Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 13 Aprile 2005

Sentenza 23 aprile 2004, n.7725

Cassazione Civile, Sez. Lavoro, sentenza 23 aprile 2004, n. 7725.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Giovanni PRESTIPINO – Presidente –
Dott. Federico ROSELLI – Consigliere –
Dott. Raffaele FOGLIA – Consigliere –
Dott. Paolo STILE – Rel. Consigliere –
Dott. Bruno BALLETTI – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

I.N.P.S. ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati FABIO FONZO, FABRIZIO CORRERA, CORETTI ANTONIETTA, CLEMENTINA PULLI, giusta delega in atti;
– ricorrente –

contro

PROVINCIA ROMANA DELL’ORDINE CHIERICI REGOLARI MINISTRI DEGLI INFERMI RELIGIOSI CAMILLIANI;
– intimato –

e sul 2° ricorso n° 21141/01 proposto da:

PROVINCIA ROMANA DELL’ORDINE DEI CHIERICI REGOLARI MINISTRI DEGLI INFERMI (RELIGIOSI CAMILLIAMI), quale Ente proprietario e gestore dell’Istituto “VILLA IMMACOLATA”, in persona del legale rappresentante pro tempore, PADRE ALBINO SCALFINO, e per i PADRI VINCENZO CASTALDO ED EMILIO BALSI, Direttori pro tempore dell’istituto, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEGLI SCIPIONI 288 ROMA, rappresentati e difesi dall’avvocato MATTIA PERSIANI, giusta delega in atti;
– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

contro

I.N.P.S. ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA
VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati CLEMENTINA PULLI, FABIO FONZO, ANTONIETTA CORETTI, giusta procura speciale atto notar BLASI LINDA di ROMA del 30/10/2001, rep. 71684;
– resistente con procura –

avverso la sentenza n. 604/01 del Tribunale di VITERBO, depositata il 15/05/01 R.G.N. 933/98;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/06/03 dal Consigliere Dott. Paolo STILE;
udito l’Avvocato SILVANO PICCININNO per delega PERSIANI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Marco PIVETTI che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito l’incidentale.

Fatto

Con tre distinti ricorsi, proposti dalla Provincia Romana dell’Ordine dei Chierici Regolari Ministri degli Infermi innanzi al Pretore di Viterbo, l’Ente religioso contestava le determinazioni assunte dell’INPS nei suoi confronti con riferimento agli obblighi di contribuzione del proprio personale dipendente (presso la casa di cura Villa Immacolata in San Martino al Cimino), regolarmente iscritto all’INPS (posizione n. 9200322842), instando perché venisse accertato e dichiarato il diritto ai benefici della fiscalizzazione degli oneri sociali ed all’esonero dal versamento dei contributi alla Cassa Unica Assegni Familiari.
Esponeva l’Ente, in merito, di avere sin dal 1971 beneficiato dell’esonero dal versamento dei contributi al CUAF in quanto ritenuto ente diverso dalle imprese commerciali, e di avere avanzato, in data 14.03.1988, richiesta di fiscalizzazione degli oneri sociali, ai sensi dell’art. 4 legge 638/83 attribuita alle imprese commerciali, con riguardo alla sua attività gestita con criteri di economicità ed efficienza seppur senza alcun fine di lucro, e contestuale conferma dell’esonero dalla contribuzione per gli assegni familiari ex art. 23 bis legge 33 del 1980.
Aggiungeva di essere stato oggetto, in risposta alla sua pretesa, di richieste di pagamento contributi e sanzioni amministrative da parte dell’INPS (anche a mezzo notifica di decreto ingiuntivo n. 1400/96 emesso dal Pretore in data 6.8.1996), che, riconosciutale la spettanza della fiscalizzazione degli oneri sociali, le aveva revocato la qualifica di “ente vario” con richiesta di rimborso delle agevolazioni maturatesi dal 1991 per il mancato versamento dei contributi al CUAF.
In conseguenza di ciò l’opponente negava di dovere le somme pretese dall’INPS, contestando anche l’importo preteso per gli arretrati anteriori al maggio 1996 (sostenendo non esserle mai stata comunicata alcuna variazione dell’inquadramento dal ramo enti vari a quello commercio, se non con la spedizione dei DM/2 inviati dall’INPS il 4.5.96), nonché per somme aggiuntive allegando la sussistenza dei presupposti per l’applicazione in misura ridotta ai sensi dell’art. 4, comma 5, L. 48/88 per essere opinabile la situazione di fatto.
In conseguenza di ciò aveva avanzato richiesta al Pretore di revoca del decreto ingiuntivo e declaratoria di infondatezza, anche parziale, delle pretese dell’Istituto previdenziale, chiedendo, in via ulteriore, che venisse accertato il suo diritto a poter pagare i contributi con cessione dei propri crediti vantati verso la USL di Viterbo ed altre PPAA..
Radicatosi il contraddittorio, il resistente Istituto Nazionale della Previdenza Sociale contestava le pretese del ricorrente perché infondate, concludendo, quindi, per il rigetto della domanda proposta.
Nel corso del primo giudizio il Pretore di Viterbo, disposta la riunione dei tre procedimenti attivati dalla Provincia Romana, con sentenza pronunciata in data 29.4.1997 (depositata il 20/2/1998 con il N. 40/98), respingeva le domande della ricorrente condannandola al pagamento delle spese del giudizio.
Il primo Giudice perveniva alla suddetta decisione ritenendo la Provincia Romana dell’Ordine dei Chierici regolari un ente con fini di lucro da ricomprendere nella categoria delle imprese commerciali tenute al pagamento dei contributi CUAF.
Avverso l’indicata sentenza proponeva appello la Provincia Romana contestando la decisione del Pretore perché ritenuta errata nell’interpretazione della normativa disciplinante l’attribuzione delle agevolazioni contributive a favore delle imprese commerciali e degli enti senza fine di lucro, insistendo nelle tesi sostenute in primo grado. Concludeva, pertanto, perché venisse riformata la sentenza del Pretore, con la vittoria delle spese dei due gradi di giudizio.
L’INPS si costituiva, contestando l’appello proposto, ritenuto infondato e chiedendone il rigetto.
Con sentenza del 15 marzo – 15 maggio 2001, l’adito Tribunale di Viterbo, in totale riforma della sentenza del Pretore dichiarava che la Provincia Romana appellante non era tenuta al versamento della contribuzione della, Cassa Unica Assegni familiari ex art. 23 bis legge n. 33 del 1980; revocava il decreto ingiuntivo n. 1400/96 emesso il 6-08-1996 e rigettava la domanda riconvenzionale proposta dall’INPS, in mancanza di elementi che facessero ritenere la misura in cui l’Istituto fosse creditore della controparte; dichiarava, quindi, il diritto della appellante a beneficiare anche della fiscalizzazione di cui all’art. 4, c.19°, I. 638/1983; compensa per intero le spese dei due gradi di giudizio.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’INPS con un unico motivo.
Resiste la Provincia Romana con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale, affidato anch’esso ad un unico motivo e depositando altresì memoria ex art. 379 c.p.c..
Il Castaldo ed il Blasi, parti in causa fin dal primo grado di giudizio, quali direttori pro tempore dell’Istituto Villa Immacolata, non si sono costituiti.

Diritto

Va preliminarmente disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, trattandosi di impugnazioni avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).

Con l’unico motivo di ricorso l’INPS, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 23 bis del d.l. 30 dicembre 1979 n. 653, convertito nella legge 29 febbraio 1980 n. 33, e dell’art. 112 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittorietà della motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.), assume che il Tribunale di Viterbo avrebbe violato la legge riconoscendo il diritto della Provincia dell’Ordine dei Religiosi Camilliani a fruire del beneficio dell’esonero dal versamento dei contributi alla Cassa Unica Assegni Familiari, ai sensi dell’art. 23 bis della legge 29 febbraio 1980 n. 33. Ciò perché, a dire dell’INPS, tale beneficio sarebbe “condizionato esclusivamente all’assenza di fini di lucro” e, cioè, a un requisito che non ricorrerebbe nei confronti della Provincia religiosa dei Camilliani.
Anzi, secondo l’INPS, aver accertato che quella Provincia religiosa non aveva scopo di lucro costituirebbe anche un vizio logico della sentenza impugnata in quanto questa “illogicamente” avrebbe privilegiato “Io scopo dell’Ente (citando lo statuto dell’Ente) anziché le caratteristiche imprenditoriali proprie dell’Istituto di cura” che, sempre a dire dell’INPS, sarebbero connotate “dall’incontestabile esistenza di fini di lucro”.

La censura è fondata.
Va rilevato che le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata e contestate con il ricorso in esame ricalcano, nella interpretazione dell’art. 2082 c.c., opinioni comunemente sostenute dalla dottrina tradizionale, secondo la quale, poiché il termine “professionalmente”, contenuto nel suddetto art. 2082 c.c., non può esaurirsi nella semplice constatazione che l’attività economica deve essere continua (o sistematica) e non occasionale, il termine stesso deve essere dotato di una ulteriore connotazione, ricavabiIe dalla nozione che all’imprenditore viene data dalla teoria economica. Conseguentemente, poiché tale connotazione, deve essere collegata al concetto di profitto in senso economico, si afferma che l’attività economica può essere qualificata come imprenditoriale solamente se chi la esercita si prefigga di ricavare dalla stessa, sia essa produttiva o interpositiva nella circolazione di beni o di servizi, un profitto personale.
Siffatta linea argomentativa è stata, tuttavia, sottoposta a revisione critica da un’altra parte della dottrina, la quale, muovendo dal rilievo che il concetto di lucro non può mancare nella nozione di imprenditore, ha sostenuto che esso deve essere considerato in senso oggettivo e non soggettivo (e, per questa ragione, come si afferma, possono essere inquadrate nella categoria prevista dall’art. 2082 c.c. anche le imprese aventi uno scopo mutualistico e le imprese pubbliche).
Secondo questa diversa dottrina, è lucrativa non tanto l’attività che è svolta a fini di lucro nel senso sopra indicato (dato che il perseguimento del profitto attiene viceversa alla sfera dei motivi), quanto quella che è oggettivamente lucrativa, tenuto conto delle modalità stesse dell’azione imprenditoriale, qualunque sia lo scopo effettivo perseguito da chi la esercita. Al requisito soggettivo, per conseguenza, viene sostituito un elemento oggettivo, che viene individuato nella obiettiva economicità dell’attività imprenditoriale, intesa come equilibrio gestionale fra costi e ricavi; e si sostiene che è imprenditoriale quella attività economica, organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, che sia di per sé idonea a rimborsare i fattori della produzione impiegati mediante il corrispettivo di ciò che si produce o si scambia, anche se, per ipotesi, chi la esercita persegua uno scopo ideale o altruistico; con la conseguenza che rimane al di fuori dell’ambito dell’impresa solamente quella attività svolta da chi “fa erogazione gratuita di beni o di servizi”.

La contrapposizione fra queste due diverse concezioni, delineate dalla dottrina, ha trovato pure riscontro nelle decisioni giurisprudenziali che, a seconda delle singole prospettive indicate dall’ordinamento, si sono occupate dell’argomento.
A favore della tesi tradizionale, si può indicare, tra le più recenti pronunce quella richiamata dalla difesa della resistente Provincia Romana (Cass. 6 marzo 2000 n. 2514) mentre fra le più significative in senso contrario va annoverata Cass. 14 giugno 1994 n. 5766, alla cui impostazione ritiene il Collegio di aderire, specie laddove si pone l’accento sulla obiettiva economicità dell’attività esercitata (quest’ultima intesa nel senso che tale attività deve essere di per sé idonea a rimborsare i fattori della produzione impiegati mediante il corrispettivo ricavato dai beni e dai servizi prodotti o scambiati o, come anche si assume, a realizzare un giusto equilibrio fra i costi e i ricavi); e, in secondo luogo e come corollario di tale principio, sul punto in cui è stato sottolineato come, rispetto alla attività esercitata, l’intento di lucro, così come ogni altra soggettiva previsione ed aspettativa dell’agente, degrada a semplice motivo giuridicamente irrilevante.
E, in definitiva, quindi si deve ritenere che, in presenza degli altri requisiti stabiliti dall’art. 2082 c.c., la natura imprenditoriale sussista ogni qualvolta l’attività economica organizzata, esercitata in via esclusiva o prevalente, sia ricollegabile ad un dato obiettivo inerente alla attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi, atteso che lo scopo di lucro riguarda il movente soggettivo che induce l’imprenditore ad esercitare la sua attività; mentre deve essere esclusa la suddetta natura nel caso che l’attività sia svolta in modo del tutto gratuito, dato che non può essere considerata imprenditoriale l’erogazione gratuita dei beni o servizi prodotti.

Ai cennati principi il Tribunale di Viterbo non ha mostrato di adeguarsi.
La sentenza impugnata ha, infatti, accertato, che le uniche attività presenti nei bilanci della Provincia dell’Ordine controricorrente derivavano dalle rette erogate a seguito della convenzione con le aziende sanitarie locali, e, dall’altro, che tali attività erano sempre state destinate alle finalità statutarie dei Religiosi Camillani.
In particolare, il Tribunale ha ritenuto essere fatto pacifico “che la Casa di Cura Villa Immacolata fosse gestita dall’Ente appellante “con metodi imprenditoriali, operando, istituzionalmente, coprendo i costi con quanto ricavava dalle convenzioni con le AUSL” in quanto “non smentito da alcun atto o documento (tra quelli prodotti dall’appellante) da cui poter dedurre l’esistenza di ulteriori e diversi introiti provenienti da rette pagate privatamente dagli assistiti, ad esempio per godere di camere con trattamento alberghiero o per simili servizi extraconvenzione”.
Accertato ciò, la sentenza impugnata ha, poi, escluso che la finalità di lucro fosse desumibile soltanto “dal consistente importo per crediti maturati dall’appellante per contributi convenzionali non ancora versati dalla Regione, né dai valori desumibili dai conti bancari dalla Provincia Romana”, osservando che “tutti questi valori di natura economico – finanziaria” non potevano essere la prova dell’esistenza di un concreto ed effettivo scopo lucrativo perseguito dall’Ente ecclesiastico perché non tenevano conto che lo scopo od il fine perseguito da un soggetto (sia esso imprenditore o meno) andava valutato a prescindere dalle dimensioni economiche assunte dalla sua attività, dovendosi, al contrario, avere riguardo alla destinazione dei provenienti dell’attività gestita. Una volta accertato che le attività presenti nei bilanci della Provincia dei Camilliani derivavano unicamente dai corrispettivi (rette) per l’erogazione di servizi sanitari in regime di convenzionamento, il Tribunale di Viterbo ha ritenuto anche essere “pacifico (non avendo l’INPS allegato né provato il contrario) che la Provincia Romana dei Padri Camilliani era un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto (R.Dec. 22.1.1931) e che per statuto aveva lo scopo di perseguire: “la gloria di Dio e la santificazione dei suoi membri attraverso le opere di misericordia evangelica, praticando l’assistenza corporale, e spirituale agli infermi, negli ospedali, nelle case di cura e in qualsiasi altro luogo verso ogni categoria di persone, da qualsiasi malattia affette, a rischio anche della vita” (art. 3 statuto), inoltre alla Provincia appartenevano in proprietà tutti i beni immobili e mobili che essa come tale ha in dotazione, nonché quelli in dotazione delle singole Case o Comunità…” (art. 25 statuto). Il che rendeva evidente l’assoluta compatibilità tra benefici concessi a soggetti (“istituti, enti, ospedali…”) senza fini di lucro, e benefici concessi alle imprese anche se appartenenti ai primi, perché la legge aveva inteso agevolare con il primo beneficio coloro i quali, non perseguendo fini di lucro, assicurino comunque al proprio personale un trattamento per carichi di famiglia non inferiore a quello erogato dall’INPS, e con il secondo beneficio, ha inteso agevolare l’impresa (e quindi l’attività oggettivamente posta in essere dal suo titolare) con il fine specifico di incrementare l’occupazione o di favorire il mantenimento dei livelli occupazionali già raggiunti mediante un contenimento del costo del lavoro”.

Di fronte a tale accertamento eseguito dai Giudici in sede d’appello, emerge con tutta evidenza la fondatezza della censura prospettata dall’INPS, avendo l’impugnata decisione, nel pervenire alla contestata conclusione, privilegiato lo scopo dell’Ente (citando lo statuto dell’Ente), anziché le caratteristiche imprenditoriali proprie dell’Istituto di cura, ed affermando, di conseguenza, in modo logicamente incongruente che l’attività della Casa di cura dovesse essere considerata come attività imprenditoriale priva di fine lucrativo.
L’accoglimento di tale censura comporta l’assorbimento di quella, sviluppata nell’ambito del medesimo unico motivo, con cui l’Istituto lamenta l’omessa pronuncia in ordine alla domanda di restituzione dei contributi che si assumono essere stati indebitamente conguagliati a titolo di fiscalizzazione degli oneri sociali, ex art. 4, diciannovesimo comma, del D.L. 12 settembre 1983 n. 463, convertito in legge 11 novembre 1983 n. 38 (ed, in seguito, ai sensi dall’art. 1, settimo comma del d.l. 28 aprile 1987 n. 156, reiterato fino alla conversione in legge del 29 febbraio 1988 n. 48).
Ugualmente assorbita, per analoga ragione, è l’ulteriore censura relativa al preteso immotivato rigetto della domanda riconvenzionale, la cui sorte è rimessa alla valutazione del giudice di merito, cui dovrà essere rinviata la causa per effetto dell’annullamento della presente decisione.
L’accoglimento della prima censura esaminata comporta anche l’assorbimento del ricorso incidentale con cui la Provincia Romana denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 49, secondo e terzo comma, della legge n. 88 del 1989, nonché degli artt. 34 e 79 D.P.R. n. 797 del 1955, violazione e falsa applicazione dell’art. 3, ottavo comma, della legge 8 agosto 1995 n. 335, nonché dell’art. 112 c.p.c., ed ancora omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.).
Invero, con tale ricorso, l’Ente ecclesiastico, dopo avere rammentato che nei verbali ispettivi del 17 e 20 maggio 1996, l’INPS aveva proceduto all’addebito della contribuzione per gli assegni familiari nel presupposto che “con verbale n. 322842/501 dell’1 – 8 marzo e 2 aprile 1991″‘ sarebbe stato disposto “l’inquadramento della casa di cura dal ramo enti vari al ramo commercio, con effetto ex tunc, evidenzia la necessità della richiesta – formulata con il terzo ricorso al Pretore di Viterbo – di accertare e dichiarare l’illegittimità della variazione d’inquadramento dell’Istituto Villa Immacolata dal settore “enti vari” al settore “commercio” ovvero, in subordine, di accertare che la variazione dell’inquadramento poteva decorrere, in ogni caso, soltanto dal periodo di paga in corso alla data di notifica dei verbali ispettivi del 17 e 20 maggio 1996, ai sensi dell’art. 3, ottavo comma, della legge 8 agosto 1995 n. 335.
Orbene, l’Ente si duole che il Tribunale di Viterbo, anziché statuire sul punto, si sia limitato soltanto ad osservare, in motivazione, che “una volta accolto l’appello sulle questioni oggetto delle originarie domande proposte dalla Provincia Romana dei Padri Camilliani, sarà compito dell’INPS ricontrollare la posizione contributiva dell’Ente sia per ciò che attiene i contributi pagati che per i conguagli relativi ai benefici spettanti all’ente medesimo…”.
Senonché, anche tale questione va rimessa al giudice di merito, cui va rinviata la causa, affinché lo stesso proceda al riesame della controversia alla luce dei principi di diritto sopra enunciati, nonché al regolamento delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; accoglie la prima censura dell’unico motivo del ricorso principale e dichiara assorbita la seconda e la terza censura del medesimo ricorso principale nonché il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per le spese di questo giudizio, alla Corte d’appello di Genova.

Roma, 17 giugno 2003.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 23 APR. 2004.