Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 1 Giugno 2004

Sentenza 16 maggio 2002, n.13666

Corte di Cassazione. Sezioni Unite Civili
Sentenza 16 maggio 2002, n. 13666: “IPAB e giurisdizione dell’autorità giudiziria ordinaria”

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Aldo VESSIA
– Presidente aggiunto
Dott. Vincenzo CARBONE
– Presidente di sezione
Dott. Angelo GRIECO
– Presidente di sezione
Dott. Giovanni PAOLINI
– Consigliere
Dott. Antonino ELEFANTE
– Consigliere
Dott. Alessandro CRISCUOLO
– Consigliere
Dott. Roberto PREDEN
– Consigliere
Dott. Vincenzo PROTO
– Consigliere
Dott. Stefanomaria EVANGELISTA
– Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

CASA OSPITALITÀ – CENTRO DI SERVIZI SOCIALI – IPAB – SAN CATALDO, in persona del legale rappresentante pro – tempore, domiciliata in ROMA, presso la Cancelleria della Suprema Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dagli avvocati LEONARDO PALAZZOLO, GIOVANNI
PITRUZZELLA, giusta delega a margine del ricorso;
– ricorrente –

contro

PICCIONE GRAZIA AUSILIA, elettivamente domiciliata in Roma, VIA BOEZIO 45, presso lo studio dell’Avvocato E. MEISSNER, rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONIO MESSINA, giusta delega depositata in data 16-05-2002, in atti;
– resistente con mandato –

per regolamento di giurisdizione avverso la sentenza definitiva n. 240-00 del Tribunale di CALTANISSETTA, depositata il 24-10-00;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16-05-02 dal Consigliere Dott. Stefanomaria EVANGELISTA;
udito l’Avvocato Antonio MESSINA;
udito il P. M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. Alberto CINQUE che ha concluso per il rigetto del ricorso con la dichiarazione della giurisdizione del giudice ordinario.

Fatto

Con ricorso al Tribunale di Caltanisetta la Sig.ra Grazia Ausilia Piccione proponeva appello avverso la sentenza con la quale il locale Pretore – Giudice del Lavoro aveva dichiarato il difetto di giurisdizione sulla domanda proposta nei confronti dell’IPAB – Casa di ospitalità per di S. Cataldo, per ottenere l’accertamento che il contratto di lavoro stipulato con quest’ultima a termine, successivamente prorogato, aveva dato luogo ad un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, a causa della nullità della clausola di durata e della proroga.
II Tribunale accoglieva l’appello, ritenendo, fin l’altro e per quanto ancora rileva in questa sede, la natura privatistica dell’ente convenuto, alla stregua dell’accertata “ispirazione religiosa” dell’attività dello stesso, giusta il criterio desumibile dal D.P.C.M 16 febbraio 1990.
Per la cassazione di questa sentenza la menzionata IPAB ha proposto ricorso affidato a due motivi, limitati alla riproposizione della questione di giurisdizione.
L’intimata non ha proposto controricorso e, tuttavia, all’udienza di discussione è comparso l’avv. Antonio Messina, il quale ha esito la copia del ricorso notificata all’intimata medesima, nonché un foglio datato 24 aprile 2002, recante sia la dichiarazione con la quale quest’ultima gli conferiva mandato a difenderla nel presente giudizio, sia l’autenticazione della sottoscrizione ad opera del detto difensore.
La Corte, con separata ordinanza pronunciate e letta in udienza, ha ritenuto sussistenti gli elementi necessari per la partecipazione dell’Avv. Messina alla discussione ed ha provveduto in conformità.

Diritto

La Corte preliminarmente conferma le statuizioni di cui all’ordinanza menzionata in parte narrativa, osservando che: a) ad esse non è d’ostacolo il consolidato principio (se ne veda la puntualizzazione, da ultimo, in Cass., sez. un., 19 novembre 2001, n. 14539) per cui la procura speciale rilasciata in calce alla copia notificata del ricorso per cassazione anziché in calce o a margine del controricorso rende quest’ultimo inammissibile. Invero, la ragione di tale inammissibilità sta nel fatto che l’indicata modalità di rilascio impedisce di avere certezza che la procura sia anteriore o coeva alla notificazione del controricorso, sicché essa risponde ad esigenze che non si pongono, quando identica modalità sia seguita al solo fine della partecipazione del difensore dell’intimato all’udienza di discussione. b) In questa logica, del resto, la Corte ha già deciso che (cfr. sent. 25 novembre 1996, n. 10441) che, ferme l’inammissibilità del controricorso e l’impossibilità di presentare memorie ex art. 378 cod. proc. civ., la procura a resistere al ricorso per cassazione, rilasciata in calce o a margine della copia del ricorso notificato resta nondimeno valida ai fini della costituzione del resistente in giudizio e della partecipazione del difensore alla discussione. c) Della fondatezza di questa conclusione, peraltro, non è dato fondatamente dubitare neanche al lume del principio di tipicità degli atti elencati dall’art. 83 cod. proc. civ, ai fini dell’abilitazione del procuratore a certificare l’autenticità della sottoscrizione della procura, posto che il ricorso è compreso in quell’elenco e certamente non è la sua notificazione a fargli perdere tipicità, laddove essa costituisce il momento di collegamento con la parte che lo utilizza per redigervi la procura. d) Quanto al requisito (terzo comma dell’art. 83, cit. nel testo modificato dell’art. 1 della legge 27 maggio 1997, n. 141) della materiale congiunzione fra il “foglio separato” – col quale la procura sia stata rilasciata – e l’atto cui essa accede, è da ritenere che esso non si sostanzi nella necessità di una “cucitura” meccanica, ma intenda piuttosto far riferimento ad un contesto di elementi che consentano, alla stregua di prudente apprezzamento di fatti e circostanze, di conseguire una ragionevole certezza in ordine alla provenienza dalla parte del potere di rappresentanza ed alla riferibilità della procura stessa al giudizio di cui trattasi: risultato che ben può ritenersi ottenibile nei casi in cui, la “materiale congiunzione” sia assicurata dalla contestualità della produzione in udienza dei due atti, ad opera dello stesso difensore che intende partecipare alla discussione, considerato anche che gli apprezzamenti suddetti devono pur sempre essere condotti, come è stato posto in luce da queste Sezioni unite con la sentenza 10 marzo 1998, n. 2646, alla luce del rilievo del carattere prevalentemente (ancorché non esclusivamente) privato degli interessi regolati dal codice di rito con le disposizioni concernenti il rilascio della procura (il controllo giudiziario della quale, sotto il profilo della autenticità e specificità, deve da quel carattere trarre criteri di orientamento), nonché tenendo conto delle esigenze inerenti al diritto di difesa, costituzionalmente garantito, davanti a qualsivoglia giudice, in ogni stato e grado del giudizio, ed esprimersi in materia, nella libera scelta del difensore operata dai privati.
Ciò premesso, passando all’esame dei singoli motivi di ricorso, si osserva che il primo denuncia, a fondamento della rinnovata eccezione di difetto di giurisdizione ordinaria, la violazione della legge della Regione Sicilia 9 maggio 1986, n. 22 e dell’art. 14 dello Statuto della medesima Regione.
Si sostiene, in particolare, che, l’ente ricorrente aveva ottenuto la qualificazione pubblicistica all’esito del procedimento amministrativo apprestato dalla normativa locale al fine specifico di selezionare e raggruppare le istituzioni assistenziali secondo il criterio della natura pubblica o privata della loro personalità.
Si soggiunge che questa normativa era stata indicata dalla stessa sentenza della Corte Costituzionale 7 aprile 1988, n. 396 come plausibile modello determinativo degli strumenti classificatori dei menzionati enti, sicché ne risultava l’esclusione, da un lato, dell’applicabilità alla fattispecie delle direttive dettate in materia dal D.P.C.M 16 febbraio 1990, che, peraltro, lasciava alla Regione il compito di verificare in concreto la sussistenza degli elementi rilevatori della suddetta personalità; e dall’altro lato, del potere del giudice ordinario di verificare col proprio accertamento un provvedimento amministrativo di attribuzione della personalità di diritto pubblico.
Col secondo motivo, denunciandosi, in via subordinata, la violazione dell’art. 1 del citato D.P.C.M. 16 febbraio 1990, si contesta al sussistenza del requisito dell’ispirazione religiosa, in base al quale il giudice a quo a ritenuto la natura privatistica dell’ente ricorrente.
Si osserva, in particolare che lo Statuto dell’ente non contempla il perseguimento di alcuna finalità religiosa; che autonoma fu l’iniziativa comunale della sua costituzione; che l’apporto di religiosi allo svolgimento dell’attività dell’istituzione, oltre ad essere parificato, sotto il profilo contributivo e retributivo a quello del personale laico, è quantitativamente non determinante ed è disciplinato ad una convenzione con la Congregazione del Boccone del Povero di Palermo, dalla quale è possibile, per ciascuna delle parti, recedere in ogni tempo, col solo termine di preavviso di tre mesi; che tale apporto non attiene all’esercizio di funzioni amministrative o gestionali o di rappresentanza interna dell’ente;
che, infine il Consiglio di amministrazione è nominato dal Consiglio comunale e pubblica è la principale fonte di finanziamento.
Le esposte censure non hanno fondamento.
Per quanto concerne il primo motivo di ricorso, giova procedere al seguente riepilogo del quadro normativo di riferimento.
Il problema della natura giuridica degli enti di assistenza e beneficenza è stato affrontato, con la sentenza del 7 aprile 1998, n. 396, dalla Corte Costituzionale, la quale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 1 della legge 17 luglio 1890, n. 6972 che definiva “pubbliche” le istituzioni regionali ed infraregionali di assistenze e beneficenza.
All’epoca della c. d. Legge Crispi, in effetti lo Stato, non essendo in grado di istituire idonee e complete forme di assistenza, scelse di considerare pubbliche le istituzioni che esercitavano l’assistenza e le beneficenza, allo scopo di controllare meglio il loro operato. Ma tale normativa, rileva la Corte Costituzionale, appariva, ormai, contraria al principio pluralistico, cui si ispira la Costituzione, oltre che alla nuova realtà sociale, con la conseguenza che, in questo mutato contesto, le istituzioni di assistenza e beneficenza non potevano non essere considerate pubbliche o private a seconda delle specifiche caratteristiche organizzative e strutturali in concreto sussistenti.
Ai fini dell’identificazione del reale e completo contenuto di tale pronuncia di accoglimento, e perciò modificativa dell’ordinamento giuridico, nonché delle conseguenze che ne sono scaturite, giovano i seguenti rilievi.
Alla Corte la questione era stata rimessa dalla Corte di appello di Bologna, adita con l’impugnazione di una IPAB dell’Emilia – Romagna, la quale aveva convenuto il Comune di Bologna e la Regione per sentir accertare nei loro confronti la propria natura di ente privato, dopo che il Tribunale di quella città aveva rigettato la domanda.
La Corte ritenne irrilevante la circostanza, che, a suo tempo, non fosse stato impugnato il decreto attributivo della personalità giuridica, dal momento che questo all’epoca era legittimo e che l’attribuzione della personalità giuridica di diritto pubblico derivava come effetto naturale del riconoscimento e cioè come diretta conseguenza della l. n. 6972 del 1890, sicché venuta meno questa, sarebbe stato possibile accertare, nelle opportune sedi giudiziarie ed amministrative, la natura pubblica o privata dell’ente: e ciò anche in mancanza di un’apposita disciplina legislativa.
La Corte indicò nell’art. 17 del D.P.R. 19 giugno 1979 n. 348, di attuazione dello statuto speciale per la Sardegna e nell’art. 30 della l. Regione Sicilia n. 22 del 1986 i riferenti normativi da assumere come utile punto di riferimento, per l’accertamento in questione, in quanto espressivi di principi generali dell’ordinamento.
La sentenza costituzionale indusse questa Corte, per la maggior parte dei casi adita in controversie in cui si discuteva della natura del rapporto di lavoro dei dipendenti di istituzioni di assistenza e beneficenza, a ritenere: a) che fosse compito del giudice ordinario e suo proprio, qualora chiamato a risolvere la questione di giurisdizione, l’accertamento della natura pubblica o privata dell’istituzione datrice di lavoro: orientamento sorretto dal rilievo che, anche alla stregua della motivazione della Corte Costituzionale e della sede – (giudizio pendente davanti ad un giudice ordinario) – in cui era intervenuta la pronuncia d’incostituzionalità, il riconoscimento della natura pubblica o privata comportava il mero accertamento di un diritto garantito dalla Costituzione; b) che l’accertamento stesso dovesse essere compiuto tenendo conto delle concrete caratteristiche proprie istituzioni prese in considerazione e facendo ricorso ai criteri tradizionalmente indicati dalla giurisprudenza ai fini della distinzione tra enti pubblici e privati, a prescindere dalle denominazioni assunte e dalla stessa volontà degli organi direttivi (Cass. S. U. 18 novembre 1988 n. 6249; Cass. S. U. 29 marzo 1989 nn. 1543, 1544, 1545; Cass. S. U. 13 luglio 1989 n. 3283; Cass. 26 ottobre 1989 n. 4403; Cass. S. U. 19 dicembre 1989 nn. 5680e 5681).
In data 16 febbraio 1990, il Presidente del Consiglio dei Ministri emise un decreto, contenente la direttiva alle Regioni in materia di riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato alle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza a carattere regionale ed infraregionale (G. U. n. 45 del 23.2.1990).
Nel preambolo di tale decreto, si faceva espresso riferimento non soltanto alla sentenza costituzionale n. 396 del 1988 ed all’art. 14 d.P.R. n. 616 del 1977, riguardante la delega alle Regioni delle funzioni amministrative degli organi dello Stato concernenti le persone giuridiche di cui all’art. 12 cod. civ., operanti in materia di assistenza e beneficenza pubblica, ma anche all’esistenza di principi generali dell’ordinamento, che consentivano di qualificare come pubblica o privata un’istituzione.
Enucleando da tali criteri specifici, il decreto stabilì tre categorie di enti, di cui doveva essere riconosciuto il carattere di istituzione privata: a) gli enti a struttura associativa; b) quelli promossi ed amministrati da privati; c) gli enti d’ispirazione religiosa. Perché un ente potesse rientrare nell’una o nell’altra categoria, furono specificati gli elementi, che dovevano congiuntamente esistere. Rimettendo al prosieguo il più dettagliato esame di tali elementi, basti qui osservare che i criteri enucleati nel decreto non erano sostanzialmente diversi da quelli già applicati da questa Corte con le sentenze citate.
Il siundicato D.P.C.M. fu impegnato davanti alla Corte Costituzionale, con denuncia di conflitto di attribuzioni, dalle Regioni Emilia – Romagna e Toscana, ma fu ritenuto pienamente legittimo dalla Corte (Corte Costituzionale 16 ottobre 1990 n. 466).
La Corte, dopo aver rilevato che le IPAB non erano enti dipendenti dalle Regioni e che le funzioni a queste ultime spettanti riguardo alle prime rientravano tra quelle delegate e non tra quelle loro trasferite dallo Stato – (da qui, la legittimità del decreto) – ribadì, con ancor maggior chiarezza di quanto non avesse in precedenza fatto con la sentenza del 1988, che la qualificazione come privata di un’istituzione comportava un’attività di mera verifica di una situazione già esistente, senza esercizio alcuno di discrezionalità, tanto da poter essere compiuto in sede giudiziale.
Ne veniva così confermato l’orientamento di queste Sezioni Unite, secondo il quale avevano oggetto diritti soggettivi non soltanto le controversie in cui fosse in gioco l’esistenza di una IPAB, ma anche quelle concernenti il modo di esistere dell’istituzione e cioè la sua natura pubblica o privata e, quindi, l’individuazione della disciplina in concreto applicabile. E non è superfluo sottolineare che siffatto orientamento è aderente a quelle opinioni della dottrina, che hanno affermato che la qualificazione degli enti operanti nel campo dell’assistenza trova il suo ancoraggio nei principi generali dell’ordinamento, se non addirittura in quelli costituzionali.
Nel successivo corso della propria giurisprudenza, questa Corte, dunque, utilizzando i criteri di cui al D.P.C.M., ha confermato il precedente orientamento (cfr. fra le altre, Cass. n. 11564 del 1990, n. 13024 del 1991, n. 7196, 7298 e 13201 del 1992; nn. 1735, 5538 e 9830 del 1993; n. 3479 del 1994, n. 6342 del 1995, n. 7220 del 1996), senza che, ai fini di siffatta utilizzazione, fosse necessario porsi il problema della natura (di atto normativo subprimario oppure di mera circolare interpretativa) del decreto stesso, trattandosi di atto comunque ricognitivo di principi generali dell’ordinamento, operanti, come si è detto, indipendentemente da esso.
Da tutto ciò si desume con chiarezza che il richiamo, presente nella sentenza costituzionale del 1988, alla normativa della Regione Sicilia: a) non fa assurgere la disciplina richiamata ad ostacolo all’applicabilità alle locali IPAB di criteri identificativi che rispondono ai suddetti principi generali in tema di riconoscimento della personalità giuridica e sui quali, in quanto attinenti al diritto privato, spetta allo Stato intervenire, con apposito D.P.C.M.
riepilogativo ed indicativo di conformi direttive alle Regioni (sentenza Corte Cost. n. 46 del 1990, cit.); b) non può essere letto come idoneo a accreditare l’atto amministrativo reso a conclusione del procedimento contemplato nella medesima normativa di efficacia costitutiva, trattandosi, pur sempre, di un atto meramente ricognitivo di un situazione che, in quanto soggetta ai ripetuti generali, rimane liberamente accertabile dall’autorità giudiziaria ordinaria in applicazione dei medesimi e, in particolare, dello specifico riepilogo compiutone con quella direttiva.
Le censure svolte con l’esaminato motivo di ricorso, dunque, non colgono nel segno e deve ribadirsi, anche con riguardo alla Regione Sicilia, il consolidato orientamento giurisprudenziale per cui spetta alla giurisdizione ordinaria l’accertamento della natura pubblica o privata delle IPAB, indipendentemente dall’esito delle procedure amministrative eventualmente esperite (cfr., da ultime, Cass., sez. un., 26 agosto 1997, n. 8053; Id., 7 maggio 1998, n. 4631; Id., 15 marzo 1999, n. 139; Id., 25 ottobre 1999, n. 751; Id., 22 novembre 1999, n. 812).
Miglior esito non hanno le censure svolte col secondo motivo di ricorso, poiché nella specie sussistono circostanze alla cui stregua può fondatamente riconoscersi il requisito dell'”ispirazione religiosa” che il D.P.C.M. 16 febbraio 1990 indica come autonomamente sufficiente a fondare l’accertamento della natura privatistica dell’ente.
L’art. 1 del testè citato decreto precisa che tale requisito consta di due elementi, ossia di un’attività istituzionale che persegua un indirizzo religioso o comunque si inquadri nell’ambito di una finalità religiosa più generale e di un collegamento dell’ente con una confessione religiosa, realizzata attraverso la designazione di rappresentanti da parte di istituti religiosi ovvero la collaborazione di personale religioso, come modalità qualificante della gestione del servizio.
Da queste precisazioni si desume che, ai fini dell’esclusione dell’ispirazione religiosa non assume rilievo decisivo la circostanza che l’ente operi con risorse fornite prevalentemente dal Comune, poiché l’origine laica dei finanziamenti, è pienamente compatibile con una utilizzazione dei medesimi in modo coerente con la detta ispirazione.
Altrettanto è a dirsi della designazione del consiglio di amministrazione ad opera del Consiglio comunale, poiché nulla impedisce che, in relazione allo scopo assegnato all’ente dallo statuto, alle motivazioni che presiedettero alla sua costituzione, alla tradizione radicata nella coscienza della collettività interessata alla sua azione ed alle concrete modalità di perseguimento di siffatto scopo, un organismo amministrativo non formato da religiosi obbedisca, nelle sue determinazioni, ad un indirizzo religioso.
In effetti, è significativo che l’art. 1 del D.P.C.M. del 1990 non contenga alcun riferimento specifico nè alla provenienza dei mezzi, nè alla qualità personale degli amministratori dell’ente, riferendo invece i tratti caratteristici dell’ispirazione religiosa all’elemento teologico dell’azione amministrativa ed al collegamento con organismi confessionali.
Questi aspetti sono entrambi riconoscibili nel caso di specie.
L’art. 2 dello Statuto, nel testo riferito dalla stessa ricorrente, assegna a quest’ultima lo scopo di prendere servizi sociali ed assistenziali a persone anziane o bisognose, ossia di svolgere di un’attività istituzionale della quale è agevolmente ed oggettivamente predicabile l’indirizzo religioso, in tal senso deponendo, in primo luogo, la compresenza del connotato caritatevole conferito dalla condizione dei destinatari delle prestazioni e della riferibilità, secondo nozione di comune esperienza, di opere così caratterizzate all’atteggiamento pratico cui l’individuo e le istituzioni nelle quali esso esprime la sua personalità sono chiamati dal patrimonio delle virtù fondamentali della religione cristiana.
Si tratta di certamente di una condizione necessaria per ritenere verificato il requisito dell’ispirazione religioso che, ai sensi del D.P.C.M. 16 febbraio 1990 è indice della natura privatistica dell’ente e la sua rilevanza non è sminuita dalla considerazione che profili etici, comunque, si apprezzano nell’azione di enti i quali, per definizione, si collocano nell’area dell’impegno sociale, concorrendo alla tutela di interessi giuridicamente protetti, anche da norme di rango costituzionale.
In effetti, con riguardo alla ricorrente, è da escludere l’attrazione nell’orbita delle organizzazioni rispetto alla cui azione la genericità del momento etico non consente l’emersione della specificità dell’aspetto religioso, stante il coacervo delle circostanze correttamente valorizzate al riguardo anche dal giudice del merito.
Assumono importanza non secondaria al riguardo: a) l’impegno speso da un religioso ai fini della costituzione dell’ente; b) il dato della contiguità di questo, fin dalla sua origine, con l’organizzazione del clero regolare, che fornì la prima sede – ancorché poi rilevata dal Comune ed assegnata al suo patrimonio – e già in epoca remota (1884) somministrò risorse personali significative (come quelle assicurative dalla suore inviate da padre Giacomo Cusmano per lo svolgimento delle attività istituzionali; c) l’aspetto della tradizione, che, come indizio del perseguimento di un indirizzo religioso e della necessità di una conforme interpretazione della vigente disposizione statuaria, è ravvisabile nell’originario Statuto della Casa di ospitalità per indigenti, approvato con r. d. 24 marzo 1872, il quale, attraverso il richiamo alla deliberazione del Consiglio comunale in data 29 maggio 1968 rendeva palese il qualificante intervento di una Congregazione di Carità al fine di questue per la realizzazione di un’entrata “che volenterosa sarà corrisposta dalla pietosa carità degli amministrati”.
Sussiste, poi, anche l’elemento del collegamento con una confessione religiosa, come è comprovato dalla convenzione stipulata con la Congregazione del Boccone del povero, la quale non solo reca un espresso richiamo a compiti “di educazione morale, civile e religiosa”, ma impegna la stessa Congregazione a fornire collaborazione per lo svolgimento dei medesimi, attraverso l’opera di personale religioso.
La rilevanza del collegamento non è infirmata nè dalla circostanza che la consistenza numerica del personale religioso risulta inferiore a quella propria del personale laico, nè dalla libera recedibilità dalla suddetta convenzione.
Quanto al primo aspetto si osserva, infatti, che proprio tale convenzione, in relazione al contesto degli elementi di valutazione sopra riferiti, disvelando l’avvertita necessità degli amministratori di non affidare soltanto a personale laico il disimpegno dell’attività istituzionale, rappresenta la migliore dimostrazione del carattere qualificante della partecipazione religiosa all’attività dell’ente; mentre l’aspetto della recedibilità perde rilievo di fronte al dato oggettivo della lunga durata della collaborazione ascrivibile bensì ad adempimento della convenzione medesima, che risale al 1968, ma derivante, come si è avuto modo di rilevare, da più antica consuetudine di rapporti fra l’ente e le istituzioni confessionali.
Del tutto irrilevante, infine, è che il personale religioso fruisca di trattamento economico e previdenziale non dissimile da quello laico, poiché ciò non incide sulla qualità della collaborazione prestata dal primo e sui caratteri che essa conferisce all’attività dell’ente.
In conclusione, attesa la natura privatistica dell’Istituzione ricorrente, i rapporti di lavoro con essa intercorrenti devono, a loro volta, considerarsi di uguale natura, con conseguente declaratoria, ai sensi dell’art. 382, primo comma cod. proc. civ., della devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario.
Ne segue il rigetto del ricorso.
Sussistono giusti motivi di compensazione delle spese processuali.

P.Q.M

La Corte rigetta il ricorso e dichiara la giurisdizione dell’Autorità giudiziaria ordinaria. Compensa le spese.

Così deciso in Roma il 16 maggio 2002