Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 15 Maggio 2005

Sentenza 06 maggio 1965, n.1059

Corte di Appello di Roma. Sezione I penale. Sentenza 6 maggio 1965.

N. 1534/63 Reg. Appelli N. 1059/64 Reg. ins. sent.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La prima sezione penale della Corte di Appello di Roma, composta dai signori;

MAZZA Dott. Giuseppe – Presidente, SCHIFALACQUA Dott. Giuseppe, TRECAPELLI Dott. Andrea, LENER Dott. Raffaele, DE BIASE Dott. Federico – Consiglieri.
con l’intervento del Pubblico Ministero rappresentato dal sostituto procuratore Generale della Repubblica Sig. BATTIATI Dott. Giuseppe e con l’assistenza del cancelliere Russo Antonio ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nella causa penale a carico di:

PASOLINI Pier Paolo di Carlo e di Colussi Susanna, nato a Bologna il 5/3/1922, domiciliato in Roma, Via Giacinto Carini n. 45 – ora in Via Eufrate n.9 – EUR, libero contumace

appellante
contro la senteza del Tribunale di Roma, in data 7/3/1963 con la quale il Pasolini fu dichiarato colpevole della imputazione di vilipendio della religione dello Stato (art. 402 C.P.) e, con la concessione delle attenuanti generiche, condannato alla pena di mesi 4 di reclusione. Pena sospesa per anni 5.
Reato commesso in Roma nel febbraio 1963.
Udita la relazione del consigliere LENER Dott. Raffaele, osserva:

IN DIRITTO E IN FATTO

Il 19/2/1963 del cinema Tor Lupara sito in Mentana di Roma venne proiettato per la prima volta in Italia, il film ROGOPAG, un episodio del quale, intitolato La Ricotta aveva per soggettista e regista Pasolini Pier Paolo.
L’episodio in questione si inizia con un appello scritto e letto dallo stesso autore del seguente tenore: “coloro che si sentiranno colpiti cercheranno di far credere che l’oggetto della mia polemica sono quella storia e quei testi di cui ipocritamente si ritengono difensori.
Niente affatto: a scanso di equivoci di ogni genere, voglio dichiarare che la storia della Passione è la più grande che io conosca, e i testi che la raccontano i più sublimi che siano mai stati scritti”.
La trama dell’episodio La Ricotta è la seguente:
Alla periferia di Roma si gira un film storico-biblico. Mentre il regista – Orson Welles – se ne sta sulla sua poltrona e impartisce gli ordini per la scena della crocifissione, un povero lavorante, che nel film ha il nome di Stracci, cerca, fra una pausa e l’altra della lavorazione, di mangiare la sua ricotta. Deriso da tutti, famelico, si riempie la pancia, altroch* della ricotta, che ha potuto acquistare, vendendo per mille lire il cagnetto di un’attrice, di tutto quello che gli altri gli danno. Crocifisso quale buon ladrone per la scena del Golgota, al momento dell’inizio dell’azione lo trovano morto.
L’episodio si chiude con il commento sul tragico fatto dal regista: “Povero Stracci, la sua morte è stata il suo modo di fare la rivoluzione”.
Proiettatosi il film il 26 febbraio 1963 nel cinema Corso di Roma, dopo qualche giorno il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma promuoveva contro il Pasolini azione penale ai sensi dell’art. 402 C.P., e ordinava il sequestro della pellicola, ritenendo che l’autore, con il pretesto di descrivere una ripresa cinematografica, avesse rappresentato alcune scene della Passione di Cristo, dileggiandone la figura e i valori con il commento musicale (twist e cha-cha-cha), la mimica (riso sguaiato del Cristo in risposta ai lamenti della Madonna); il dialogo (grido di “cornuti, cornuti” e di “via i crocifissi” ripetuti più volte, anche da parte di un cane) ed altre manifestazioni sonore. Tratto a giudizio per direttissima davanti al tribunale di Roma, al dibattimento l’imputato negava di avere mai avuto l’intenzione di offendere la religione cattolica e dichiarava che la parte religiosa del film rappresentava solo la cornice, indispensabile per far risaltare la religiosità semplice ed istintiva di uno Stracci, cioè di un invidividuo ai margini della società, nei confronti di altri atteggiantesi a superuomini, che a nulla credono, e per nulla hanno rispetto, all’infuori del proprio tornaconto personale.
Anche il produttore del film, Bini Alfredo, rendeva dichiarazioni analoghe, e spiegava che Pasolini aveva inteso trattare la posizione di quegli uomini che, vivendo ai margini della società, ancora non ne hanno subito il condizionamento.
Il Tribunale di Roma con sentenza 7 marzo 1963 riteneva l’imputato colpevole del reato ascrittogli e, in concorso di attenuanti generiche, lo condannava alla pena di mesi quattro di reclusione, condizionalmente sospesa.
Appello dei difensori:
Rilevano che si è compiuto un arbitrario sezionamento del film, e se ne è giudicata una parte avulsa dall’intero contesto, e soprattutto dal significato generale; che è mancato un adeguato approfondimento del problema del dolo, trascurando di accertare la vera intenzione espressa nel film dall’autore, che sempre arbitrariamente il giudizio avrebbe trasceso dal significato “genericamente blasfemo” a un supposto contenuto di vilipendio; che, trattandosi di simboli occasionalmente allestiti per il film (i legni, la corona e i vari personaggi) e non per il cult, non avrebbesi in essi dovuto ravvisare i vari simboli della religione cattolica. Chiedono gli appellanti l’assoluzione con formula piena ed in subordine la rinnovazione del dibatttimento per sentire il parere di esperti e competenti. Tanto premesso quale narrazione dello svolgimento processuale, ritiene la Corte che l’appello sia fondato.
Invero, dal capo di imputazione si rileva che al Pasolini è stato contestato il reato di cui all’art. 402 C.P., per avere vilipeso la religione dello Stato, “rappresentando, con il prestesto di descrivere detta religione, alcune scene della Passione di Cristo, dileggiandone la figura e i valori con il commento musicale, la mimica, il dialogo, e le altre manifestazioni sonore, nonche’é tenendo per vili simboli e persone della religione cattolica.
Talché deve desumersene che il vilipendio della religione cattolica, imputato a Pasolini, non è stato concretato in atti, e parole che offendessero la religione cattolica, considerata in sé stessa, come credenza in qualcosa di superumano, nella propria essenza, nelle sue finalità, nelle sue affermazioni dogmatiche, nelle sue manifestazioni rituali, sibbene nel dileggiare la figura di Cristo e dei suoi valori, e nel tenere per vili simboli e persone della religione stessa.
Più precisamente la impugnata sentenza ha ravvisato gli estremi del reato contestato: nelle scene in cui accoppia al quadro vivente, che rappresenta La Deposizione del Rosso Fiorentino, in commento musicale a base di twist e di cha-cha-cha (moderni ballabili in voga); nelle scene in cui il volto del Cristo si contrae inopinatamente in una risata sguaiata, non appena la Madonna ha finito di profferire le parole della cantica di Fra Jacopone da Todi; nelle scene che riproducono, in un quadro vivente, La Passione del Pontormo, allorché, ancora una volta irrompe, quale commento musicale, un ballabile, è il Cristo, che doveva essere ritratto nell’atto di essere deposto sulla croce, malauguratamente rovina a terra, fra le risate delle comparse, che raffigurano gli altri personaggi del quadro, mentre sul crocifisso, sulla Madonna, sui Santi, ritratti di volta in volta in primo piano, si alza il grido di una voce fuori campo, di “cornuti, cornuti, cornuti”; nelle scene che rappresentano comparse sedute per mangiare sulle tre croci distese a terra; lo Stracci in croce che biascica voglioso: “ho fame”; lo striptease della comparsa che interpreta il personaggio della Maddalena, la quale finisce per mostrare discinta i seni nudi alle tre comparse inchiodate sulla croce; nelle scene in cui l’ordine pronunciato, con voce stanca e sommessa, dal regista, il quale deve interrompere la ripresa di una scena per soddisfare le esigenze di un’attrice “raccomandatissima”; “via i crocifissi”, viene ripetuto più volte, da facce diverse, e sembra trasformarzi nell’istanza di una società imbestialita contro il Cristo degli Altari, specialmente quando è ripetuta dal viso scomposto e arrabbiato di una donna, e perfino da un cane-lupo, inquadrandone il viso in primo piano, e fornendogli la voce arrochita di un uomo; infine, nella scena in cui lo Stracci, che viene ripreso in modo che una sua corsa si trasformi in una comica fuga alla Ridolini, si fa due volte il segno della croce, passando davanti a un’edicola sacra.
Come, dunque, appare chiaro, il vilipendio è stato riscontrato nella descrizione di ciò che avviene durante la ripresa di un film a soggetto sacro, e, più precisamente, nell’aver riprodotto le irriverenze, le sconcezze, gli atteggiamenti blasfemi, il turpiloquio a cui si abbandonano i registi, i loro aiutanti a dirigere e a interpretare le scene di un film in cui viene rappresentata “La Passione di Cristo”, partendo dal presupposto, come hanno ritenuto l’accusa e la sentenza impugnata, che tali scene non sarebbero state necessarie all’economia del film, e che il Pasolini avrebbe presto il “pretesto” di produrre un film, dal quale facesse parte la rappresentazione della Passione di Cristo, al solo scopo di potere irridere alla religione cattolica.
Senonché, la stessa sentenza impugnata ha rilevato: “nulla, dunque, da eccepire sulla trama del film, e, in definitiva, sul messaggio sociale in esso contenuto, così come lo ha inteso profilare e materializzare Pasolini, dando vita al suo personaggio protestatario”. Ciò posto, sembra alla Corte sia facile osservare che, una volta riconosciute quali fossero le intenzioni che muovevano il Pasolini, e le finalità che lo stesso si proponeva di raggiungere con la realizzazione del film; e, cioè, una volta riconosciuto che egli volesse rappresentare, a mezzo di un film, alcuni squarci di vita contemporanea; come essa viene vissuta in particolari e qualificati ambienti; nonché l’eterno contrasto sempre in atto, tra i ricchi e i poveri, tra i fortunati e i diseredati, tra i dotti (o che si credono tali), tra quanti trascorrono il tempo fra le effimere soddisfazioni della cosiddetta “dolce vita”, e quanti trascinano la loro grama esistenza tra la dura realtà della fame e della miseria, in istato di abiezione fisica e morale, non si possa, poi, negare all’autore (o allo sceneggiatore, o al regista del film), la possibilità, anzi la necessità (per quella specia di vita autonoma che assumono i personaggi di un’opera di fantasia, non appena siano stati concepiti dall’autore) di rappresentare scenicamente quanto esso autore aveva intenzione di esprimere e che ciò egli faccia servendosi di quei gesti, di quelle immagini, di quelle parole, che meglio traducono, visivamente e audiovisivamente, il proprio pensiero, le proprie idee, le proprie fantasie; e, conseguentemente, di servirsi di quelle parole, di quei gesti, di quei suoni, che sono peculiari di quei personaggi, che egli ha voluto rappresentare.
Talché, nel caso in esame, quando il Pasolini ha voluto descrivere la primitiva rozzezza, la insensibilità morale, il grossolano umorismo delle incolte, ineducate, incoscienti comparse; il trionfo pseudointellettualistico di certi registi; le bizze isteriche di certe dive; la faciloneria e l’assenza di ogni di ogni senso di umanità di un certo mondo cinematografico, che è mosso solo dal desiderio di speculazione, egli non poteva che far agire e far parlare dette persone, se non nel modo che e’ loro abituale.
In sostanza, se si vuole rappresentare qualcosa di profondamente abietto, qualcosa di profondamente immorale, qualcosa che nel linguaggio religioso si chiama “peccato” è ovvio che non ci possa serviere se non di quelle immagini, di quei suoni, di quelle parole, che meglio lo rappresentino, o che meglio diano la sensazione dell’abiezione, dell’immoralità, del “peccato”.
Questo, del resto, è sempre stato il procedimento seguito da tutti gli artisti, più o meno grandi, allorché si siano trovati nella necessità, al fine della esteriorizzazione del loro pensiero, di rappresentare peccati e peccatori. Così i Sonetti del poeta romanesco G.G. Belli (che qui si cita per certe analogie che si riscontrano nelle sue opere con il caso in esame; perché è nota la sua profonda fede cattolica; e, perché, appena lo scorso anno, se ne è celebrato il centenario della morte con la partecipazione alle cerimonie delle pubbliche autorità) sono in libera circolazione, e non risulta siano stati accusati di vilipendio alla religione cattolica, nonostante che molti di essi, se avulsi dal complesso dell’opera e dall’idea ispiratrice, potrebbero, veramente, apparire vilipendiosi di detta religione, dei suoi sacerdoti (compresi i Papi, che sono tra i pi§ bersagliati), dei suoi Santi, dei suoi riti, ritratti con grandissimo scurrilità di linguaggio, e con supremamente oscene.
Perché? Perché apparve evidente che in quei sonetti il Poeta non ha voluto offendere la religione cattolica, sibbene ritrarre l’abiezione morale in cui vivevano i popolani di Roma (“Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che è oggi la plebe di Roma”), nonché la corrosiva, proterva, pesante arguzia di quell’infimo strato sociale, che è il “profanum vulgus” di Orazio, “la populace” di Victor Hugo, e che il Pasolini ha chiamato, con marxistico neologismo, “il sottoproletariato”, facendone il protagonista di molte sue opere.
Diceva il Belli: “il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello, ma sì per dare un’immagine di esso, già esistente, e più, abbandonata, senza miglioramento”.
Ora sembra alla corte che nel caso in esame il Pasolini, con le musiche profane che inopportunamente appaiono a commento di sacre rappresentazioni (musiche, del resto, iniziate per errore, e subito interrotte); con le risate sguaiate a cui si abbandonano le comparse, mentre stanno rappresentando i personaggi della “Passione”; con i bivacchi approntati sulle stesse croci di legno distese a terra; con la malevola interpretazione dell’ordine dato dal regista di allontare dal luogo delle riprese i Crocefissi (interpretazione subito ridicolizzata dall’essere la frase ripetuta anche da quella specie di megera – strega dei bassifondi, che è l’ultima donna che si vede e si sente pronunziarla, e, perfino, da un cane, al quale, non potendosi, certo, prestare sentimenti antireligiosi, si vede attribuire la funzione di dimostrare che si trattava di una richiesta… da cani!); con le altre scene irriverenti e blasfeme surricordate, non abbia voluto, come invece ha ritenuto l’impugnata sentenza, dileggiare i simboli della religione cattolica, ma solo rappresentare il modo di comportarsi del “sottoproletariato” delle borgate romane, massimo fornitore delle comparse cinematografiche, di molti registi, e di molti attori, anche durante le riprese di quei colossali film, a soggetto tratto dal vecchio e dal nuovo testamento, rivelandone e mettendone a nudo la assoluta insensibilità morale di fronte alle cose più sacre e degne di venerazione. Il Pasolini, inoltre, ha voluto rappresentare e presentare lo stato di grandissima miseria materiale (che, secondo la concezione filosofica del materialismo storico da lui professato, sarebbe la generatrice della miseria morale) in cui versa il suddetto “sottoproletariato”, il quale sarebbe invece, originariamente e fondamentalmente buono, spinto al male dallo sfruttamento al quale è sottoposto dai detentori delle ricchezze, e dalla necessità primordiale di procurarsi i mezzi di sussistenza.
Questo è il mondo che egli voleva far conoscere, presentando sullo schermo il personaggio che risponde al nome di Stracci, il quale, se da un lato rileva l’innata bontà del suo animo, allorché nasconde i morsi della fame per alleviare, quelli della propria moglie e dei propri figli; dall’altro mostra la elasticità della sua coscienza, non esitando a vendere ad altri cose non sue, per crepare letteramente di indigestione non appena abbia potuto con tale mezzo fraudolento, procurarsi del cibo in abbondanza. Che, poi, il Pasolini, sia riuscito a realizzare in pieno il suo disegno di dar vita artistica alle sue istanze di polemica sociale, che il grezzo materiale della trama del suo soggetto cinematografico si sia decantato nella poetica sintesi dell’opera d’arte, non è questa la sede per giudicare.
Del volore artistico dell’opera del Pasolini si sono occupati i critici cinematografici della stampa periodica nelle loro recensioni del film; qui interessa solo rilevare che nessuno di essi, con particolare riferimento a quelli della stampa cattolica, ha riscontrato nell’opera di Pasolini offese alla religione cattolica.
Persino il Centro Cinematografico Cattolico, che veglia a segnalare al pubblico la moralità e l’ortodossia religiosa dei film, ha incluso il film in questione tra quelli “sconsigliati”, e non tra quelli “esclusi”, come era stato fatto per il film Viridiana, che, denunciato per vilipendio alla religione cattolica, era stato, poi, prosciolto il istruttoria. Così pure il Preside dell’Istituto d’Apologia della Religione, presso la Pontifica Università Gregoriana, si è espresso, in una lettera diretta al Pasolini, nei seguenti termini: “il suo film mi ha fatto una grande impressione. La purezza delle intenzioni per me non lascia dubbi. Dalla stessa realizzazione credo sinceramente non si possa tirare la conclusione di vilipendio della religione”.
Ora, non sono certamente, osservava la Corte, né i criteri dei giornali, né i centri cattolici cinematografici, né gli stessi sacerdoti della religione cattolica, che possano sostituirsi ai giudici naturali nella interpretazione della legge penale italiana. Tuttavia di tali pareri, provenienti da esperti e da praticanti della religione cattolica, ritiene la corte che non si possa face a meno di tenerne in debito conto.
Come pure non si può fare a meno di rilevare che non vi furono, durante la proiezione del film nelle pubbliche sale cinematografiche, manifestazioni di protesta e di riprovazione da parte degli spettatori, il che dimostra che, pur essendo la stragrande maggioranza della popolazione italiana di religione cattolica, essa non si è sentita offesa nel suo sentimento religioso.
In base alle suesposte considerazioni, ritiene, pertanto, la Corte che nel film in oggetto, considerato nel suo organico complesso, e in quella inscindibilità che è propria di ogni opera d’arte, non sussistono gli estremi del reato di vilipendio della religione dello Stato, ai sensi dell.art. 402 C.P., e che di conseguenza il Pasolini debba essere assolto perché il fatto non costituisce reato.

P.Q.M.

Visti gli artt. 523, 479 C.P.P.; in riforma della sentenza del 7/3/1963 del Tribunale di Roma, appellata da Pasolini Pier Paolo, assolve lo stesso dal reato ascrittogli, perché il fatto non costituisce reato.

Roma, li’ 6/5/1964

Seguono firme

Depositata in Cancelleria il 15 giugno 1965
Il Cancelliere F.to Giuliani