Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

Olir

Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 7 Gennaio 2005

Ordinanza 01 ottobre 2002

TRIBUNALE ORDINARIO DI VENEZIA
SEZIONE DEL GIUDICE DELLE INDAGINI PRELIMINARI
N. 154/99 R.G. notizia di reato
N. 544/99 R.G. G.I.P.

ORDINANZA di archiviazione
Il Giudice per le Indagini Preliminari dr. Giandomenico Gallo

letti gli atti del procedimento penale sopraindicato nei confronti di *** *** *** ed altri tutti indagati per il reato di diffamazione (artt. 81 cpv, 110, 595, III comma, c.p.) a seguito di una querela proposta da ***, “Anziani” della Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova di ***;

vista la richiesta di archiviazione del P.M.;

sentiti i difensori delle parti nel corso dell’udienza camerale celebrata in data 19 settembre 2002 ai sensi degli artt. 409 e 410 c.p.p. a seguito dell’opposizione proposta dai predetti querelanti;

a scioglimento della riserva di cui alla citata udienza;

OSSERVA

Le difese degli indagati hanno eccepito che la querela è stata presentata da soggetti non legittimati in quanto i querelanti sono soltanto degli associati “Anziani” della comunità di *** e non già i legali rappresentanti della Congregazione come prescritto dall’art. 337 c.p.p.

I difensori degli opponenti, al riguardo, hanno fatto presente che in ogni caso la querela era stata presentata da coloro che erano delle parti offese poiché i fatti diffamatori si riferivano alla comunità di ***.

Il procedimento, infatti, è stato originato da una querela proposta dalle anzidette persone che hanno ritenuto diffamatorio quanto narrato da alcuni ex Testimoni di Geova della comunità di *** e da alcuni loro familiari in un servizio giornalistico della RAI dal titolo “La figlia rapita” a cui era seguita un’intervista all’allora Presidente della Camera *** ***.

Sono stati iscritti, quindi, nel registro delle Notizie di Reato gli intervistati, i giornalisti e la citata onorevole.

E’ da precisare che la querela è stata presentata al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma che l’ha trasmessa per competenza territoriale all’A.G. di Venezia.

A Roma, peraltro, si è proceduto per gli stessi fatti in quanto anche il legale rappresentante della Congregazione ha proposto querela.

Ovviamente è necessaria, prima dell’esame del merito, la risoluzione della questione giuridica circa la legittimazione a proporre querela.

In diritto

Si è ritenuto, innanzitutto, di accertare quale sia la natura giuridica della Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova al fine di eliminare in radice qualunque perplessità alla luce di quanto stabilito dall’art. 337 c.p.p.

E’ noto come da tempo dottrina e giurisprudenza hanno riconosciuto a tale Congregazione la qualifica di associazione (ancorché di fatto) ai sensi del codice civile tanto più che essa è regolarmente munita di uno statuto associativo.

Attualmente qualunque eventuale problema è superato dal fatto che col d.P.R. 31 ottobre 1986 n. 783 ne è stata riconosciuta la personalità giuridica.

E’ indiscutibilmente chiaro, quindi, che deve essere applicata la disposizione di cui all’art. 337 c.p.p. che ha risolto i contrasti interpretativi in tema di soggetti legittimati stabilendo espressamente che le persone giuridiche, gli enti o le associazioni possono e devono presentare la querela a mezzo dei legali rappresentanti.

Ciò significa che solo tale persona fisica è legittimata a rappresentare la persona giuridica con un atto di straordinaria amministrazione di carattere penale.

E con riferimento proprio alla diffamazione è pacifico in giurisprudenza che non solo una persona fisica, ma anche un’entità giuridica o di fatto – una fondazione, un’associazione ed in particolare un sodalizio di natura religiosa – possa rivestire la qualifica di persona offesa dal reato: è infatti concettualmente ammissibile l’esistenza di un onore e decoro collettivo, quale bene morale di tutti gli associati o membri, considerati come unitaria entità, capace di percepire l’offesa.

E’ stato affermato, d’altra parte, che il soggetto legittimato ad esercitare il diritto di querela spettante ad una persona giuridica o ad un’associazione non riconosciuta, non essendo indicato espressamente nella legge penale, deve essere individuato secondo la disposizione di cui all’art. 75 commi 3 e 4 c.p.c., giusta il rinvio contenuto nell’art. 91 cpv. c.p.p. per cui per le associazioni non riconosciute, in mancanza di specifici accordi o di norme statutarie che individuino le persone alle quali è conferita la presidenza o la direzione, tali qualifiche vanno riferite alla più alta carica associativa cui spetta la gestione dell’ente; solo in mancanza di organi istituzionali dell’ente stesso a ciascun componente ne va riconosciuta la rappresentanza.

Per converso, quindi, deve essere escluso che possa presentare querela in rappresentanza dell’associazione uno qualunque degli associati.

A tacer d’altro, l’ipotesi è indirettamente ma chiaramente esclusa dal diritto positivo giaccè altrimenti la citata disposizione non avrebbe avuto ragione di essere formulata in quel modo.

Questo giudice non ignora che la Suprema Corte ha affermato che la legittimazione compete anche ai singoli componenti allorché le offese si riverberano direttamente su di essi, offendendo la loro personale dignità.

Ma a parte il fatto che tale opinione della Corte sembra presupporre che l’ente o l’associazione non sia riconosciuto sono, in ogni caso, necessarie una serie di precisazioni onde evitare facili e fuorvianti generalizzazioni.

Innanzitutto, si deve tener conto del fatto che quelli di cui agli artt. 594 e ss. c.p.p. sono reati contro «la persona» e dalla stessa formulazione delle norme si rileva che soggetto passivo può essere soltanto una persona determinata.

Certo, se l’offesa fosse diretta contro una pluralità di persone le quali, per qualche elemento comune (ad esempio, appartenenza ad un dato studio professionale) siano identificabili e se essa fosse rivolta contro tutti o contro qualcuno in particolare sussisterebbero gli estremi di un delitto contro l’onore dal momento che sarebbe ravvisabile il requisito della determinatezza personale.

Infatti, è pacifico che ai fini dell’individuabilità dell’offeso non occorre che l’offensore ne indichi espressamente il nome, essendo sufficiente che l’offeso possa venire individuato per esclusione, in via deduttiva, tra una categoria di persone.

La natura dei beni giuridici che la legge penale tutela mediante i reati di cui si discute, invece, esclude che possano essere soggetti passivi di tali reati le collettività considerate nei singoli componenti.

In questo caso l’accusa eventualmente offensiva è rivolta specificamente contro l’ente mentre è del tutto generica ed indeterminata, come nel caso di specie, e non consente certo una individuazione di un qualunque soggetto fisico.

In altre parole, il solo fatto di appartenere ad una categoria così ampia quale quella di una comunità nazionale (se non, addirittura, mondiale) non legittima la possibilità di ritenersi offeso dal reato uno qualunque degli appartenenti senza che sia dato riscontrare un qualunque riferimento, di una pur minima valenza, al soggetto stesso.

A riprova, si ritiene che, comunque, occorra un criterio oggettivo per l’individuazione del soggetto passivo del reato di diffamazione a mezzo stampa che deve essere deducibile in termini di affidabile certezza.

Tale criterio oggettivo non è surrogabile neanche con intuizioni o soggettive congetture, a fronte della genericità di un’accusa denigratoria se dal contesto non emergano circostanze obiettivamente idonee alla rappresentazione di tale oggettivo coinvolgimento.

In conclusione, è pacifico che per la sussistenza del delitto di diffamazione a mezzo della stampa (come di ogni altra forma di diffamazione) la persona cui è diretta l’offesa deve essere determinata: non è necessario che sia indicata nominativamente, ma occorre che sia indicata in modo tale da poter essere agevolmente e con certezza individuata.

La diffamazione, infatti, postula la propalazione o la diffusione di notizie lesive della reputazione di un soggetto determinato o almeno sicuramente e inequivocabilmente identificabile; ed il reato di diffamazione non sussiste quando l’atteggiamento descritto e che si ritiene diffamatorio sia riferibile non ad un determinato soggetto, ma ad una generica pluralità di soggetti non identificabili né individuabili specificamente.

Nel caso in esame, a nulla rileva la personale convinzione di un singolo il quale non solo non può identificasi nell’offeso dal reato, secondo i concetti testé riferiti, ma non è neanche legittimato a rappresentare gli altri consociati non avendo alcun mandato a tal fine.

E’ pur vero che la S.C. ha sostenuto che ai fini del reato di diffamazione a mezzo stampa nei confronti di una collettività (nella specie ebraica) non è necessario che l’offesa sia percepita da tutti i componenti del gruppo ma proprio tale sentenza ha precisato che possono essere soggetti passivi e danneggiati del reato di diffamazione le comunità israelitiche locali e l’unione di tali comunità “in quanto sono costituite per legge come persone giuridiche” (r.d. 30 ottobre 1930, n. 1731).

Tuttavia, proprio la citata decisione precisa che “La qualità di soggetto passivo e danneggiato del reato di diffamazione nei confronti della collettività ebraica può essere rivestita anche dal singolo appartenente alla razza ebraica, dovendosi ritenere il comune interesse della collettività ebraica, a differenza di quello generale per sua natura indivisibile, suscettibile di frazionamento e di considerazione individuale”.

Tale testuale affermazione rende evidente la inammissibilità di un generico principio circa la legittimazione alla querela anche dell’appartenente alla comunità: l’appartenenza alla razza ebraica non viene in considerazione tanto per l’aspetto religioso quanto soprattutto – e forse esclusivamente – per la valenza politica di tale stato.

E’ ben noto e non occorre neanche accennare a quali siano le molteplici implicazioni dell’essere ebreo.

Non è questo certamente il caso dell’appartenente alla Congregazione dei Testimoni di Geova il quale molto più semplicemente è solo un aderente ad una confessione religiosa!

Piuttosto, occorre tener conto del fatto che la Suprema Corte ha fatto presente che nel caso delle persone giuridiche e degli enti collettivi non è preclusa la configurabilità di una concorrente offesa all’onore o alla reputazione delle singole persone che dell’ente fanno parte a condizione che l’offesa non si esaurisca in valutazioni denigratorie che riflettano esclusivamente l’ente in quanto tale, ma investano, o attraverso riferimenti espliciti, o mediante un indiscriminato coinvolgimento nella riferibilità dell’accusa, i singoli componenti, così danneggiati nella loro onorabilità individuale.

Il concetto, tuttavia, deve essere applicato restrittivamente: si deve ritenere che la legittimazione del singolo componente sia concorrente con quella del rappresentante dell’associazione solo allorché – come illustrato in precedenza – l’affermazione denigratoria colpisca “direttamente” ed “immediatamente” anche determinate, individuate o individuabili, persone fra i membri dell’associazione.

Altrimenti, per restare proprio al caso che ci occupa, si dovrebbe arrivare all’assurdo che rivestono la qualità di parti offese e, quindi, possono presentare la querela i Testimoni di Geova di tutta Italia o di tutto il mondo dal momento che le critiche a quella religione investono pressocchè sempre i comportamenti dei fedeli!

A titolo di esempio, al riguardo, è possibile citare testualmente un passo dell’intervista in contestazione:”…In effetti il testimone di Geova svolge una vita separata dal mondo, ogni energia deve essere convogliata nella predicazione, nello studio, nel parlare ad altri della propria dottrina, e nel far questo si raggiungono anche dei livelli di fanatismo incredibili, in quanto non si riesce ad avere un rapporto equilibrato con l’altro, cioè tutto si svolge quasi in un clima di guerra, cioè in qualche modo si è sempre in contrasto con gli altri”.

E’ di tutta evidenza come si parli del tutto genericamente del comportamento e degli atteggiamenti dei Testimoni di Geova senza un particolare riferimento alle singole persone fisiche.

Quindi, la problematica in esame molto semplicemente deve essere risolta alla luce del concetto che la diffamazione per costituire reato deve ledere una persona determinata.

Non si deve dimenticare che la persona offesa dal reato alla quale spetta il diritto di querela ai sensi dell’art. 120 c. p. è il titolare dell’interesse direttamente protetto dalla norma penale, la lesione o esposizione a pericolo del quale costituisce l’essenza del reato, e non anche il titolare di interessi che solo in via eventuale sono pregiudicati dalla azione delittuosa.

Nel caso della diffamazione di un’associazione, soprattutto religiosa, proprio perché è stata riconosciuta la qualità di parte offesa all’ente in quanto è identificabile un onore o un decoro collettivo, quale bene morale di tutti gli associati o membri, considerati come unitaria entità, capace di percepire l’offesa appare illogico, poi, sostenere che anche i singoli membri siano persone immediatamente offese dal reato.

Qualunque “considerazione” riguarda, per così dire, l’ideologia ed il gruppo di cui le persone fanno parte; il fatto che ci si riferisce anche agli aderenti, cioè alle persone fisiche, è solo una conseguenza inevitabile.

Il gruppo è il punto di riferimento e le persone vengono in secondo piano: la persona giuridica è formata dalle persone fisiche ma si distingue da esse tanto vero che ha una propria personalità giuridica e diventa soggetto di diritto.

Si è giustamente affermato che “il complesso di persone fisiche è trattato dal diritto come una persona sola poiché le persone giuridiche perseguono scopi che trascendono la vita o le possibilità del singolo”.

Nel caso di specie, poi, la querela era stata proposta anche dal legale rappresentante della persona giuridica il quale, in tal modo, ha agito per conto di tutti i membri, cioè delle persone fisiche che, in base alle regole della persona giuridica, hanno in definitiva dato a costui la delega a rappresentarli come gruppo.

Né può essere fatto valere un criterio territoriale intendendosi legittimati nella fattispecie in questione i Testimoni di ***.

I Testimoni di *** non hanno affatto agito con comportamenti anomali o, comunque, divergenti da quelle che sono le “regole” della Congregazione tanto vero che sono stati i protagonisti della vicenda giornalistica proprio per la loro piena osservanza e, quindi, quali «modelli» di quella fede.

Quel Centro religioso è stato solo l’occasione dal momento che la storia su cui è stato incentrato il servizio – e che ha dato spunto alle considerazioni ritenute offensive – si è verificata in quella località.

Avrebbe, però, potuto verificarsi negli stessi termini in qualunque altro luogo ad opera di qualunque altra persona appartenente a quell’ente.

A riprova, si è affermato nell’intervista:”Qualcuno tra gli anziani aveva cominciato a paventare la possibilità che una volta maggiorenne io avessi potuto lasciare la mia famiglia ed ottenere accoglienza presso una delle famiglie della Congregazione”.

Gli “Anziani” del gruppo *** vengono indicati non già quali attori di un’iniziativa straordinaria bensì quali interpreti di un canovaccio assolutamente solito degli aderenti a quella ideologia.

Ed il richiamo agli “anziani” riguarda non già le singole e determinate persone fisiche che hanno avuto quella idea ed hanno preso quell’iniziativa bensì i membri che per la loro posizione all’interno del gruppo sono deputati a portare avanti certi discorsi.

Inoltre, deve essere tenuto conto del fatto che in tutta l’intervista viene utilizzato come soggetto “Loro” pronome che in effetti non è riferito alle persone di *** bensì in genere ai Testimoni.

Tanto vero che si parla di «loro letteratura» che non significa certo una letteratura degli adepti ***, che non esiste neanche.

La madre di un ex Testimone ha anche testualmente affermato:”L’avevo un po’ affidata a loro su questo insegnamento”.

Il richiamo all’insegnamento si riferisce chiaramente ai dettami della confessione religiosa non già a quello che veniva fatto a ***.

Alla luce di quanto riferito in precedenza, quindi, anche da questo punto di vista le singole persone fisiche non possono ritenersi legittimate al di fuori degli organi statutari.

Piuttosto, la potestà a proporre querela per il reato di diffamazione dovrebbe certamente essere riconosciuta a costoro qualora il fatto eventualmente diffamatorio li avesse riguardati direttamente e, cioè, qualora fossero stati loro ascritti dei comportamenti “disdicevoli” indipendentemente dai dettami e dalla prassi dell’associazione.

Ad esempio, con riferimento proprio al caso di specie, qualora fossero stati accusati di essere andati più in là di quanto stabilito dalla Congregazione e di aver posto in essere degli atti illeciti.

Ma di tale eventualità si riferirà successivamente nell’esaminare le posizioni degli intervistati.

Infatti, tanto premesso, occorre ora esaminare le posizioni dei vari indagati – che si possono concentrare in gruppi, ad eccezione di *** *** – con l’avvertenza che la disamina può a questo punto limitarsi a brevissime considerazioni.

*** ***

Tenuto conto di quanto sopra, appare evidente come non sussista il benchè minimo aggancio di quanto riferito nella sua intervista dall’allora Presidente della Camera non solo alla Congregazione dei Testimoni di Geova quanto soprattutto al gruppo di adepti di ***.

L’intervistatore chiede all’on. *** la sua opinione specificamente sulla “crisi della famiglia” parlando testualmente e genericamente di:”…religioni nuove,…razze nuove,…sette nuove”.

E l’intervistata del tutto altrettanto genericamente – si ribadisce senza mai alcun aggancio ai Testimoni di Geova – parla in generale solo della crisi della famiglia.

Il fatto, poi, che durante l’intervista, siano comparsi nel filmato dei riferimenti chiari ed espliciti al centro di *** dei Testimoni di Geova, indipendentemente da qualunque valutazione di merito, è circostanza del tutto indipendente sia dal contenuto del discorso dell’indagata sia da una sua volontà.

A tutto concedere si dovrebbe dimostrare – e non sussiste alcuna prova al riguardo – che l’on. *** sapesse e volesse che le sue affermazioni fossero in collegamento diretto con la storia da cui aveva tratto spunto l’intervista.

Pertanto, il procedimento deve essere senz’altro archiviato nei suoi confronti

gli intervistati

Si è già ampiamente riferito come gli attuali querelanti non fossero legittimati in genere a proporre l’istanza punitiva e che occorre solo verificare se essi siano stati direttamente chiamati in causa per qualche loro comportamento anomalo rispetto agli atteggiamenti degli aderenti a quella religione.

In tal senso, una circostanza che potrebbe avere una valenza diffamatoria potrebbe essere quella del racconto delle dimissioni di un’adepta poiché l’intervistata asserisce esplicitamente che le fu negata la lettura della lettera con cui comunicava i motivi del suo ritiro.

Non si può non rilevare, tuttavia, che non si riesce a comprendere quale offesa alla reputazione di una persona possa rivestire l’affermazione che non si sia voluto leggere una lettera.

Tanto più che nel racconto si riferisce anche che erano state distribuite delle fotocopie di quella lettera che, però, nessuno dei presenti ritenne di leggere.

Né rileva ai fini della legittimazione il fatto che la principale intervistata ha riferito:”…gli uscieri [alcune persone che si trovavano in fondo alla sala per far rispettare la disciplina, n.d.e.] si lanciarono come aquile e ci fecero indietreggiare fino all’uscita dalla sala”.

Non solo non si ravvisa una valenza diffamatoria trattandosi solo del racconto di un fatto di cui non è stata contestata la veridicità, non solo chiaramente gli “Anziani” non si identificano certo con questi “uscieri”, ma è anche tutto da dimostrare – e difetta la prova al riguardo – che siano stati i tre “Anziani” che hanno presentato la querela a dare precisi ordini agli “uscieri” di usare la violenza contro quella persona ed i suoi familiari.

In realtà, un solo punto del racconto potrebbe rilevare ai fini che ci interessano poiché una delle intervistate ha riferito che ad un certo punto:”…uno dei tre anziani mi ha preso per il cappotto, mi dimenava, mi spingeva con forza”.

A tale riguardo, tuttavia, occorre fare due considerazioni che eliminano subito qualunque perplessità.

In primo luogo, l’indicazione di “uno dei tre anziani” senza alcun altro riferimento non può integrare il reato di diffamazione data la genericità dell’affermazione senza alcun preciso riferimento.

In effetti, non è proprio dato sapere quale dei tre!

In secondo luogo, l’episodio non è mai in alcun modo stato contestato né nella querela né nell’opposizione né è mai stata chiesta la punizione degli indagati per tale parte del servizio giornalistico.

E trattandosi di diffamazione del tutto analoga a quella commessa a mezzo stampa si devono applicare gli stessi concetti ed, in particolare, quello della veridicità del fatto raccontato.

Quindi, non è ravvisabile alcun fatto diffamatorio nei confronti direttamente dei querelanti ed il procedimento deve essere archiviato anche per tale aspetto.

i giornalisti della Rai

Una volta esclusa la ritualità della querela in questo procedimento per i motivi illustrati consegue che il procedimento deve essere archiviato anche nei confronti dei giornalisti della RAI.

Oltretutto, in ogni caso, questo giudice condivide integralmente le osservazioni sul «diritto di critica», i cui limiti sono stati nella specie rispettati, riportate nella sentenza del G.I.P. di Roma pronunciata all’esito dell’udienza preliminare in data 14 giugno 2002 proprio per il servizio giornalistico di cui si discute.

Tale sentenza è perfettamente nota sia agli opponenti che agli indagati ed una copia è stata prodotta in questo procedimento per cui possono richiamarsi le articolate ed approfondite motivazioni sia in diritto che in fatto.

***

In conclusione, non appare necessario, ovvero anche solo opportuno, l’espletamento delle investigazioni richieste dai concorrenti dal momento che da tutti i punti di vista il procedimento non ha motivo di proseguire e ne deve essere immediatamente disposta l’archiviazione.

PER QUESTI MOTIVI

Visti gli artt. 409 e seguenti c.p.p. dispone l’archiviazione del procedimento suindicato ed ordina la restituzione degli atti al Pubblico Ministero in sede.

Autorizza fin d’ora il rilascio di eventuali copie semplici degli atti, ove richieste, da indagati, parti offese o loro difensori.

Venezia, 1/10/2002