Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 4 Febbraio 2005

Sentenza 13 maggio 1998, n.4802

Corte di Cassazione. Prima Sezione Civile. Sentenza 13 maggio 1998, n. 4802: “Esclusione unilatrale di uno dei bona matrimonii: ai fini della delibazione occorre la conoscenza o conoscibilità della riserva”.

Cassazione civile, SEZIONE I, 13 maggio 1998, n. 4802

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Angelo GRIECO
Presidente
Pasquale REALE
Giovanni LO SAVIO
Giammarco APPUCCIO
Giulio GRAZIADEI
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

L.R., elettivamente domiciliato in ROMA VIA CITTÀ DELLA PIEVE 19, presso l’avvocato CARLO MARTINO, che lo rappresenta e
difende giusta delega a margine del ricorso;
Ricorrente

contro

A.A., elettivamente domiciliata in ROMA VIA C. MORIN 12, presso l’avvocato G. CERTO, rappresentata e difesa dall’avvocato
TERESIO CORRENTI, giusta procura a margine del controricorso;
Controricorrente

contro
PROCURATORE GENERALE presso la CORTE di APPELLO di VENEZIA, PROCURATORE GENERALE presso la CORTE SUPREMA di CASSAZIONE;
Intimati

avverso la sentenza n. 971/95 della Corte d’Appello di VENEZIA, depositata il 31-07-95;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24-09-97 dal Consigliere Dott. Giovanni LOSAVIO;

udito per il ricorrente, l’Avvocato Bottiglieri, con delega; che ha
chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Giovanni LO CASCIO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con sentenza del Tribunale Ecclesiastico Regionale Calabro del 24 luglio 1990, ratificata dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Campano d’appello e dichiarata esecutiva con decreto 1 giugno 1992 del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, era dichiarata la nullità del matrimonio concordatario contratto in Padova il 5 giugno 1975 da R.L. e A.A., trascritto nei registri dello Stato civile del Comune di Padova.
Con atto notificato il 22 novembre 1993 il L. citava in giudizio, davanti alla Corte d’appello di Venezia, l’A., chiedendo che fosse dichiarata la esecutività della sentenza del giudice ecclesiastico. La convenuta si costituiva in giudizio e si opponeva alla domanda, asserendo, da un lato, che tale pronuncia contrasta con l’ordine pubblico perché la riserva mentale dell’attore circa la indissolubilità del vincolo, posta a fondamento della dichiarazione di nullità del matrimonio, non era mai stata manifestata ad essa convenuta e, dall’altro, che già era passata in giudicato la sentenza che aveva pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ponendo a carico del L. l’assegno divorzile di lire 1.000.000 mensile; in via subordinata, chiedeva che fosse confermata tale statuizione patrimoniale o, quanto meno, disposta una congrua indennità; in via istruttoria chiedeva l’ammissione dell’interrogatorio del L. e di una prova per testimoni sulle proprie condizioni economiche. Intervenuto nel giudizio il Procuratore generale e posta dall’istruttore la causa in decisione, la Corte d’appello, con la sentenza 31 luglio 1995, qui impugnata, rigettava la domanda del L., – avendo ritenuto che la esclusione unilaterale – da parte del L. – del principio della indissolubilità del matrimonio, sul fondamento della quale era stata dichiarata la nullità del matrimonio, “secondo quanto si evince sia dalla sentenza di primo grado sia da quella di secondo grado, non risulta essere stata portata a conoscenza della moglie, che per altro non avrebbe nemmeno potuto scoprirla usando la normale diligenza”.
Contro tale decisione ha proposto ricorso per cassazione il L., enunciando due motivi di impugnazione illustrati con “memoria”. Resiste con controricorso A.A.

Diritto

Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce violazione dell’art. 8 dell’Accordo 18 febbraio 1984 tra Santa Sede e Stato Italiano, nonché del corrispondente punto del relativo protocollo addizionale, come ratificato con legge 25 marzo 1985, n. 121, lamentando che la Corte d’appello, contro l’esplicito divieto normativo, abbia proceduto al riesame del merito, rielaborando il materiale probatorio del processo ecclesiastico, disattendendo l’accertamento contenuto nella sentenza circa la conoscenza della riserva mentale del marito acquisita, già prima del matrimonio, dalla A. e, perfino, stravolgendo il significato delle inequivoche espressioni letterali contenute nelle conclusioni della pronuncia. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce carenza assoluta di motivazione o comunque, insufficienza e contraddittorietà su punto decisivo della controversia, denunciando che la Corte di merito non abbiadato adeguata ragione di una decisione in palese contrasto con le risultanze del processo canonico.
Il primo motivo, formulato come violazione della norma speciale che fissa il limite del sindacato del giudice italiano all’atto della dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità di matrimonio pronunciata dal Tribunale ecclesiastico (e che ribadisce il generale divieto di riesame del merito indirettamente posto dall’art. 798 c.p.c.), non è fondato.
È appena il caso qui di richiamare la più recente giurisprudenza di questa Corte (e in particolare le sentenze 2138-1996 e 2330-1994) secondo cui, in presenza della dichiarata esclusione di uno o più dei bona matrimonii, quale causa di nullità del matrimonio concordatario, l’accertamento rimesso al giudice italiano della conoscenza, o della conoscibilità, di tale esclusione da parte del coniuge non partecipe della relativa riserva deve essere condotto sul fondamento degli elementi obbiettivi di prova acquisiti nel processo ecclesiastico (documentati negli atti relativi, non necessariamente limitati al testo delle decisioni). Il contenuto della sentenza ecclesiastica vincola perciò, il giudice della delibazione quanto ai fatti che in essa risultano accertati, ma non gli pone alcun obbligo di applicare i principi enunciati circa la raggiungibilità della prova della simulazione e ciò non soltanto in considerazione della totale autonomia di valutazione del giudice italiano rispetto a quello ecclesiastico, ma innanzitutto tenuto presente che il tema rispettivo dei due giudizi non coincide, giacché il primo è diretto ad accertare la sussistenza della voluntas simulandi di un coniuge, mentre il secondo deve verificare il profilo del tutto irrilevante nella disciplina canonica del matrimonio e, cioè, la conoscenza o la conoscibilità della riserva unilaterale. Il divieto, dunque, del riesame del merito, riaffermato con (non necessaria) perentorietà dal punto 3, sub b), dell’art. 4 del “protocollo addizionale” (rispetto alla generale esclusione in tema di delibazione della sentenza straniera, risultante dall’art. 798 c.p.c. che, prevedendo i casi in cui è ammesso il riesame del merito, non richiama il punto 7 del precedente art. 797), non consente al giudice italiano di integrare con una rinnovata istruzione i materiali probatori acquisiti nel processo ecclesiastico; nè di disattendere gli obbiettivi elementi di conoscenza documentati negli atti di quel giudizio. Ma tale divieto non può ovviamente precludere al giudice italiano (chiamato ad esprimere quella valutazione, estranea al tema del giudizio canonico, di compatibilità con il principio di salvaguardia dell’affidamento negoziale incolpevole, essenziale nell’ordine pubblico interno) di provvedere alla “valutazione delle prove” secondo le regole del processo civile (art. 116 c.p.c.), pure con riferimento alla efficacia probatoria delle dichiarazioni personali delle parti. Ebbene, l’esame della decisione qui impugnata convince che la Corte di merito si è attenuta ai principi ora richiamati e che, in particolare, ha fondato il suo convincimento sulle dichiarazioni di R.L. come riprese in due passi del testo della sentenza ecclesiastica (precisamente dalla Corte indicati con il riferimento alle “pagine” e “ai punti”) e sulla testimonianza del fratello di lui che, come registra la stessa sentenza ecclesiastica, riferì di un colloquio tra i futuri coniugi nel quale essi avevano considerato la eventualità di una loro “separazione” (“se le cose domani non vanno”), con espressione – dunque – palesemente non incompatibile con la convinzione della indissolubilità del matrimonio. Sicché dalla lettura della decisione impugnata si evince con certezza che sul punto della conoscenza della unilaterale riserva concepita dal L. le fonti di conoscenza sono costituite dalle dichiarazioni dello stesso L. e dalla testimonianza del fratello di lui e la valutazione di esse secondo il “prudente apprezzamento” del giudice (art. 116 c.p.c.) non può per certo integrare la indebita invasione nel “riesame del merito” il cui divieto è ribadito dall’art. 4 del”protocollo addizionale”.
La stessa argomentazione del primo motivo, benché intitolato alla violazione di norme di diritto, esprime insieme una radicale censura diretta alla valutazione di merito della sentenza impugnata e anticipa, dunque, la esplicita deduzione di vizio della motivazione (per “carenza assoluta”, “nonché insufficienza e contraddittorietà”) formalizzata nel secondo motivo, dove si denuncia che la Corte di merito non abbia dato adeguata ragione di una decisione in asserito palese contrasto con le risultanze del processo ecclesiastico. Ma è agevole riconoscere che, con una tale censura, il ricorrente contrappone una valutazione di segno opposto a quella argomentata nella sentenza impugnata e non indica affatto gli elementi di intrinseca contraddittorietà o insufficienza che sarebbero dovuti risultare dal testo stesso della decisione, invece – alla verifica logica – esauriente e coerente, là dove, da un lato, ha fatto riferimento – come già si è osservato – alle dichiarazioni di R.L. riprese in due punti della sentenza ecclesiastica di primo grado e ha considerato, dall’altro, che la testimonianza di Mario L. (riportata nella stessa sentenza) prospetta la comune considerazione dei fidanzati circa la eventualità di una loro “separazione” (e non già dello scioglimento del vincolo) e non costituisce, perciò, prova della conoscenza che la A. abbia avuto della riserva unilaterale (incontestabilmente accertata nel processo ecclesiastico) concepita dal futuro marito.
E che, in effetti, il ricorrente contrapponga una diversa interpretazione degli elementi di conoscenza offerti dal processo ecclesiastico è fatto palese dalla testuale citazione alla pagina 9 del ricorso dove non si contraddice l’elemento obbiettivo riferito dalla Corte di merito con riguardo alla testimonianza di Mario L., che anzi ne risulta confermato, divergendo invece il significato che la difesa del ricorrente attribuisce alla comune accettazione preventiva della eventualità della “separazione” (“se le cose non fossero andate”), della quale ha riferito il testimone e alla quale si sarebbe poi richiamato lo stesso R.L. “nel decidersi per la separazione che ha luogo di comune accordo” (pagina 9, settima riga, del ricorso).
Nè può costituire ammissibile censura di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia la mera testuale citazione di una proposizione descrittiva della sentenza ecclesiastica, letteralmente assertiva della circostanza che il L. rese partecipe la fidanzata del suo proposito di eventualmente ricorrere al divorzio, quando il ricorrente non dice, come sarebbe stato necessario, a quale fonte di conoscenza si riferisca sul punto il giudice ecclesiastico, che ben potrebbe aver fatto richiamo alle dichiarazioni stesse del L. (che ovviamente non possono costituire fonte di prova nel processo civile); mentre, al fine di contestare gli argomenti che la Corte di merito ha fondato su diversi – e di significato opposto – riferimenti testuali alla sentenza ecclesiastica, non basta certo affermare che tali riferimenti sarebbero arbitrariamente avulsi dal contesto della motivazione della stessa decisione del giudice ecclesiastico.
Il secondo motivo del ricorso e la censura di incongrua motivazione anticipata nel primo motivo, poiché contrappongono – ripetesi – al giudizio della Corte di merito – un diverso apprezzamento degli elementi di conoscenza desumibili dalla sentenza ecclesiastica di annullamento, e dunque prospettano il riesame del merito, sono inammissibili.
Il ricorso, in conclusione, affidato a motivi in parte infondati e in parte inammissibili, deve, perciò, essere rigettato. Soccombente, il L. è tenuto e condannato al rimborso delle spese di questa fase del giudizio a favore della resistente.

P.Q.M

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio, a favore della resistente, liquidate in complessive lire 3.177.950, delle quali Lire 3.000.000 per onorari di avvocato.