Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 26 Luglio 2005

Sentenza 26 febbraio 2002, n.9378

Corte di Cassazione. Sezione II. Sentenza 26 febbraio 2002, n. 9378: “Controllo statale sugli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione”.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRANCO PONTORIERI – Presidente –
Dott. ANTONIO VELLA – Consigliere –
Dott. ANTONINO ELEFANTE – Consigliere –
Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO – rel. Consigliere –
Dott. UMBERTO GOLDONI – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
AZIENDA AGRARIA FLLI BRUNI SDF, in persona dei Contitolari ROBERTO e FRANCESCO BRUNI, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI GRACCHI 130, presso lo studio dell’avvocato TERESINA T. MACRÌ, difesi dall’avvocato ARNALDO ARATUCCI, giusta delega in atti;- ricorrenti –

contro

IST DIOCESIANO SOSTENTAMENTO CLERO IDSC, in persona del legale rappresentante pro tempore;- intimato –

e sul 2^ ricorso n^. 23316/99 proposto da:
IST DIOCESANO SOSTENTAMENTO CLERO DIOCESI DI AREZZO CORTONA e SANSEPOLCRO, in persona del legale rapp.te p.t., elettivamente domiciliato in ROMA VIA G CARDUCCI 4, presso lo studio dell’avvocato ALBERTO BRUNI, che lo difende, giusta delega in atti;
– ricorrente –

contro

AZIENDA AGRARIA FLLI BRUNI SDF, in persona dei contitolari ROBERTO e FRANCESCO BRUNI, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI GRACCHI 130, presso lo studio dell’avvocato TERESINA TITINA MACRÌ, difesi dall’avvocato ARNALDO AMATUCCI, giusta delega in atti;- controricorrenti al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 744/99 della Corte d’Appello di FIRENZE, depositata il 21/06/99;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/02/02 dal Consigliere Dott. Lucio MAZZIOTTI DI CELSO;
udito l’Avvocato LO MASTO Salvatore, per delega dell’Avv. BRUNI depositata in udienza, difensore del resistente che si riporta agli atti depositati;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Raffaele CENICCOLA che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Fatto

Con citazione 7/7/95 la Sdf. F.lli Bruni esponeva: che aveva stipulato. con il legale rappresentante del Beneficio Parrocchiale S. Ippolito in Bibbiena, un preliminare per l’acquisto di un terreno la cui vendita era stata espressamente condizionata all’autorizzazione dell’autorità tutoria ex L. 848/29; che a seguito dell’entrata in vigore della L. 222/85 era venuta meno la condizione prevista, non essendo più necessaria l’autorizzazione alla stipula della compravendita, per cui poteva addivenirsi all’atto definitivo; che le sue richieste in tal senso non erano state accolte. La società attrice, quindi, conveniva in giudizio l’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero (IDSC) della Diocesi Arezzo-Cortona- Sansepolcro chiedendo la pronuncia di sentenza ex articolo 2932 c.c., ovvero la condanna del convenuto a comparire innanzi al notaio per la stipula dello stesso.
L’Istituto convenuto, costituitosi, chiedeva che l’azione proposta fosse dichiarata improponibile o fosse dichiarato prescritto il diritto dell’attrice con la condanna di quest’ultima a restituire il terreno in questione e a risarcire i danni per l’abusiva occupazione o a corrispondere il canone relativo.
L’adito tribunale di Arezzo – rilevato che la condizione prevista nel preliminare era venuta meno per effetto della modifica normativa introdotta dalla L. 222/85 e che però il diritto dell’attrice alla conclusione del contratto definitivo era prescritto – dichiarava la relativa prescrizione e rimetteva le parti in istruttoria per l’ulteriore trattazione della causa. Avverso tale pronuncia proponevano impugnazione principale la F.lli Bruni e incidentale l’IDSC.
La corte di appello di Firenze, con sentenza 21/6/1999, rigettava i gravami osservando: che il diritto all’acquisto poteva essere fatto valere con l’entrata in vigore della legge che aveva abrogato l’autorizzazione dedotta come condizione di efficacia, per cui il contratto preliminare era divenuto efficace il 3/6/1985; che il detto diritto non era stato esercitato per oltre dieci anni in quanto la notifica della citazione introduttiva del giudizio era avvenuta nel luglio 1995; che nell’atto di impugnazione l’appellante principale non aveva contestato il termine iniziale della prescrizione indicato dal tribunale ma aveva ribadito sia che la prescrizione era stata interrotta da numerosi solleciti sia che l’intimazione all’adempimento risultava dalla lettera 16/1/1995 inviata al Vescovo di Arezzo e dalla risposta dello stesso del 6/4/l995; che nella lettera 16/1/1995 non era possibile ravvisare un atto valido a costituire in mora il debitore perché questo non era il Vescovo e perché, comunque, il tono della missiva era quello adoperato da chi sollecita un intervento e non da chi intende mettere in mora; che ciò valeva anche per la successiva lettera di Bruni Roberto del 4/4/1995; che i “numerosi solleciti” richiamati nell’atto di appello non erano idonei ad interrompere la prescrizione trattandosi di solleciti verbali; che nelle conclusioni e in comparsa conclusionale la difesa Bruni aveva ribadito la tesi, già prospettata in primo grado, relativa al temine iniziale dell’eccepita prescrizione da individuare non al momento dell’entrata in vigore della L. 222/85. bensì a quello dell’entrata in vigore del regolamento esecutivo; che tale tesi era stata respinta dal primo giudice e, non essendo stata riproposta nell’atto di impugnazione, doveva intendersi abbandonata; che, in ogni caso, le argomentazioni di cui alla sentenza impugnata – contro le quali nessuna specifica deduzione aveva proposto l’appellante – erano da condividere, che, come puntualizzato dal tribunale, il preliminare era stato stipulato dal rappresentante legale dell’ente promittente venditore la cui volontà, al momento della conclusione del contratto, non era subordinata alla autorizzazione di altri organi ecclesiastici; che le nuove regole al riguardo erano intervenute a contratto preliminare già concluso; che pertanto, al contrario di quanto sostenuto dall’appellante incidentale, la volontà dell’ente era stata validamente manifestata posto che la legislazione precedente al 1985 prevedeva la preventiva approvazione dell’autorità vescovile nella specie resa contestualmente all’atto; che all’epoca non era previsto un diverso inter formativo di detta volontà.
La cassazione della sentenza della corte di appello di Firenze è stata chiesta, con ricorso affidato ad un unico motivo, dall’Azienda Agraria F.lli Bruni Sdf. L’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero della Diocesi di Arezzo, Cortona e Sansepolcro ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale sorretto da un solo motivo. La F.lli Bruni ha resistito con controricorso al ricorso incidentale. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

Il ricorso principale e quello incidentale vanno riuniti a norma dell’articolo 335 c.p.c..
In via logica deve essere esaminato con precedenza – per il suo carattere eventualmente assorbente – il ricorso incidentale. Occorre al riguardo osservare che nella giurisprudenza di questa Corte è stato più volte affermato il principio secondo cui il ricorso incidentale per cassazione, condizionato o meno, con il quale la parte interamente vittoriosa nel merito (nella specie l’IDSC) riproponga questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito decise in senso a lei sfavorevole, deve essere esaminato, in sede di giudizio di legittimità, prima del ricorso principale proposto dalla parte soccombente (ed indipendentemente da ogni valutazione sulla fondatezza di quest’ultimo), sorgendo l’interesse che lo rende ammissibile dalla stessa proposizione del detto ricorso principale e dalla conseguente incertezza della vittoria nel merito (in tal senso, tra le tante, sentenze 25/5/2001 n. 7127; 23/5/2001 n. 212; 3/4/1999 n. 3272).
Con l’unico motivo del ricorso incidentale l’IDSC denuncia:
violazione e falsa applicazione degli articoli 9 e 11 L. 27/5/1929 n. 848, della L. 20/5/1985 n. 222, dell’articolo 11 Statuto dell’IDSC della Diocesi di Cortona, Arezzo e Sansepolcro; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Deduce l’Istituto ricorrente incidentale che, con l’entrata in vigore della L. 22/1985 e con il venir meno del Beneficio Parrocchiale, la corte di appello avrebbe dovuto applicare le nuove regole di formazione della volontà per la vendita dei beni ecclesiastici introdotte con la normativa sopravvenuta con riferimento, in particolare. all’articolo 11 dello Statuto dell’Ente relativo alla necessità di una delibera del consiglio di amministrazione dell’Istituto Diocesano, all’autorizzazione dell’autorità vescovile, al parere del consiglio degli affari economici e del collegio dei consultori. Contrariamente a quanto affermato nella decisione impugnata, il consenso del Vescovo non è formalmente intervenuto attraverso un atto scritto o nella “sostanza”, non avendo il sottoscrittore del preliminare (Don Pendolesi quale direttore dell’ufficio amministrativo della curia vescovile di Arezzo) informato il Vescovo dello stipulando preliminare di vendita: pertanto non si è verificata la condicio iuris prevista e dedotta nel preliminare da dover ritenere invalido. Il motivo è infondato.
Le modifiche apportate al concordato tra lo Stato Italiano e la Santa Sede (mediante l’accordo firmato il 18/2/1984 e per effetto della L. 121/1985 di ratifica ed esecuzione) hanno soppresso ogni ingerenza dello Stato nell’amministrazione dei beni appartenenti agli enti ecclesiastici per cui è venuta meno con effetto immediato la disciplina del controllo dello Stato sugli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione dei patrimoni beneficiati (ora soppressi) ex articolo 30 del concordato del 1929 ed ex articoli 12 e 13 14 legge 27/5/1929 n. 848 e 23 r.d. 2/12/1929 n. 2262.
A questi principi (affermati da questa Corte nella sentenza 12 maggio 1993, n. 5418) si è correttamente attenuto il giudice di appello confermando la decisione del tribunale il quale aveva affermato che, con l’entrata in vigore della L. 222/1985 e con il venir meno della necessità della prevista autorizzazione, il contratto preliminare era divenuto pienamente efficace non essendo più operativo l’ostacolo giuridico della condicio iuris rappresentata dalla detta autorizzazione.
La corte di appello ha poi ineccepibilmente posto in evidenza che nel preliminare la volontà dell’ente era stata compiutamente e validamente espressa dal suo legale rappresentante (oltre che, in rappresentanza della curia vescovile di Arezzo, dal direttore dell’ufficio amministrativo di detta curia) e che non era all’epoca necessaria l’autorizzazione di altri organi ecclesiastici (in particolare degli organi dell’Istituto Diocesano di cui all’articolo 11 dello statuto dell’ente) per cui andava riconosciuta la piena efficacia del contratto in questione non essendo operative condizioni sospensive di efficacia in sostituzione di quella precedente abrogata e non essendo applicabile un diverso iter formativo della volontà dell’ente previsto in leggi entrate in vigore dopo la stipula del preliminare.
Con l’unico motivo del ricorso principale la Sdf. F.lli Bruni denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto, nonché insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, con riferimento agli articoli 13 L. 810/29, 52 L. 222/85, 1219, 1362 e seguenti, 2934 e seguenti e 2697 e seguenti c.c. Deduce la ricorrente principale che la prescrizione del diritto azionato non decorre dall’entrata in vigore della L. 222/85 – come erroneamente ritenuto dalla corte di appello – perché, secondo quanto disposto dall’articolo 52 di detta legge, sino al 31/12/1986 era conservata la validità della disciplina precedente e, quindi, restavano operanti gli effetti sospensivi previsti nel preliminare in relazione all’approvazione da parte della autorità governativa, con differimento dei nuovi adempimenti all’1/1/1987. Il giudice di secondo grado, peraltro, non ha considerato che il momento iniziale di efficacia della L. 222/85 è quello di erezione dell’IDSC avvenuta il 30/4/1987. Del pari ha errato la corte di merito nell’affermare che il Vescovo non è autorizzato a ricevere atti di messa in mora:
ciè è contrario sia all’ordinamento ecclesiastico che qualifica il Vescovo rappresentante legale della Curia, sia alla giurisprudenza di legittimità che ha più volte asseverato la rappresentanza legale del Vescovo o dell’Ordinario Diocesano. La corte fiorentina ha altresì trascurato che l’atto di dissenso è stato firmato dal Vescovo nella qualità di presidente dell’IDSC. Inoltre il giudice di appello, in relazione alla costituzione in mora, ha richiamato due delle lettere prodotte travisandone il significato con violazione delle regole ermeneutiche. Infine la sentenza impugnata ha risolto il problema della prescrizione come se l’onere della prova gravasse su essa ricorrente e non invece sull’IDSC che aveva sollevato la relativa eccezione.
Le dette censure sono in parte inammissibili e in parte infondate.
Dalla lettura della sentenza impugnata risulta che l’atto di appello proposto dalla Sdf. F.lli Bruni avverso la decisione di primo grado – con la quale il termine iniziale della prescrizione eccepita dall’ente convenuto era stato individuato nel giorno (1/6/1986) dell’entrata in vigore della legge 222/1985 – riguardava esclusivamente la questione dell’interruzione della prescrizione per effetto di numerosi solleciti.
Ciò posto è evidente l’inammissibilità delle censure mosse dalla società ricorrente concernenti la data di inizio della prescrizione in questione (indicata dalla F.lli Bruni nel 31/12/1986 o nel 30/4/1987) trattandosi di problematiche non proponibili in questa sede di legittimità in quanto, non essendo state inserite nei motivi di appello, introducono per la prima volta un autonomo e diverso sistema difensivo che postula indagini e valutazioni non compite dal giudice del merito perché non ritualmente richieste. È infatti pacifico nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo cui i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, statuizioni e problematiche che abbiano formato oggetto del giudizio di appello per cui non possono essere prospettate questioni nuove o nuovi temi di indagine involgenti accertamenti non compiuti perché non richiesti in sede di merito. Il giudizio di cassazione ha per oggetto la revisione della sentenza impugnata in relazione alla regolarità formale del processo ed agli aspetti in diritto segnalati e non sono proponibili temi di contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di secondo grado ed involgenti accertamenti non compiuti in detto giudizio, tranne nell’ipotesi – che non ricorre nella specie – in cui si tratti di questioni rilevabili di ufficio (in ogni stato e grado del giudizio) fondate però sugli stessi elementi di fatto esposti e la cui soluzione non presupponga o non richieda nuovi accertamenti ed apprezzamenti di fatto (sentenze 15/4/1999 n. 3737; 5/10/1998 n. 9882).
E poi del tutto irrilevante, come correttamente evidenziato nell’impugnata sentenza, che la difesa della società Bruni in sede di precisazione delle conclusioni e nella comparsa conclusionale abbia ribadito le tesi sviluppate in primo grado in ordine al termine iniziale dell’eccepita prescrizione.
Il prevalente indirizzo giurisprudenziale di questa Corte, che merita piena adesione. è nel senso – dopo alcune incertezze ormai da ritenersi superate – che l’appellante, a differenza dell’appellato che non sia a sua volta appellante incidentale, deve prospettare tutte le censure. ivi comprese quelle che attengono a mere eccezioni, con l’atto di appello e nulla può aggiungere in prosieguo in quanto il diritto di impugnazione si consuma con il detto atto che fissa i limiti della devoluzione della controversia in sede di gravame in conseguenza dell’operatività della regola della specificità dei motivi. L’articolo 345 c.p.c., anche nel testo previgente che consentiva alle parti di proporre nuove eccezioni in appello. deve infatti essere interpretato in collegamento con l’articolo 342 c.p.c. che pone la regola della specificità dei motivi di gravame, i quali svolgono la funzione di delimitare l’estensione del riesame e di indicarne le ragioni: pertanto l’eccezione tesa alla riforma della sentenza impugnata, risolvendosi nella esplicazione del diritto di impugnazione, può essere proposta solo nell’atto di appello e non anche nell’ulteriore corso del giudizio di gravame (nei sensi suddetti, tra le tante, sentenze 12/9/2000 n. 12024; 16/11/1999 n. 12669; 18/3/1999 n. 2443; 29/8/1997 n. 8929; 20/6/1996 n. 5690; 27/10/1995 n. 11193; 21/10/10995 n. 10958; 1/2/1995 n. 1141). Né nella specie può ritenersi applicabile l’articolo 346 c.p.c. posto che detta norma presuppone il difetto di soccombenza laddove la tesi della società ricorrente in ordine alla data di inizio del termine prescrizionale è stata espressamente esaminata e rigettata dal giudice di primo grado. La parte soccombente – ossia la Sdf. F.lli Bruni – era tenuta a provocare il riesame di tale tesi difensiva manifestando in maniera chiara e precisa la volontà di riproporla con l’atto di appello avverso la decisione sfavorevole. Non avendo formato oggetto dei motivi sviluppati nell’atto di gravame, alla corte di appello era precluso l’esame delle censure al riguardo mosse solo in sede di precisazione delle conclusione e nella comparsa conclusionale: l’omesso inserimento di tali censure nell’atto introduttivo del giudizio di appello ha determinato l’acquiescenza della parte soccombente per la parte non impugnata della decisione di primo grado relativa al termine iniziale della prescrizione.
Sono invece infondate le censure relative alla parte della sentenza impugnata concernente l’inesistenza di atti idonei ad interrompere il decorso del termine prescrizionale. La corte di appello sul punto ha affermato che i numerosi solleciti rivolti dalla F.lli Bruni al Vescovo di Arezzo – oltre a non essere stati indirizzati al debitore, essendo il Vescovo privo di potere decisionale nei confronti dell’IDSC – non potevano valere come atti di messa in mora tenuto conto del loro contenuto volto a sollecitare solo un “rispettoso” intervento.
Al riguardo è appena il caso di rilevare che, come più volte affermato da questa Corte, affinché un atto possa acquisire efficacia interruttiva della prescrizione, a norma dell’articolo 2941 c.c., esso deve contenere anche l’esplicitazione di una pretesa, vale a dire una intimazione o richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto nei confronti del soggetto passivo, con l’effetto di costituirlo in mora: l’accertamento di tale requisito oggettivo (non ravvisabile in semplici sollecitazioni prive del carattere di intimazione e di espressa richiesta formale al debitore) costituisce indagine di fatto riservata al giudice del merito non sindacabile in sede di legittimità se immune da vizi logici e congruamente motivata (sentenze 24/9/1999 n. 10504; 13/5/1999 n. 4749; 27/6/1996 n. 5939; 19/1/995 n. 563).
Nella specie la corte di merito ha coerentemente proceduto alla interpretazione del contenuto delle dette missive, per poi giungere alle conclusioni sopra riportate.
Il giudice di appello ha valutato il significato letterale e logico delle espressioni adoperate nelle lettere in questione ed ha ampiamente giustificato tale valutazione.
Il procedimento logico-giuridico sviluppato nell’impugnata decisione è ineccepibile, in quanto coerente e razionale, ed il giudizio di fatto in cui si è concretato il risultato
dell’interpretazione, è fondato su un’indagine condotta nel rispetto dei comuni canoni di ermeneutica e sorretto da motivazione adeguata e corretta.
Sotto altro aspetto bisogna rilevare che la società ricorrente denuncia l’errata interpretazione (o l’omesso esame) di documenti (lettere prodotte) senza riportare il contenuto specifico e completo di tali documenti il che non consente di ricostruirne – alla luce esclusivamente di alcune isolate parti – il senso complessivo. Ciò impedisce a questa Corte di valutare – sulla base delle sole deduzioni contenute in ricorso – l’incidenza causale del denunciato difetto di motivazione e la decisività dell’errore commesso dalla corte di appello nell’operazione interpretativa.
Deve quindi ritenersi corretta l’operazione ermeneutica compiuta dal giudice del merito: la ricorrente pur se sostiene la violazione degli articoli 1362 e seguenti c.c. – svolgendo al riguardo generiche argomentazioni e senza evidenziare il modo in cui la corte di appello si sarebbe discostata dai canoni interpretatativi legali – ha inteso essenzialmente censurare il “risultato” interpretativo raggiunto il che è inammissibile in questa sede.
Per quanto riguarda infine l’asserita violazione dell’articolo 2697 c.c. basta richiamare la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale – contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente – l’onere probatorio del convenuto che eccepisca la prescrizione del diritto azionato nei suoi confronti è assolto con la deduzione del decorso del tempo anteriormente all’atto di citazione: l’eccezione di prescrizione comporta l’implicita negazione della ricezione di atti interruttivi che, pertanto, deve essere provata dal creditore. Se però l’attore dimostri di aver tempestivamente interrotto il corso della prescrizione, torna a gravare sul convenuto l’onere della prova della tardività dell’atto di costituzione in mora. L’interruzione della prescrizione, in replica all’eccezione di prescrizione formulata dal debitore, configura una controeccezione mirante a paralizzare l’eccezione avversaria, assimilabile alle eccezioni in senso stretto, e pertanto il controeccipiente ha l’onere non solo di provare i fatti su cui si fonda, ma anche di dedurti non potendo essere rilevata dal giudice neppure se la prova del fatto è acquisita al processo (in tali sensi, tra le tante. sentenze 17/5/2001 n. 6759; 4/8/1997 n. 7189; 19/12/1980 n. 6568). La sentenza impugnata è pienamente conforme ai detti principi per cui si sottrae alla critica di cui è stata oggetto: del tutto insussistente è infatti la denunciata violazione dell’articolo 2697 c.c..
In definitiva devono essere rigettati sia il ricorso principale che quello incidentale.
Per la sussistenza di giusti motivi le spese del giudizio di legittimità vanno compensate tra le parti.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.