, c.c.
Nel caso in esame la Corte d’appello ha considerato con motivazione assolutamente apodittica, che non fa alcun riferimento alle risultanze istruttorie di causa, che il comportamento del P. nei confronti del figlio N., schizofrenico, comportamento rigido, duro (il figlio è stato preso a “cinghiate”, è stato allontanato di casa), fosse derivato dalla mancata comprensione del fatto che il figlio era malato. Tale valutazione è apodittica perché non spiega da quali elementi i giudici d’appello abbiano tratto la convinzione che il P. in tanti anni non avesse compreso che N. era schizofrenico e dunque malato, ed è illogica perché fa discendere l’incomprensione della natura della malattia dal fatto che soltanto in tempi recenti la scienza medica avrebbe ricondotto la schizofrenia a cause organiche, come se la circostanza che potesse trattarsi di una malattia mentale potesse giustificare il severo comportamento del P.
Va poi aggiunto che la Corte d’appello ancora non ha considerato la condotta del controricorrente nei confronti degli altri figli, rispetto ai quali la ricorrente aveva dedotto l’esistenza di comportamenti analoghi a quelli tenuti verso N., sfociati nello allontanamento da casa e nel rifiuto dei figli di tornarvi. Affermano i giudici d’appello che la ricorrente non avrebbe sollevato censure in proposito, ma l’affermazione è palesemente errata perché è sufficiente scorrere l’atto d’appello e le deduzioni istruttorie riportate nelle conclusioni definitive sottoposte alla Corte di merito, per verificare che al contrario l’appello riguardava anche la condotta del P. nei confronti degli altri tre figli.
Va infine sottolineato, per quanto concerne le doglianze della ricorrente in ordine alla condotta tenuta dal P. nel tempo immediatamente successive alla separazione, che questa Corte ha affermato che una volta accertati i presupposti oggettivi per la pronuncia della separazione, e cessata di fatto la convivenza, non possono logicamente più assumere rilievo i comportamenti successivi del coniuge separato, anche se, in ipotesi, idonei a giustificare una dichiarazione di addebitabilità, posto che l’addebito trova la sua collocazione esclusivamente nel quadro della separazione, come responsabilità causativa dell’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, e non ha quindi ragion d’essere allorché la convivenza è cessata (Sezione prima, 6566/1991, rv. 506098).
La Corte di merito peraltro non ha in alcun modo preso in esame il comportamento tenuto dal P. dopo la separazione, comportamento che secondo la ricorrente si sarebbe tradotto in iniziative inutilmente persecutorie nei confronti della medesima e dell’anziana suocera. Tale condotta avrebbe dovuto essere valutata, procedendo ove necessario all’ammissione delle prove in proposito dedotte dalla ricorrente, ai fini di ricostruire la personalità e l’atteggiamento complessivo del P. nei confronti della P., e quindi come elemento rilevante non di per sé, ma nel quadro complessivo della condotta tenuta dal P. in costanza di matrimonio. In altri termini il comportamento del coniuge successivo alla separazione, soprattutto nei tempi immediatamente prossimi, va considerato non di per se, perché esso è certamente privo di efficacia autonoma nel determinare l’intollerabilità della convivenza, ma perché può costituire una conferma del passato e quindi illuminare sulla condotta pregressa, questa sì rilevante ai fini del giudizio di addebitabilità.
3. Il quarto ed il quinto motivo di ricorso sono inammissibili.
Con la prima parte del quarto motivo la ricorrente lamenta che la Corte d’appello avrebbe omesso di pronunciare l’adeguamento automatico dell’assegno di mantenimento con riferimento agli indici di svalutazione monetaria.
Così non è. La Corte d’appello ha riformato la sentenza di primo grado, determinando l’assegno di mantenimento in lire 2.500.000, ora euro 1.291,14. Essa non ha peraltro modificato le restanti statuizioni della sentenza di primo grado, che, come risulta dalla stessa sentenza impugnata (p. 13), prevedeva che l’assegno fosse annualmente rivalutabile secondo gli indici Istat, con versamenti da effettuarsi presso il domicilio della P. entro il giorno dieci del mese. Sul punto pertanto la doglianza è manifestamente infondata.
Per quanto concerne i restanti profili del quarto motivo ed il quinto motivo va detto che con valutazione complessiva la Corte di merito ha considerato le risultanze dell’istruttoria esperita, dando particolare valore agli accertamenti sul reddito del P. effettuati dalla Guardia di Finanza ed implicitamente non considerando determinanti le dichiarazioni del teste F. in ordine al fatto che egli cambiava assegni alla P. una volta alla settimana per importi nell’ordine di 1 milione, 1 milione e mezzo di lire.
Invero quando il vizio di motivazione fatto valere con il ricorso per cassazione riguarda la mancata considerazione di elementi di fatto potenzialmente rilevanti non in se stessi, ma quali fonti di prova di fatti costitutivi, estintivi o modificativi, la valutazione circa la sussistenza del requisito della adeguata incidenza causale della presunta lacuna nella motivazione deve tenere conto del principio secondo cui il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento dalle risultanze probatorie che ritenga più attendibili ed idonee, essendo sufficiente, ai fini della congruità della relativa motivazione, che risulti che l’accertamento dei fatti si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti al giudizio, considerati nel loro complesso, la quale non richiede la discussione di ogni singolo elemento o la confutazione di tutte le deduzioni difensive (cfr. ex multis, Cassazione 5235/2001; Cassazione, 6765/2002).
Sono poi inammissibili, in quanto dirette a proporre in questa sede una diversa valutazione delle risultanze di prova rispetto a quella ritenuta attendibile dalla Corte di merito, le censure con cui la ricorrente lamenta presunti errori nei conteggi effettuati dalla Corte per determinare l’ammontare del reddito del P.
Ancora, è generica la censura con cui si lamenta che la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto del potenziale incremento di reddito del P. negli anni a venire, perché non sorretta da preciso riferimento alle circostanze di fatto che dovrebbero suffragare tale assunto.
4. In accoglimento dei primi tre motivi la sentenza impugnata va pertanto cassata sul punto con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Venezia, che pronuncerà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibili il quarto ed il quinto motivo; accoglie i primi tre motivi; cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte d’appello di Venezia.
Autore:
Corte di Cassazione - Civile
Dossier:
Famiglia e Religione
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Matrimonio, Libertà religiosa, Educazione, Separazione, Famiglia, Addebito, Figli, Violenze, Prole, Intollerabilità della convivenza, Assistenza morale e materiale
Natura:
Sentenza