Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 27 Aprile 2005

Sentenza 16 marzo 2005, n.10450

Corte di Cassazione Penale. Sezione II. Sentenza 16 marzo 2005,n. 10450: “Art. 270 bis c.p.: valutazione dei gravi indizi di colpevolezza nei confronti di soggetti appartenenti ad organizzazioni terroristiche transnazionali”.

(Omissis)

Svolgimento del processo. – Con ordinanza in data 8 gennaio 2004 il Gip del Tribunale di Napoli rigettava la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti dei soggetti indicati in epigrafe, indagati per il delitto di associazione con finalità di terrorismo o di eversione, di cui all’articolo 270 bis c.p. e per i reati di cui agli articoli 476, 482, 468, 648 e 210 ter c.p. Applicava la richiesta misura cautelare soltanto nei confronti di B.M., B.S. e K.F. limitatamente ai delitti di ricettazione e falsificazione di documenti. Con particolare riferimento al reato previsto dall’art. 270 bis c.p., il Gip osservava che gli elementi indicati dal Pubblico Ministero consentivano una verifica processualmente apprezzabile in ordine alla connotazione terroristica od eversiva del Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento, detto G.S.P.C., menzionato in contestazione; riteneva, pertanto, che mancherebbero i gravi indizi in ordine alle attività di falsificazione e ricettazione. Asseriva che la ricostruzione storica, offerta dall’organo dell’accusa circa la genesi, l’operatività del predetto gruppo ed i suoi collegamenti con la rete terroristica di Al Quaeda, risultavano privi di estremi probatori, poiché i documenti esistenti in atti riportavano soltanto articoli di stampa e resoconti di commenti o dichiarazioni di forze politiche. Le conversazioni intercettate, inoltre, non avevano carattere di grave valenza indiziaria. Avverso l’ordinanza del Gip il Pubblico Ministero proponeva impugnazione innanzi al Tribunale di Napoli e rilevava che dalla sentenza emessa dal Tribunale di Napoli il 22 marzo 2002 nei confronti di quattordici degli odierni indagati (tra i quali L.D., E.E.A., A.N.Y. e A.F.) emergeva la presenza nel territorio italiano di un gruppo collegato con altri gruppi operanti in diversi Stati europei, i quali agivano secondo regole dì subordinazione gerarchica alle strutture di vertice delle organizzazioni politico-militari, operanti in Algeria con finalità di sovversione violenta di quell’ordinamento statale (ed in particolare con il Gruppo Islamico Armato, detto G.I.A. ed il Fronte Islamico di Salvezza, detto F.I.S.). L’appellante aggiungeva che i fatti indicati nella citata sentenza e quelli contenuti nella nota 11 febbraio 2003 del Ministero dell’Interno italiano – dalla quale risultava che G.K. e G.A. sono ricercati in Algeria per attività terroristica – erano da considerare il “supporto storico” e la premessa dell’indagine de qua. Precisava che le conversazioni telefoniche intercettate dovevano, quindi, essere interpretate alla luce di quanto emergeva dai predetti documenti. Nel corso dell’udienza innanzi al Tribunale di Napoli, il Pubblico Ministero produceva ventidue documenti a sostegno dei motivi dedotti con il gravame. Il Tribunale, con ordinanza 26 aprile 2004, dopo avere premesso un breve excursus sul carattere di reato di pericolo presunto del delitto di cui all’art. 270 bis c.p., rilevava che, per la configurabilità dì tale delitto, il programma di atti di violenza deve sostanziarsi in progetti attuali e concreti, non essendo
sufficiente la loro mera ideazione. Affermava altresì che le vicende riguardanti l’Algeria, richiamate dall’appellante, non potevano essere utilizzate, perché non appartenevano a quel patrimonio di conoscenze comuni dal quale il giudice possa trarre elementi da porre a fondamento della sua decisione. Né potevano essere valorizzate le notizie di stampa, citate dal Pubblico Ministero, in carenza di un accertamento in ordine alla veridicità del loro contenuto. Aggiungeva che dalla sentenza emessa il 22 marzo 2002 dal Tribunale di Napoli, risultava l’operatività in Algeria di organizzazioni politico militari con finalità di sovversione violenta, alle quali erano collegati i citati G.I.A. e F.I.S., ma non anche lo sconosciuto G.S.P.C. ed assumeva che il “salafismo” è alla base di molteplici attività non soltanto politico-militari ma anche di carattere religioso. In relazione al contenuto delle conversazioni registrate esistenti in atti, il Tribunale censurava l’inserimento di chiose di spiegazione da parte degli “operanti della polizia giudiziaria” nel testo delle trascrizioni e concludeva che i cosiddetti reati-mezzo addebitati agli indagati non necessariamente erano funzionali alla programmazione di atti terroristici, ben potendo essere manifestazione di ordinaria attività delinquenziale. Avverso l’ordinanza ricorre il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli. Nell’atto dell’impugnazione viene innanzi tutto evidenziato che nella lista stilata il 27 maggio 2002 del Consiglio dell’Unione Europea, sulla base delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 1267 del 1999, n. 1333 del 2000 e n. 1390 del 2002 tra i soggetti legati ad Al Quaeda è indicato il G.S.P.C., il quale dispone in Europa di cellule, incaricate di fornire il supporto logistico-operativo alla struttura centrale, esistente in Algeria, attraverso il procacciamento di falsi documenti d’identità, il reclutamento di soggetti da affiliare, la raccolta di finanziamenti per l’organizzazione, il proselitismo, l’assistenza legale agli immigrati ritenuti disponibili, l’approvvigionamento di armamenti in collegamento con circuiti criminali internazionali. Ciò, premesso, il Pubblico Ministero ricorrente espone due motivi di ricorso. 1) Con il primo deduce la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato per l’omessa valutazione da parte del Tribunale degli elementi di prova emergenti dai documenti prodotti dall’organo dell’accusa nel corso del giudizio d’appello e ricorda che le Sezioni unite di questa Corte Suprema con la sentenza n. 18339 del 2004 hanno affermato che il Pubblico Ministero può depositare – in sede d’appello avverso l’ordinanza di rigetto d’applicazione di misura cautelare – documentazione contenente nuovi elementi probatori preesistenti o sopravvenuti, sui quali deve svolgersi il contraddittorio delle parti anche mediante la concessione di un congruo termine per l’esame degli atti. Il ricorrente, quindi, elenca gli atti da lui prodotti in appello ed in base ad essi contesta l’assunto del Tribunale secondo il quale mancherebbero gli elementi per ritenere che la consorteria denominata G.S.P.C. sia una rete terroristica. Tra i documenti esibiti evidenzia che ve ne sono alcuni di rilevante valenza indiziaria: 1) interrogatorio reso da G.Y. il 17 febbraio 2004 (verbale riassuntivo e trascrizione della registrazione), dal quale risulterebbe la conferma dell’esistenza del sodalizio terroristico; 2) Regolamento del consiglio dell’Unione Europea del 27 maggio 2002, n. 881 e la nota del Comitato di Sicurezza finanziaria del Ministero dell’Economia del 29 agosto 2002; 3) trascrizione delle conversazioni tra presenti, avvenuta in Vicenza il 29 maggio 2003, non allegata alla richiesta presentata al Gip; 4) sentenza emessa dal Tribunale di Milano nel proc. pen. n. 25390/201 nei confronti di E.S.A.M. ed altri; 5) atti acquisiti nel prosieguo delle indagini successivamente alla decisione del Gip, qui impugnata. Tra questi ultimi evidenzia: 1) i verbali di perquisizione e sequestro eseguiti in Aversa il 16 gennaio 2004 presso le abitazioni di G.Y., G.K., S.D. e T.A. il 26 gennaio 2004;
2) la relazione sull’esito delle indagini svolta dai Carabinieri di Napoli sulla provenienza della videocassetta sequestrata nell’abitazione del predetto G.K., contenete immagini relative ai campi d’addestramento dei “Mudjahiddines del Caucaso”; 3) la relazione di servizio dei Carabinieri di Napoli relativa all’incontro tenutosi in Algeri tra le Autorità giudiziarie italiane e quelle algerine. Il ricorrente sostiene, pertanto, che il Tribunale avrebbe immotivatamente escluso la connotazione terroristica, dell’associazione Gruppo Salafita per la predicazione ed il combattimento, detto G.S.P.C., in quanto ha operato una valutazione parziale degli elementi esistenti a carico degli indagati, avendo omesso di considerare quelli emergenti dai documenti presentati in sede d’appello, con la conseguenza che, tra l’altro ha erroneamente attribuito ai termini “Salafismo”, “Jihad”, “Fratelli” e “Gruppo”, menzionati nel corso delle conversazioni intercettate, un significato puramente religioso. Lamenta ancora che il Tribunale ha ignorato il citato regolamento n. 881, con cui il Consiglio dell’Unione Europea – nel recepire le misure adottate contro i Talebani, Al Quaeda ed i loro associati dal Comitato Sanzioni sull’Afghanistan del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sulla base delle Risoluzioni innanzi indicate – ha stilato una lista europea di gruppi terroristici coincidente con quella dell’ONU e comprendente, oltre ai gruppi innanzi menzionati, quelli legati al fondamentalismo islamico di diversa estrazione geografica, mediorientale, nordafricana, somala ed asiatica: tra questi ultimi ha indicato il G.I.A. ed il G.S.P.C.. Aggiunge che il Tribunale non ha preso in esame il comunicato 29 agosto 2002 del ministero dell’Economia – Comitato di Sicurezza finanziaria – dal quale emerge che, l’Italia, congiuntamente con gli Stati Uniti d’America, ha individuato tra i venticinque gruppi, che operano nel territorio nazionale e svolgono attività terroristica in collegamento con Al Quaeda, soggetti aderenti a cellule del G.S.P.C. di matrice algerina. Espone il ricorrente che, in particolare dagli interrogatori di Gasry Yacine e G.K., esistenti in atti e totalmente ignorati dal Tribunale di Napoli, risulta: 1) l’esistenza del Gruppo Salafíta come gruppo terroristico al quale l’indagato, che pur ha riconosciuto di far parte del F.I.S. – dichiara di essere contrario, operando una distinzione inedita tra salafiti violenti e salafiti non violenti, ma così ammettendo ciò che il Tribunale nega in radice; 2) il collegamento tra il G.I.A. ed i “salafiti violenti” (il passaggio dal settore religioso a quello armato sarebbe causato dalle politiche repressive del governo algerino) 3) la presenza attuale di terroristi sulle montagne. Quest’ultima espressione, a giudizio, del ricorrente, consentirebbe di attribuire un valore gravemente indiziario alle conversazioni telefoniche intercettate e riportate nell’ordinanza del Tribunale, perché in esse si fa espresso riferimento ai “nostri sulla Montagna”. Il ricorrente, in conseguenza si duole che il Tribunale, ignorando ì documenti da lui prodotti ed il contenuto degli interrogatori, con una motivazione palesemente illogica non ha attribuito il corretto significato al contenuto delle intercettazioni, alle videocassette ed audiocassette sequestrate, dalle quali risulterebbe, l’opera di proselitismo e reclutamento per il “Jihad armato”. Il ricorrente rappresenta, altresì, il mancato esame della sentenza emessa il 2 febbraio 2002 dal Tribunale di Milano a carico di Remadna Abdelhalim ed altri, dalla quale emergerebbe la presenza sul territorio italiano dì cellule radicali islamiche del G.S.P.C. dedite al reclutamento di volontari da inviare come combattenti in Afghanistan e segnala che in tale provvedimento risultano indicati: – le origini del movimento salafita – le attività delle cellule italiane di supporto al G.I.A. algerino, autore di una serie di attentati e della strategia stragista – la Struttura e gli sviluppi di Al Quaeda – la frattura all’interno del G.I.A. e la prevalenza assunta dal Gruppo salafita
– la funzione principale della cellula algerina in Italia per il reclutamento di volontari da addestrare in Pakistan ed Afghanistan per, poi farli rientrare in Europa e di qui inviarli a sostenere l’attività del G.S.P.C. in Algeria. Lamenta, infine, l’omessa valutazione del contenuto della sentenza emessa il 22 marzo 2002 del Tribunale di Napoli (innanzi citata), confermata in secondo grado e richiamata nell’atto d’appello. 2) Con il secondo motivo il Pubblico Ministero ricorrente deduce l’erronea applicazione dell’art. 270 bis c.p. , in quanto il tribunale aveva omesso di considerare che le associazioni transnazionali con finalità di terrorismo, presentano caratteristiche diverse dai gruppi tradizionali criminali, perché spesso sono composte, come nel caso del G.S.P.C., da cellule tra loro collegate ma con compiti differenziati, per cui la partecipazione degli associati può tradursi soltanto in un’attività di supporto e sostegno logistico all’organizzazione e consistere anche nel mettere a disposizione la propria abitazione per le riunioni degli aderenti. Con memoria del 22 gennaio 2005 il difensore di numerosi indagati (come da elenco innanzi trascritto) ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile ed ha sostenuto che: 1) non sussistono elementi per ritenere: a) la sussistenza del reato di cui all’art. 270 bis c.p.; b) la configurabilità del vincolo associativo tra gli indagati o di partecipazione criminosa; c) la finalizzazione di contatti e frequentazioni a programmi terroristici o eversivi. 2) le intercettazioni telefoniche ed ambientali mettono in evidenza soltanto una comunanza di idee, di orientamenti e di convincimenti di carattere religioso, e lo scambio di generiche informazioni; 3) non può essere dato rilievo alcuno a notizie di cronaca riportate dalla stampa; 4) i reati di contraffazione di documenti e di ricettazione contestati appaiono esclusivamente finalizzati alla regolarizzazione del soggiorno di connazionali e di altri cittadini extracomunitari.

Motivi della decisione. – Il ricorso va accolto. Il Tribunale di Napoli è pervenuto alla decisione impugnata, ignorando i documenti prodotti in udienza dal Pubblico Ministero e frammentando gli elementi esistenti a carico degli indagati esaminati singolarmente, senza cogliere, attraverso tal errato metodo di valutazione, il complessivo quadro d’accusa, esposto dal Pubblico Ministero. Una tale carente disamina, del materiale indiziario è particolarmente rilevante nel caso in cui gli indagati siano accusati di fare parte di un’organizzazione terroristico-eversiva di dimensione transnazionale. Qualora occorra valutare, ai fini dì quanto disposto dall’art. 270 bis c.p. , la condotta di gruppi esistenti in Italia, i quali – secondo l’accusa – fanno parte di organizzazioni che operano in altri Paesi, è riduttivo considerare soltanto gli elementi che riguardano l’attività svolta nel nostro territorio, senza inserirla nel complessivo quadro di quella riferibile all’intero sodalizio. La cellula italiana, infatti, potrebbe essere chiamata a svolgere compiti dì mero supporto all’azione e, pur avendo limitato ruolo, si porrebbe come parte integrante di un’associazione che si propone il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo. Sono, pertanto, da condividere i rilievi del ricorrente in ordine alla mancata valutazione del materiale esistente in atti da parte del Tribunale. Parimenti, l’esame del contenuto delle conversazioni registrate non deve seguire questo riduttivo percorso interpretativo, poiché una singola parola od espressione in sé può non avere un preciso significato ma se inserito in un ampio contesto probatorio può assumere un puntuale significato. I1 Tribunale, quindi, ha, da un lato, ignorato i documenti esibiti dal Pubblico Ministero e innanzi sintetizzati, al fine di chiarire meglio la loro valenza probatoria, e, dall’altro, ha anche frazionato gli elementi d’accusa esaminati.
Al riguardo va ricordato che le Sezioni unite di questa Corte hanno statuito con sentenza n. 18339 emessa il 31 marzo 2004 e depositata il 20 aprile 2004 rv. 22735 che “Nel procedimento conseguente all’appello proposto dal Pubblico Ministero contro l’ordinanza reiettiva della richiesta di misura cautelare personale, è legittima la produzione di documentazione relativa ad elementi probatori “nuovi”, preesistenti o sopravvenuti, sempre che, nell’ambito dei confini segnati dal “devolutum”, quelli prodotti dal Pubblico Ministero riguardino lo stesso fatto contestato con l’originaria richiesta cautelare e in ordine ad essi sia assicurato nel procedimento camerale il contraddittorio delle parti, anche mediante concessione di un congruo termine a difesa, e quelli prodotti dall’indagato, acquisiti anche all’esito di investigazioni difensive, siano idonei a contrastare i motivi di gravame del Pubblico Ministero ovvero a dimostrare che non sussistono le condizioni e i presupposti di applicabilità della misura cautelare richiesta”. In relazione all’apprezzamento del materiale probatorio esistente in atti va, dunque, affermato che “la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza, al fine di decidere se debba essere emesse l’ordinanza di custodia cautelare, deve avvenire in modo complessivo, attraverso un apprezzamento unitario dei singoli elementi probatori, i quali, se sono esaminati singolarmente possono essere suscettibili di significati neutri, ambigui o apparentemente contraddittori e trasformati, quindi, in un coacervo informe di dati di fatto. Essi, invece, dopo essere stati sottoposti a verifica singola, vanno inseriti in una meditata composizione organica dell’intero materiale acquisito, (spesso, come nella specie di difficile acquisizione e di complessa comprensione) e collegati tra loro in una visione necessariamente unitaria (conf. mass. 219199, 212026)”. Precisati i criteri, che avrebbero dovuto sorreggere la valutazione degli indizi da parte del Tribunale, occorre ora esaminare il parametro preliminare al quale i giudici territoriali si sono attenuti nell’apprezzare il “contesto accusatorio segnalato dal Pubblico Ministero”, nella parte in cui è stata effettuata una ricostruzione storica di note vicende algerine degli ultimi decenni, nelle quali il Gruppo Salafita per la Predicazione e il combattimento è sorto ed opera. Anche questo profilo è stato erroneamente considerato dai giudici partenopei, i quali hanno ritenuto che «la storia dell’Algeria non appartiene al patrimonio di conoscenze comuni che il giudice può porre a fondamento della sua decisione ed è appena il caso di aggiungere qui che tali non possono qualificarsi le notizie di stampa non potendo certo dirsi che queste risultino acquisite alla collettività con grado di tale certezza da apparire indubitabili ed incontestabili, occorrendo per esse l’accertamento della provenienza e genuità». Il Collegio reputa che tale assunto del Tribunale si fondi su un erroneo approccio culturale e giuridico alla nozione di fatto notorio. Quest’ultimo, nell’odierna società sempre più integrata e transnazionale, non può più essere valutato in un ristretto ambito locale, poiché in tal modo il giudice di fronte a vicende, che coinvolgono il nostro ed altri Paesi, finisce ineluttabilmente col pervenire ad un sostanziale “non liquet”, rifiutandosi di considerare fatti anche eclatanti che, per la loro rilevanza, sono da ritenere di comune conoscenza. Del resto, già vent’anni addietro questa Corte affermava (Sez. I, sentenza n. 9998 del 23/09/1987, rv. 176703) che sono fatti notori quelli che, in quanto conosciuti dalla generalità dei cittadini, devono ritenersi conosciuti anche dal giudice senza necessità di uno specifico accertamento. Nella specie, al di là di tali rilievi, è da considerare che nel caso in esame il tribunale di Napoli, nel valutare la condotta degli aderenti al G.S.P.C., operante in Italia, ai fini di quanto disposto dall’art. 270 bis c.p. , era chiamato a valorizzare non soltanto fatti notori ma quanto emergeva da alcuni significativi documenti esistenti in atti, prodotti dal Pubblico Ministero in appello, quali in particolare le sentenze ed i provvedimenti adottati da organismi internazionali richiamati dal ricorrente. Sulla base di quanto fin qui esposto nell’ipotesi in cui, in sede d’appello avverso provvedimento di rigetto della richiesta di misura cautelare il Pubblico Ministero, avvalendosi del potere d’integrare gli elementi probatori già oggetto di valutazione da parte del Gip, esibisca nuovi documenti, non soltanto devono essere rispettate le regole del contraddittorio fra le parti ma occorre che il Tribunale sottoponga a nuovo apprezzamento l’intero compendio indiziario, esaminando i diversi elementi prima singolarmente e, poi, nella loro globalità.
Nel caso in esame il Tribunale non ha osservato tali criteri e l’ordinanza impugnata risulta carente di motivazione e va, pertanto, annullata con rinvio per nuovo esame.

(Omissis)