Ordinanza 03 maggio 2004
Tribunale di Catania. Prima Sezione Civile. Ordinanza del 3 maggio 2004.
Letti gli atti del procedimento n. 4612/04 R.G. Presidenza, relativo al ricorso ex art. 669 bis e segg. c.p.c. proposto da M. A. e R. F. contro G. A.;
Sentiti i procuratori di entrambe le parti e, personalmente, M. A. e G. A. all’udienza del 29.4.2004;
Sciogliendo la riserva formulata al termine di quell’udienza;
Si osserva quanto segue:
1. Con ricorso depositato il 26.4.2004, i coniugi M. A. e R. F. espongono che:
«I signori M. A. e R. F. contraevano matrimonio il ***.
Entrambi i coniugi sono portatori sani rispettivamente delle mutazioni Codone 39 e IVS i nt 110 di beta-talassemia. Di tale condizione essi venivano a conoscenza nel corso degli accertamenti effettuati nell’agosto del 1997 presso l’ospedale pubblico *** di *** (all. 1) e confermata successivamente in data 11.12.2002 durante la preparazione a un ciclo di diagnosi genetica di preimpianto per beta-talassemia effettuato presso il Centro *** di Catania (all. 2), con sede in Catania, via ***.
Come risulta dalle certificazioni mediche allegate e come sarà di seguito specificato, si sottolinea che i coniugi R. già a partire dal 1997 tentavano senza riuscirvi di avere un bambino e, per il raggiungimento di questo fine, si sottoponevano a diversi e numerosi esami diagnostici nonché a interventi chirurgici sia diagnostici che terapeutici con l’obiettivo di ristabilire la propria capacità riproduttiva.
Nel 1997, infatti, sotto la guida e presso lo studio medico del dott. G. di *** da cui erano in cura, essi effettuavano analisi e cure dirette ad ottenere una gravidanza (all. 3). In particolare la signora M. procedeva a stimolazione ovarica mentre il marito si sottoponeva a terapia gonadotropinica intramuscolare finalizzata a migliorare la qualità del seme, risultando una oligozoospermia.
Lo stesso medico aveva anche prospettato la necessità nel caso di gravidanza di procedere a villocentesi, vale a dire ad indagine prenatale, al fine di verificare l’eventuale trasmissione del gene della beta-talassemia al bambino e valutare se ricorrere in tal caso alla eventuale interruzione di gravidanza ai sensi della Legge n. 194 del 1978.
Dopo circa due anni di tentativi privi di esito positivo e sempre sotto un attento monitoraggio, lo stesso medico consigliava alla coppia di rivolgersi a una struttura sanitaria specializzata nella procreazione medicalmente assistita.
Nel 1999 i signori M. – R. si recavano presso il dott. A. D., il quale, dopo avere effettuato ulteriori indagini nel corso del 1998 (all. 4) e 1999 (all. 5), sottoponeva la coppia ad un primo tentativo di riproduzione assistita mediante inseminazione intrauterina.
La signora M., nel luglio del 2000, otteneva una gravidanza a seguito di una tecnica di riproduzione assistita che, tuttavia si interrompeva spontaneamente già nelle prime settimane richiedendo l’intervento dei sanitari per una revisione della cavità uterina (cd “raschiamento”). Tale intervento veniva effettuato nella Casa di cura convenzionata *** di *** (all. 6 e 6 bis).
Dopo un periodo di pausa, nel novembre del 2000, i coniugi decidevano di ritentare, ricorrendo ad una ulteriore inseminazione intrauterina.
La signora M. conseguiva così una nuova gravidanza, ma si verificava un secondo aborto (all. 7). I sanitari procedevano alla revisione della cavità uterina nel dicembre del 2000 (all. 8 e 8 bis). Dall’esame istologico del materiale abortivo e dal persistere della presenza ematica del BetaHCG (ormone della gravidanza), veniva verificato che in realtà si trattava di gravidanza annidatasi all’interno della tuba e quindi extrauterina. Per tale ragione e immediatamente dopo la signora veniva operava in laparoscopia sulla tuba destra per la rimozione del materiale abortivo.
Il *** 2001 la signora M. otteneva una gravidanza biochimica, rilevabile solo ai test ematici, anch’essa arrestatasi dopo i primi giorni (all. 9 e 10).
Dopo questi tre aborti, la coppia si recava a *** presso lo studio del prof. C. F. e lì le veniva consigliata una isteroscopia diagnostica, al fine di verificare la eventualità di una malformazione uterina.
L’isteroscopia diagnostica veniva eseguita contestualmente ad una laparoscopia diagnostica dal dottor G. D. presso l’ospedale di ***, vicino a ***. Da tali indagini veniva diagnosticata la presenza di un setto uterino (una sorta di divisione della cavità uterina, con conseguente restringimento, che poteva rendere difficile lo sviluppo del feto in utero) accompagnata da diagnosi specifica di infertilità (all. 11, 11 bis).
Dopo ulteriori esami (all. 12), il 18.4.2002 si procedeva ad isteroscopia operativa per la correzione del setto uterino con la ricostruzione della cavità uterina (all. 13, 13 bis e 14 e 14 bis).
Nonostante tale intervento e altri tentativi la coppia non riusciva più ad ottenere una nuova gravidanza spontanea.
Solo alla fine del 2002 i coniugi venivano a conoscenza della esistenza della possibilità della diagnosi genetica prima dell’impianto. Tale indagine può essere effettuata solo all’interno di un programma riproduttivo di fecondazione in vitro e avrebbe consentito alla coppia M. – R., da una parte, di individuare in fase precoce l’eventuale trasmissione della malattia genetica di cui ambedue i coniugi sono portatori, risolvendo il problema di ordine genetico e, al contempo, di poter trovare soluzioni indicate alla loro infertilità.
Il *** 2002 i signori M. – R. si recavano presso il Centro *** di Catania, uno dei pochi centri in Italia specializzato nella diagnosi genetica di preimpianto e in particolare nella diagnosi della talassemia e drepanocitosi.
Veniva avviato un protocollo diagnostico (all. 15 e 16) e firmato l’apposito consenso informato (art. 17).
Nei primi mesi del 2003, tuttavia, si evidenziava una cisti nell’ovaio che veniva rimossa.
Il *** 2003 veniva avviato il protocollo riproduttivo (all. 18) con una prima stimolazione e con la produzione di circa 30 follicoli a cui seguiva un prelievo ovocitario con successiva fecondazione in vitro con il cosiddetto metodo ICSI che aveva per effetto la formazione di 6 embrioni, di cui uno solo, dopo l’esecuzione dell’analisi genetica preimpianto per la talassemia risultava non malato. Tale embrione veniva quindi trasferito in utero.
Dopo 14 giorni, tuttavia, si verificava il mancato impianto dell’embrione in utero.
A fine gennaio 2004 i signori ritornavano presso il Centro *** per effettuare un ulteriore tentativo e avviavano i protocolli diagnostici (all. 19).
Conclusa questa fase di aggiornamento diagnostico si iniziava il protocollo terapeutico per un nuovo tentativo.
Si procedeva, pertanto, in data 1.2.2004 all’assunzione da parte della signora M. di un analogo del GnRh a dismissione prolungata (Gonapeptyl depot).
Durante questa prima fase del protocollo di stimolazione ovarica e, precisamente il 10 marzo 2004, entrava in vigore la Legge n. 40 del 2004 sulla Procreazione Medicalmente Assistita.
La coppia continuava il protocollo sulla base della certificazione di infertilità e sterilità richiesta dall’art. 4 della Legge in oggetto. Tale certificazione poggia su alcuni elementi di riscontro medico: 1) il fattore tubarico, accentuatosi dopo la gravidanza extrauterina e l’intervento laparoscopico sulla tuba; 2) la oligozoospermia del marito; 3) il mancato ottenimento di gravidanze per oltre due anni dall’intervento isteroscopico per la riduzione del setto uterino.
Sulla base di tale legge e ai sensi dell’art. 6, il 23 marzo 2004 veniva firmato dalla coppia e dal medico responsabile del Centro *** un primo consenso informato (all. 20) nel quale la coppia veniva edotta della nuova normativa.
I due coniugi, tuttavia, dopo una riflessione attenta, legata soprattutto alla eventualità di trasmettere il gene della talassemia al futuro nascituro, richiedevano in data 23 aprile 2004 per iscritto al Centro *** di procedere alla diagnosi genetica preimpianto ai sensi dell’art. 14 comma 5 della Legge e, all’esito delle risultanze di questa, di non impiantare gli embrioni eventualmente malati (si allega lettera – all. 21).
Il dottor G., direttore responsabile del Centro ***, ribadiva ai coniugi che, in forza della nuova normativa, tale richiesta non era esaudibile sussistendo l’obbligo di contemporaneo impianto di tutti gli embrioni prodotti (art. 14 secondo comma) (all. 22)».
Assumono i procuratori dei ricorrenti che «i coniugi M. e R. ritengono che il rifiuto sia illegittimo perché lede diritti personalissimi quali quelli alla salute, alla autodeterminazione e alla libera scelta e conseguentemente, si ritengono costretti a rivolgersi al giudice al fine di accertare il loro diritto ad avere trasferito gli embrioni sani già in forza dell’ordinamento giuridico vigente e comunque rilevando il palese contrasto della nuova normativa sulla procreazione medicalmente assistita con i principi costituzionali».
Precisano che «nel futuro giudizio di merito chiederanno di accertare il diritto dei ricorrenti ad avere trasferiti e impiantati gli embrioni diagnosticati sani o portatori sani dopo l’effettuazione della diagnosi genetica di preimpianto al fine di conseguire una gravidanza che sia cosciente e responsabile tutelando in tal modo il diritto alla salute della madre e del nascituro».
Chiedono che il Tribunale «con provvedimento ex art. 700 c.p.c. voglia in via urgente dichiarare il diritto dei ricorrenti a trasferire e impiantare nell’utero della signora M. gli embrioni creati che non presentino all’esito della diagnosi genetica di preimpianto patologie genetiche, disponendo in attesa della definizione del giudizio di merito e in via incidentale dell’eventuale giudizio di legittimità costituzionale, la crioconservazione dei residui embrioni risultati malati, ordinando infine alla parte resistente la prosecuzione del protocollo di procreazione medicalmente assistita finalizzato all’impianto degli embrioni sani o portatori sani».
All’udienza tenutasi il 29.4.2004 per la trattazione del ricorso in contraddittorio con il convenuto, si è costituito il dr A. G..
I suoi procuratori assumono essere la legge 19 febbraio 2004, n. 40, lacunosa e contraria alle esigenze specifiche dei ricorrenti e concludono chiedendo «che il Tribunale assuma tutti i provvedimenti ritenuti più opportuni rispetto alla fattispecie in esame, dichiarando sin d’ora la propria disponibilità [rectius: quella del proprio rappresentato] a concludere il trattamento sanitario oggetto del presente giudizio».
2. La materia oggetto di questo procedimento è di evidente complessità e delicatezza.
Le questioni poste al giudice dalle parti coinvolgono beni e valori fra i più importanti dell’esistenza: la vita, la salute, i rapporti fra le possibilità materiali che l’uomo ha di incidere su questi beni e la legittimità etica e giuridica di farlo.
La materia è oggi regolata da una legge approvata dal Parlamento solo poche settimane fa (la legge 19 febbraio 2004, n. 40), all’esito di un dibattito acceso e approfondito nei due rami del Parlamento che si è protratto per anni.
Quel dibattito è stato seguito – com’era logico e giusto che accadesse – dall’opinione pubblica del paese ed è stato oggetto, nelle più diverse sedi, di confronti che hanno messo in luce i moltissimi profili di rilievo della normativa in questione.
Alcuni di questi confronti si sono caratterizzati anche fortemente sotto diversi profili ideologici.
Com’era logico accadesse, in relazione alla molteplicità e al rilievo dei beni e dei valori coinvolti, l’approvazione della legge non ha sopito il dibattito e i confronti, una parte dei quali ha inevitabilmente trasferito nei luoghi di applicazione della legge: i centri autorizzati all’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita e le aule dei Tribunali.
Sempre è dovuto da tutti il rispetto alle leggi, ma sommamente ciò è doveroso in questa materia, che, come si è detto, ha ad oggetto proprio i limiti da porre al potere dell’uomo di agire su uno dei più grandi misteri della natura: l’origine della vita.
Essendo il diritto un sistema di relazioni, l’applicazione di ogni norma richiede il suo armonico inserimento fra tutte le altre.
Intervenendo, però, la legge qui in discussione a regolare principi fondamentali del sistema di relazioni appena citato, massima dev’essere l’attenzione dell’interprete a che il coordinamento di essa con tutte le altre vigenti rispetti le corrette gerarchie che vi sono fra i beni e i valori oggetto delle rispettive disposizioni.
Man mano che ogni legge “vive” nel tempo, i suoi contenuti e i suoi precetti per così dire si adattano all’ordinamento giuridico nel suo complesso, sicché, con il passare del tempo e il mutare dell’ordinamento giuridico del paese nel suo insieme, la “intenzione del legislatore” che il 1° comma dell’art. 12 delle preleggi indica come uno dei criteri ermeneutici delle legge non coincide più, in tanti casi, con il pensiero e la volontà della concreta assemblea parlamentare che la legge ha approvato e si trasforma in una sorta di anima propria e immanente della legge, che a volte conserva pochi collegamenti con il pensiero dei suoi concreti autori.
Ciò non può dirsi, però, di una legge approvata solo poche settimane fa e all’esito di un dibattito tanto ricco e approfondito quale quello al quale si è appena fatto riferimento.
Sicché l’“intenzione del legislatore” ha in questo momento in questa materia il suo più grande rilievo e la sua elusione, da parte di ognuno che deve applicare la legge, costituirebbe grave violazione del fondamento stesso della democrazia, facendo sovrano l’interprete in luogo del legislatore.
Infine, va osservato come molti dei più rilevanti precetti della legge n. 40 del 2004 siano concretamente incoercibili e l’eventuale violazione di molti dei divieti assai difficilmente accertabili e perseguibili.
Ciò impone a coloro ai quali la legge si rivolge – cittadini, medici, operatori del diritto – un ancor più attento (se possibile) scrupolo deontologico e un ancor più rigoroso autocontrollo nell’esercizio dei proprio poteri e nell’adempimento dei propri doveri, onde non arrogarsi – con l’alibi del perseguimento di una maggiore “giustizia sostanziale” – il potere di dare o negare e a quali condizioni la salute e la vita.
Questa premessa metodologica è indispensabile, a fronte del fatto che sia nel ricorso dei coniugi M. e R. che nella memoria di costituzione del dr G. vengono addotti argomenti fondati su una asserita ingiustizia ed erroneità della legge, che, per le ragioni testè dette, sono inammissibili in questa sede.
3. I procuratori dei ricorrenti hanno prodotto (all. 20 del loro fascicolo) copia dell’atto sottoscritto il 23.3.2004 dai signori M. e R. e dal dr G. in conformità con le disposizioni di cui all’art. 6 della legge n. 40 del 2004.
Il 3° comma di quell’art. 6 esige che la volontà di far luogo alle tecniche di procreazione assistita sia espressa congiuntamente dai futuri genitori e dal medico responsabile della struttura (nella specie il dr G.) e dall’espressione per iscritto di tale volontà conseguono obblighi a carico di tutte le persone predette.
In particolare, fra l’altro, «la volontà può [potrà] essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal presente comma [solo] fino al momento della fecondazione dell’ovulo», ma, mentre la facoltà di revoca da parte dei futuri genitori è, «fino al momento della fecondazione dell’ovulo», piena e del tutto libera, quella del medico è limitata dal 4° comma dell’art. 6, che dispone: «Fatti salvi i requisiti previsti dalla presente legge, il medico responsabile della struttura può decidere di non procedere alla procreazione medicalmente assistita, esclusivamente per motivi di ordine medico-sanitario. In tale caso deve fornire alla coppia motivazione scritta di tale decisione».
Dunque, con la sottoscrizione dell’atto del 23.3.2004, il dr G. ha assunto, nei confronti dei coniugi M. e R., l’obbligo giuridico di procedere alla procreazione medicalmente assistita nel rispetto delle disposizioni normative di cui alla legge 40/2004 ed è, conseguentemente, ammissibile la domanda che i procuratori degli odierni ricorrenti dichiarano di voler proporre nei di lui confronti, per l’esecuzione in forma specifica di quell’obbligo.
E’ pacifico che la materiale incoercibilità dell’obbligo medesimo non osta al suo accertamento giudiziale e a un conseguente ordine di darvi adempimento.
4. Il dr G. si rifiuta, allo stato, (si dichiara pronto a farlo su ordine del giudice) di dare seguito alle richieste dei coniugi ricorrenti.
Ciò perché, con lettera del 23.4.2004 (all. 21 del fascicolo di parte ricorrente), la signora M. ha revocato parzialmente il consenso prestato il 23.3.2004, rivolgendo al dr G. richieste diverse da quelle concordate in precedenza, richieste che fondatamente (come si dirà appresso) il medico, con lettera dello stesso 23.4.2004 (all. 22 del fascicolo di parte ricorrente), ha ritenuto illegittime, perché contrarie alla legge 40/2004, dichiarandosi non disposto a darvi seguito.
La lettera del 23.4.2004 della signora M., sottoscritta per adesione dal signor R. e per ricevuta dal dr G., ha il seguente testuale tenore:
«Preg.mo Dott. G.,
Le scrivo perché, a seguito del percorso, anche di natura psicologica, svolto dall’inizio della tecnica di procreazione medicalmente assistita, ritengo di dover modificare il consenso prestato, sia inizialmente, sia nell’accesso alla varie fasi di applicazione della tecnica già svolte.
Come a Sua conoscenza, infatti, io e mio marito siamo portatori sani di beta-talassemia, circostanza, questa, che come Lei stesso ci ha opportunamente illustrato, comporta un alto tasso di probabilità di generare figli malati o, anch’essi, portatori sani della malattia.
Lei conosce, peraltro la nostra storia clinica ed il calvario al quale ci siamo sottoposti nella speranza di concepire un figlio che possa riempire e completare la nostra esistenza e realizzare il desiderio di essere “Famiglia” in senso pieno e totale.
Tuttavia, durante tutto questo percorso, ed in particolare nell’ultimo periodo, ho maturato una coscienza della sofferenza, in particolare di quella derivante dalla malattia, che mi rende psicologicamente insopportabile l’idea di mettere al mondo e di dovere accudire, sentendomene colpevole, un figlio malato che debba vivere fra atroci sofferenze.
Questa consapevolezza si è oggi trasformata per me in sofferenza immediata, quasi un dolore fisico, che mi impedisce anche solo di pensare alla realizzazione della suddetta possibilità.
Pertanto, a modifica del consenso prestato, dichiaro di volere accedere alla tecnica di diagnosi genetica preimpianto e che, qualora a seguito di questa dovesse risultare la presenza di un embrione malato, non sarò disponibile a riceverne l’impianto ritenendo tale eventualità pericolosa per la mia salute fisica e psichica (mentre sono disponibile, comunque, all’impianto dell’eventuale portatore sano).
Per gli stessi motivi, sono certa che, ove per un errore nell’analisi o per l’impossibilità di eseguirla, dovessi concepire un feto malato, farò ricorso a pratica abortiva.
Confidando nella Sua comprensione e nell’accoglimento di tale mia richiesta. La saluto cordialmente».
Dunque, i coniugi M. e R. non chiedono più al dr G. di dare rimedio soltanto al problema della loro infertilità, ma di consentire loro di selezionare, fra gli embrioni che si faranno venire in essere, quelli non affetti da talassemia, trasferendoli nell’utero della ricorrente, e quelli eventualmente affetti, invece da quella malattia, crioconservandoli.
Ciò è espressamente e inequivocabilmente proibito dalla legge 40/2004, sotto pena della reclusione fino a tre anni e della multa da 50.000 a 150.000 euro (art. 14, comma 6 della legge).-
Dispone, infatti, il 1° comma dell’art. 14 della legge che «è vietata la crioconservazione e la soppressione di embrioni».
Da questa disposizione e da quella contenuta nel 3° comma della stessa norma discende l’obbligo di trasferire immediatamente o comunque «non appena possibile» gli embrioni nell’utero della donna.
5. I procuratori del dr G. sostengono nella loro memoria di costituzione (cfr, in particolare, pag. 3 di quell’atto) che questo dettato normativo sarebbe conseguente al fatto che «alcuni aspetti [della materia] sarebbero sfuggiti o sarebbero stati sottovalutati dal legislatore».
I procuratori dei signori M. e R. affermano nel loro ricorso (cfr, in particolare, pag. 8 di quell’atto) che «un elemento – che i ricorrenti, in quanto talassemici ritengono opportuno sottolineare, anche se non impeditivo del loro caso specifico – è rappresentato dalla mancata considerazione da parte della normativa in oggetto delle problematiche relative alle patologie genetiche».
Ciò non può essere condiviso, perché è certo, invece, che le norme qui in discussione non sono frutto di una disattenzione o di una sottovalutazione dei problemi da parte del legislatore, ma di sue precise scelte.
Emerge, infatti, dalla letture delle diverse relazioni – di maggioranza e di minoranza – che hanno accompagnato le proposte di legge dalle quali è scaturita poi la 40/2004, di tutti gli atti parlamentari che le riguardano e dei resoconti dei lavori in commissione e in aula, che tutte le questioni poste in questa sede dai ricorrenti e dal convenuto sono state affrontate e discusse in Parlamento, con il rigetto di tutte le istanze di coloro che, come auspicato dal dr G., chiedevano al Parlamento di consentire la selezione degli embrioni con riferimento alle loro condizioni di salute.
Il legislatore ha scelto che la legge sulla procreazione assistita si limiti a porre rimedio alle malattie – note e ignote – che in qualsiasi modo producono la sterilità di una coppia, consentendo a quest’ultima di avere figli, ma di averli in condizioni analoghe a come, per natura, le hanno le coppie fertili. Senza la possibilità, cioè, di selezionare i nascituri in sani e malati, eliminando questi ultimi.
Questa scelta è coerente con i molti valori che il legislatore ha inteso tutelare con la legge in questione e con le molte preoccupazioni che tanti hanno manifestato con riferimento alle complesse questioni che avrebbe posto la libertà eventualmente concessa a genitori e medici di selezionare e conservare e/o distruggere embrioni.
Nel corso dell’iter di approvazione della legge, moltissimi sono stati gli emendamenti proposti per l’art. 14, sia modificativi che sostitutivi che abrogativi, e tutti sono stati rigettati dal Parlamento. Per brevità, ci si limita qui a fare rinvio, in proposito, soltanto al resoconto stenografico della seduta pubblica del Senato del 10 dicembre 2003 (l’ultima di aula nella quale sono stati discussi analiticamente i singoli articoli della legge qui in discussione) e ai relativi allegati, nei quali si documenta l’esame, per il solo articolo 14, di ben 73 emendamenti, la maggior parte dei quali volti proprio a consentire ciò che viene chiesto dagli odierni ricorrenti.
A ulteriore riprova che non si è trattato di disattenzione o sottovalutazione, ma di una precisa scelta del legislatore sta l’art. 4 della legge, che dispone che «il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico».
In sostanza, una coppia di persone fertili portatrici di talassemia non può fare ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita per selezionare gli embrioni da trasferire nell’utero.
Anche l’art. 4 della legge è stato oggetto di un ampio dibattito parlamentare. Nella citata seduta del Senato del 10 dicembre 2003 sono stati esaminati ben 61 emendamenti proposti con riferimento a quella norma, molti dei quali illustrati da senatori che contestavano proprio la scelta di escludere dal ricorso alle tecniche di procreazione assistita i portatori di malattie genetiche e di vietare la selezione degli embrioni prima dell’impianto.
Ci si trova, dunque, certamente dinanzi a scelte consapevoli ed esplicite del Parlamento.
Alla stregua di quanto fin qui esposto, appare evidente che il tipo di pratica delle tecniche di fecondazione medicalmente assistita che gli odierni ricorrenti vogliono fatto oggetto di un ordine del giudice è contrario a norme imperative di legge la cui violazione è sanzionata penalmente.
6. Restano da esaminare le questioni di costituzionalità della legge 40/2004, che i procuratori dei ricorrenti prospettano con riferimento agli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione.
Queste questioni sono suggestive, perché vengono prospettate invocando tutela per beni rilevantissimi come la salute, la libertà, l’uguaglianza (con argomenti, peraltro, massicciamente utilizzati sui mezzi di comunicazione di massa da chi legittimamente chiedeva al Parlamento di fare scelte diverse), ma, superata la suggestione e analizzate le questioni – com’è doveroso – sotto il profilo tecnico giuridico, esse appaiono fondate su evidenti paralogismi e su errate ricostruzioni giuridiche della materia.
Il primo dei problemi da affrontare è quello di una asserita illogicità che vi sarebbe nell’inserimento, nel 1° comma dell’art. 14 della legge, dell’espressione «fermo restando quanto previsto dalla legge 22 maggio 1978, n. 194».
Questa disposizione normativa viene invocata, peraltro, sia come argomento che dimostrerebbe l’illogicità della legge sia come possibile chiave interpretativa della stessa in favore delle tesi degli odierni ricorrenti.
La questione è posta nel ricorso nei seguenti termini:
«Al di là delle ragioni di ordine sanitario, i divieti citati pongono alcuni interrogativi e una possibile ed eventuale soluzione al caso di specie. Il richiamo alla Legge n. 194 del 1978 subito dopo la previsione di entrambi i divieti [di cui al 1° comma dell’art. 14 della legge], infatti, potrebbe consentire una interpretazione meno drastica in merito a situazioni come quella della signora M. per cui sarebbe possibile solo una interruzione di gravidanza – al terzo mese – una volta accertata la malattia del nascituro. Al fine di evitare un dramma già vissuto da altre donne portatrici di malattie genetiche con ricadute sicuramente più gravi sulla loro salute fisica e psichica, si potrebbe in sostanza leggere il richiamo di cui all’art. 14 nel senso che, in presenza dei presupposti richiesti dalla Legge 194/78 questa troverebbe un’applicazione estensiva anche nel casi, esclusivi della fecondazione in vitro, di embrioni portatori di gravi malformazioni. E’ evidente che, una simile interpretazione della norma, armonizzerebbe l’art. 14 con il dettato costituzionale, rendendola rispondente al generale criterio di ragionevolezza sotto il duplice profilo della disciplina conforme di fattispecie similari e della realizzazione di adeguati strumenti di tutela rispetto al bene protetto.
Sotto il primo dei suddetti profili, infatti, è evidente che sarebbe assolutamente irragionevole laddove si conosca già la sussistenza delle malformazioni e quindi si sia in presenza dei presupposti di cui alla Legge n. 194, costringere di fatto la donna al ricorso all’interruzione di gravidanza quando il feto è in uno stato avanzato e non in una fase embrionale.
Infatti, la legge 194/78 riconosce il diritto di procedere all’interruzione di gravidanza prima dei novanta giorni (art. 4) alla donna “che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito …” e successivamente ai novanta giorni (art. 6) ogni qualvolta vi sia rischio per la salute fisica o psichica della donna in relazione alla propria situazione e a quella del nascituro.
E’ evidente che tale normativa è stata elaborata in un periodo nel quale le conoscenze scientifiche non consentivano la diagnosi delle malformazioni in una fase anteriore alla gravidanza, né tale possibilità era allora ipotizzabile. Tuttavia, a ben vedere le ipotesi disciplinate dalla L. 194/78 sono da ritenersi del tutto simili a quella di cui oggi ci si occupa, posto che la conoscenza, sia del rischio di gravi danni alla salute psico-fisica della donna in caso di gravidanza di feto malato, sia delle malattie o malformazioni dell’embrione, vengono di fatto anticipate dalle nuove metodiche.
Da quanto sopra detto, appare evidente che una lettura diversa della norma condurrebbe ad una disciplina diversa di casi simili violando il criterio costituzionale di ragionevolezza.
Sotto il secondo profilo, inoltre, la norma sarebbe irragionevole ove non apprestasse tutti gli strumenti più idonei alla salvaguardia del preminente bene protetto vale a dire quello della salute della donna e poi del nascituro.
Sarebbe, pertanto, assolutamente illogico dal momento in cui tutti i presupposti di legge per farsi luogo all’interruzione di gravidanza siano conosciuti in un momento anteriore all’impianto, e vi sia una volontà della donna contraria all’impianto, mettere a repentaglio la sua salute obbligandola al trasferimento ed al successivo aborto.
Sulla scorta di tali riflessioni, i ricorrenti ritengono insussistente l’ostacolo legislativo esplicitato dal medico e chiedono, pertanto, che gli sia ordinato un comportamento conforme al dettato della legge (come sopra interpretata), ai principi dell’ordinamento giuridico ed alla propria volontà».
Nel corso dell’udienza nella quale il ricorso è stato discusso dai procuratori delle parti, uno dei procuratori dei coniugi ricorrenti ha affermato anche che l’interpretazione da essi data al richiamo alla legge 194/1978 contenuto nell’art. 14 della legge 40/2004 sarebbe l’unica logicamente accettabile, perché una interpretazione diversa renderebbe ultroneo quel richiamo, dato che, non essendovi nella legge 40/2004 alcuna norma abrogativa della legge 194/1978, nessuna ragione vi sarebbe stata per confermare il vigore di quest’ultima.
Va sottolineato che anche queste questioni sono state poste espressamente all’attenzione del Parlamento.
Limitando ancora qui, per evidenti esigenze di sintesi, le citazioni alla grande mole di atti parlamentari che riguardano l’iter di approvazione della legge 40/2004 al resoconto stenografico della seduta del Senato del 10 dicembre 2003, in quella sede uno dei senatori proponenti gli emendamenti all’art. 4 della legge contraddistinti dai nn. 4.8 e 4.111, ha invitato i suoi colleghi a «spiegare perché da un punto di vista etico per contrastare le malattie genetiche è preferibile l’utilizzo dell’aborto terapeutico, che la nostra legge consente, rispetto all’utilizzo della procreazione medicalmente assistita e quindi alla selezione embrionaria preimpianto».
Le questioni così poste – in Parlamento e in questo procedimento – si fondano, però, su un errore di diritto e su due equivoci logici.
7. L’errore di diritto nel quale i procuratori dei ricorrenti con evidenza incorrono riguarda le disposizioni normative della legge 194/1978.
Esso è verosimilmente causato dal fatto – che questo giudice evidentemente non ignora – che vi sono diffuse prassi applicative di quella legge palesemente contrarie al suo spirito e anche alla sua lettera.
E’ evidente, però, che, per le ragioni già ampiamente esposte sopra, al paragrafo 2 di questo provvedimento, l’interprete deve attenersi rigorosamente alla lettera e alla ratio delle norme che è chiamato ad applicare (ancor più, poi, quando queste vengono invocate come strumento interpretativo le une delle altre) e non può dare rilievo a eventuali prassi contrarie alla legge.
Ed è certo che la legge 194/1978 non autorizza un uso dell’aborto come strumento selettivo dei feti con riferimento alla loro salute.
E’ questo un uso eugenetico dell’aborto certamente vietato dalla legge.
L’aborto c.d. terapeutico è terapeutico con riferimento alla salute della madre e non a quella del bambino.
Ciò per un duplice ordine di incontrovertibili ragioni.
La prima consistente nel fatto che l’art. 4 della legge 194/1978, quando fa riferimento «a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito» lo fa non già come motivo in sé legittimante il ricorso all’aborto, ma come una delle possibili cause dell’unica cosa che può legittimare l’aborto, che è «un serio pericolo per la (…) salute fisica o psichica» della madre.
La seconda ragione sta nel fatto che sarebbe illogico ritenere terapeutica per il bambino la sua eliminazione.
Dunque, la legge non consente alla donna di praticare l’aborto perché non “vuole” la nascita di un bambino malato o perché – come accade per gli odierni ricorrenti – vuole a tutti i costi la nascita di un bambino sano.
L’aborto è possibile – con riferimento alla questione che qui si discute – solo quando «la prosecuzione della gravidanza» (art. 4 della legge 194/1978) «comporterebbe un serio pericolo per la (…) salute fisica o psichica» della madre.
Né è possibile, ovviamente, ritenere aprioristicamente che ogni gravidanza nella quale il feto sia affetto da una malattia è necessariamente causa di una malattia – del corpo o della mente – della madre.
Quindi, deve ritenersi giuridicamente infondata l’affermazione dell’esistenza di un “diritto” della donna di abortire i figli malati in quanto tali, e ancor più l’affermazione di un tale diritto come preesistente alla gravidanza.
Il “diritto” all’aborto esiste nei termini in cui la legge lo prevede e lo disciplina.
E la legge 194/1978 lo prevede e lo disciplina incontrovertibilmente come un diritto che sorge solo dopo l’instaurarsi della gravidanza e con riferimento non già alle condizioni di salute del nascituro ma a quelle della madre.
8. E va illustrato a questo punto il più rilevante equivoco logico nel quale incorrono i ricorrenti e i loro procuratori.
E’ ben possibile, infatti, (e l’uso di un’espressione condizionale è dettato solo dal fatto che la questione non è rilevante in questa sede e il sottoscritto ritiene di doversi attenere rigorosamente ai suoi compiti tecnici) che, come anche autorevolmente sostenuto in dottrina nelle settimane immediatamente successive alla promulgazione della legge, le disposizioni della legge 194/1978 possano applicarsi, nei casi di ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, con riferimento agli embrioni invece che ai feti.
Con ciò, dunque, dandosi luogo a un “diritto” all’aborto che sorgerebbe prima della gravidanza, ma, comunque, dopo la fecondazione degli ovuli.
Nel concreto caso di specie, però, la signora M. e il signor R. chiedono al giudice di affermare, ai sensi della legge 194/1978, un loro preteso diritto ad abortire gli embrioni asseritamente già sorto prima che gli embrioni stessi vengano ad esistere.
L’illogicità e la paradossalità di questo assunto appaiono evidenti sol che si consideri che, applicando per così dire all’inverso il ragionamento, una tale interpretazione della legge 194/1978 farebbe sì che nei casi di concepimento naturale (al di fuori, cioè, del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita) la donna potrebbe far valere un proprio diritto ad abortire prima di avere concepito un figlio.
Sulla logica di queste considerazioni sta – in tutta coerenza, come argomento ulteriormente decisivo di questa controversia – la prescrizione del 3° comma dell’art. 14 della legge 40/2004 che consente la (temporanea) crioconservazione degli embrioni solo quando ciò «non risulti possibile per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione».
Mentre gli odierni ricorrenti chiedono che si ordini questa crioconservazione prima della fecondazione e per fatti prevedibili e anzi espressamente previsti prima della fecondazione.
9. L’altro equivoco nel quale incorrono i procuratori dei ricorrenti consiste nel ritenere che il riferimento alla legge 194/1978 contenuto nel 1° comma dell’art. 14 della legge 40/2004 sia frutto di un equivoco e/o di una contraddizione.
Quel richiamo, invece, era sommamente opportuno (se non, addirittura, necessario) per evitare che si potesse ritenere che, con riferimento alla legge sull’aborto, si dovessero applicare principi analoghi a quelli sanciti dall’art. 9 della legge 40/2004.
Quest’ultima disposizione normativa vieta a chi presti il suo consenso alla pratica di tecniche si procreazione medicalmente assistita di esercitare successivamente l’azione di disconoscimento di paternità o l’impugnazione di cui all’art. 263 c.c. e alla madre di avvalersi della facoltà di cui all’art. 30, 1° comma, del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396.
La logica di questi divieti è evidente.
Diversamente da quanto accade per la procreazione per così dire “naturale”, la procreazione medicalmente assistita è sempre e certamente una procreazione consapevole ed è, quindi, logico che chi vi ricorre ne assuma tutte le conseguenti responsabilità.
Sicché, applicando questa logica, in mancanza dell’espresso richiamo alla legge 194/1978 contenuto nell’art. 14 della legge 40/2004, si sarebbe potuto ipotizzare che chi volontariamente e consapevolmente si procura una gravidanza non può poi interromperla, così come chi feconda degli ovuli non può poi revocare (se non in limitati casi) il consenso preventivamente e consapevolmente prestato al loro trasferimento nell’utero.
Il richiamo alla legge 194/1978 – dunque, non già illogico e contraddittorio, ma coerente e sommamente opportuno – dà certezza del fatto che il ricorso alle pratiche della legge 194/1978 sarà possibile anche nei casi di gravidanza ottenuta mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita, ma, ovviamente, solo in presenza delle gravi (e proprio in relazione alla loro eccezionale gravità, che rende irrilevante il consenso prestato preventivamente alla gravidanza) circostanze di cui all’art. 4 della legge 194/1978 medesima.
10. Alle pagg. 9 e 10 del ricorso la questione di costituzionalità della legge qui in discussione viene posta, con riferimento agli artt. 2 e 32 della Costituzione, nei seguenti testuali termini:
«Un secondo elemento di ostacolo a una procreazione sana e responsabile è costituito dall’obbligo del contemporaneo impianto di tutti gli embrioni prodotti fino al massimo di tre fissato dall’art. 14 della Legge n. 40 comma 2: “Le tecniche di produzione degli embrioni, tenuto conto dell’evoluzione tecnico-scientifica e di quanto previsto dall’articolo 7, comma 3, non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre”. Nel caso della signora M. ciò configurerebbe un obbligo di impianto anche dell’eventuale embrione che risultasse malato.
Sotto questo profilo il dettato normativo si pone in evidente conflitto tra quanto previsto dalla Legge n. 40 e i richiamati principi costituzionali nonché con il diritto di autodeterminazione sancito dagli articoli 32 secondo comma (definito quale limite invalicabile proprio per la salvaguardia della persona) e 2 della Costituzione. La nostra Carta Costituzionale protegge i diritti fondamentali della persona quale sfera intangibile che non può essere ridotta per ragioni di ordine politico o amministrativo (riguardando diritti primari e assoluti della persona) né sacrificata in nome di un interesse collettivo, salvo in casi in cui si deve operare un bilanciamento con l’interesse collettivo alla salute (cfr vaccinazioni obbligatorie, ecc.). In tal senso se il soggetto è unico titolare del bene protetto (la salute), dovrebbe ritenersi esclusa ogni subordinazione della volontà del singolo a un interesse che lo trascende (cfr. sentenza n. 26 del 1981).
Ciò significa che la volontà del singolo può e deve essere l’unica misura possibile per la definizione delle scelte concrete in ordine al come, al quando e al se adottare trattamenti sanitari. In questo senso ogni qualvolta ci sia un rischio per la propria salute e per quella del nascituro è al soggetto che spetta di decidere come comportarsi e che bilanciamento di interessi operare. Si richiamano in tal senso una serie di sentenze della Corte Costituzionale ( n. 27 del 1975 e n. 26 del 1981) e della Corte di Cassazione (Cass. Civile n. 11503 del 1993; n. 12195 del 1999; n. 6735 del 2002) da dove si desume il diritto alla salute della donna nella sua dimensione psicologica e fisica e un interesse costituzionalmente protetto del nascituro a “nascere sano”. Tale diritto/potere è d’altra parte, costituzionalmente garantito e vincolante sia per il legislatore che per l’operatore sanitario».
Si tratta di considerazioni che, sotto il profilo logico e giuridico, non possono essere condivise.
Sotto il profilo della coerenza logica, infatti, va rilevata la contraddizione esistente fra l’affermazione per la quale vi sarebbe nel caso oggetto del contendere un solo soggetto «unico titolare del bene protetto», sicché «dovrebbe ritenersi esclusa ogni subordinazione della volontà del singolo a un interesse che lo trascende», e la consapevolezza manifestata immediatamente dopo che ciò non è vero, perché vi è, invece, «un rischio per la propria salute e per quella del nascituro» (e dunque interessi di due soggetti, per di più in potenziale conflitto fra loro).
E’ incontrovertibile, in ogni caso, che sono qui in discussione beni e diritti diversi, solo di alcuni dei quali sono titolari i ricorrenti (tali beni, peraltro, non sono solo quelli che fanno capo alla madre e quelli che fanno capo al nascituro, ma anche altri che hanno come titolare il futuro padre e altri ancora che fanno capo alla collettività).
Ed è illogico anche dire che quando vi sia un rischio per la salute del nascituro spetterebbe alla madre decidere «che bilanciamento di interessi operare».
Ciò perché è ovvio che, quando vi è conflitto fra interessi di soggetti diversi, non può essere qualificata come «bilanciamento di interessi» l’attribuzione a uno dei soggetti del potere di decidere il conflitto. Ciò non bilancerebbe, infatti, i due interessi, ma ne affermerebbe uno negando l’altro.
Peraltro, evitando, per brevità, ulteriori approfondimenti, la semplice lettura del ricorso dimostra all’evidenza come nessun «bilanciamento di interessi» i coniugi ricorrenti propongano fra i loro interessi e quelli del concreto nascituro eventualmente malato, anteponendo a tutto incondizionatamente il loro desiderio-interesse ad avere un figlio sano. Un figlio ipotetico e altro rispetto a quello che concretamente verrà in essere all’esito della fecondazione degli ovuli, eventualmente malato, della cui tutela la Costituzione e anche la legge 40/2004 si preoccupano.
La confusione suggestiva di concetti discende qui dal fatto che nel ricorso si confondono gli interessi del figlio “desiderato” con quelli del figlio che concretamente verrà in essere, in ipotesi malato, e, per giustificare la concreta lesione degli interessi del figlio – reale – che concretamente verrà in essere, si invoca l’esigenza di tutelare la salute del figlio “desiderato” che, diversamente da quello che realmente si sacrificherà, è entità virtuale, del tutto astratta, esistente solo nella rappresentazione mentale dei suoi aspiranti genitori.
Sicché, si dà l’impressione suggestiva di voler tutelare la salute del figlio, ma siccome il figlio tutelato non è quello reale, ma quello virtuale, non si difende in realtà alcun figlio, ma la propria volontà di averne uno conforme ai propri desideri, sacrificando a questo obiettivo, per tentativi successivi, tutti i figli reali difformi che venissero nel frattempo.
Su questa confusione di concetti e sui paralogismi che la nascondono si fondano le dottrine eugenetiche certamente ripudiate dal nostro attuale ordinamento giuridico.
E su questa confusione si fonda anche l’affermazione contenuta nel ricorso secondo la quale l’iniziativa giudiziaria dei ricorrenti sarebbe volta a tutelare l’«interesse costituzionalmente garantito e vincolante del nascituro a “nascere sano”». Pur non potendosi approfondire in questa sede i complessi problemi posti dalle pronunce della Corte Suprema citate dai procuratori dei ricorrenti (il riferimento alla n. 12195 del 1999 deve ritenersi un lapsus calami e considerarsi come fatto alla n. 12195 del 1998), è ovvio che non ha senso affermare che l’«interesse costituzionalmente garantito e vincolante del nascituro a “nascere sano”» andrebbe tutelato non facendolo nascere, perché non far nascere taluno è la più radicale negazione possibile del suo «interesse a nascere sano».
Ancora una volta si afferma di voler difendere il diritto di taluno a nascere sano e si difende, invece, un preteso diritto dei genitori ad avere solo figli sani a qualunque costo, diritto che la nostra Costituzione non riconosce loro.
11. Sotto altro profilo, tutte le affermazioni sopra testualmente ricopiate dal ricorso appaiono giuridicamente non fondate.
Si è già detto, infatti, che il diritto è relazione.
Il diritto non dice cosa è giusto assolutamente, ma solo cosa è giusto in relazione a.
Ed è certo che la Costituzione non prevede un diritto assoluto dei genitori di avere un figlio come lo desiderano.
Sotto certi profili (ma la questione non merita qui approfondimento), la Costituzione non prevede neppure un diritto assoluto alla salute di ciascuno: quella salute non può essere perseguita, per esempio, in danno della salute altrui e/o di un generale pericolo per l’incolumità collettiva.
La Costituzione, che è diritto, crea relazioni giuridiche con riferimento alle gerarchie di beni e valori che crea o riconosce in natura.
Le espressioni «la nostra Carta Costituzionale protegge i diritti fondamentali della persona quale sfera intangibile che non può essere ridotta per ragioni di ordine politico o amministrativo (riguardando diritti primari e assoluti della persona) né sacrificata in nome di un interesse collettivo, salvo in casi in cui si deve operare un bilanciamento con l’interesse collettivo alla salute» sopra riportate dal ricorso non sono pertinenti con il caso oggetto del contendere.
La legge 40/2004, infatti:
– non incide su «diritti fondamentali della persona» (l’odierna ricorrente), che, come si è detto, non ha un diritto fondamentale a produrre un figlio conforme ai suoi desideri;
– non riduce diritti della ricorrente «per ragioni di ordine politico o amministrativo», ma per ragioni connesse alla tutela della vita, sotto il duplice profilo della tutela della vita come essa si manifesta negli embrioni che si produrranno e della tutela della vita di tutte le persone in genere, con riferimento ai pericoli che per la società potrebbero derivare dalla libertà di gestione e trattamento di un numero indeterminato di embrioni da parte di chi li producesse e di chi ne potesse disporre come proprietario, gestore, acquirente, erede, ecc.;
– interviene certamente proprio in una fattispecie nella quale «si deve operare un bilanciamento con l’interesse collettivo alla salute», e non solo.
E con riferimento ai beni e valori in discussione, è pacifico che non solo non è incostituzionale che sia una legge e non una singola persona (l’odierna ricorrente) a decidere quale debba essere il criterio di bilanciamento fra quei beni e valori, ma sarebbe, anzi, certamente incostituzionale il contrario.
Proprio perché i beni in discussione sono numerosi e costituiscono patrimonio di persone diverse – l’aspirante madre, l’aspirante padre, gli embrioni, la società – era indispensabile che la loro tutela e il loro bilanciamento venissero disciplinati dalla legge e non lasciati a quella che, in alternativa, diverrebbe inevitabilmente prevaricazione degli uni sugli altri.
12. Si prosegue a pag. 10 del ricorso, assumendo che:
«Senza richiamare in questa sede la giurisprudenza in materia di consenso informato nell’attività sanitaria e di trattamento sanitario obbligatorio, giova ribadire che nel caso di specie e nella materia oggi in esame non si vedono le basi giuridiche su cui poggiare una esecuzione coattiva del trasferimento dell’embrione malato, non sussistendo i requisiti di un trattamento sanitario obbligatorio né prevedendo la legge alcuna soluzione normativa all’ipotesi di rifiuto dell’impianto e tanto meno potendo demandare ad atti successivi, che non hanno forza di legge, come le linee guida previste, una regolamentazione in materia (sussistendo una riserva di legge)».
L’argomento è illogico sotto un duplice profilo. Per un verso, infatti, non può in alcun modo dirsi che l’obbligo di trasferimento degli embrioni nell’utero costituisca un «trattamento sanitario obbligatorio», per il semplice fatto che l’aspirante madre è posta, dalle disposizioni normative di cui all’art. 6 della legge 40/2004, nelle condizioni di scegliere liberamente e consapevolmente se sottoporsi o no alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Quella norma prevede addirittura che «tra la manifestazione della volontà e l’applicazione della tecnica deve intercorrere un termine non inferiore a sette giorni», per offrire, pur dopo l’avvenuta consapevole accettazione del trattamento alle condizioni previste dalla legge, un tempo di ripensamento del tutto libero e incondizionato (la libertà di questo ripensamento, infatti, non è soggetta ad alcuna condizione né di fatto né di diritto). Per altro verso, quand’anche quello di cui si discute potesse essere ritenuto (e certamente non lo è) un trattamento sanitario obbligatorio, poiché sarebbe previsto e disciplinato dalla legge, non violerebbe il 2° comma dell’art. 32 della Costituzione, inopportunamente invocato dai procuratori dei ricorrenti, che dispone che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge».
13. Il riferimento, infine, alla evidente (e sicura) incoercibilità materiale dell’obbligo di sottoporsi al trasferimento degli embrioni, utilizzato dai procuratori dei ricorrenti (e anche da tanti in Parlamento e nei dibattiti pubblici) come indice di illogicità della legge è, invece, tecnicamente del tutto inconcludente.
Nel mondo del diritto l’incoercibilità di un obbligo nulla significa in ordine alla logicità, alla validità, alla legittimità, alla costituzionalità delle norme che lo sanciscono.
Moltissimi sono – nel nostro (come in tutti gli altri) ordinamenti giuridici – gli obblighi materialmente incoercibili.
Ma sono anch’essi obblighi pienamente validi sotto il profilo giuridico e del tutto ragionevoli sotto il profilo logico.
Come si potrà costringere fisicamente il medico di un Pronto Soccorso a intervenire chirurgicamente su una persona che gli sia stata condotta in situazione di emergenza? Ma è certo che l’obbligo di quel soccorso incomba – alle condizioni di legge – su di lui e che l’omissione di quel soccorso sarebbe punita dalla legge.
Come si potranno costringere i coniugi ad adempiere gli obblighi reciproci previsti dall’art. 143 c.c. («alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione»)?
Eppure nessun dubbio vi è sulla ragionevolezza e sulla legittimità costituzionale delle norme che quegli obblighi affermano e disciplinano.
Per di più, proprio gli odierni ricorrenti chiedono in questo procedimento l’adozione di un ordine al convenuto che, ove adottato, sarebbe comunque materialmente incoercibile.
Nella materia di cui qui si discute, peraltro, si può confidare nella correttezza che i medici – sensibili come l’odierno convenuto ai propri doveri deontologici (nella comparsa di costituzione e risposta vengono espressamente citati proprio i doveri deontologici del medico) – metteranno nel doveroso rispetto della legge e nella non complicità in condotte di fraudolenta elusione della stessa.
14. Ancora, a pag. 10 del ricorso si osserva che «nella Legge inoltre non è prevista alcuna deroga all’obbligo di impianto se non quella di forza maggiore di natura temporanea. Tale carenza assume i crismi della illogicità ove si consideri che alcune gravi malformazioni dell’embrione e alcune patologie come quelle citate non consentirebbero all’embrione di vivere o di nascere vivo o addirittura comportano il rischio di generare delle patologie ostetriche gravissime, quali la “mola vescicolare” (ad esempio, i casi, per altro non infrequenti, in cui gli embrioni presentano un numero doppio o alterato di cromosomi “aneuploidie”). Sicché non prevedere in assoluto la possibilità di non procedere all’impianto creerebbe un sicuro danno per la salute della donna, senza per contro alcuna utilità di protezione dell’embrione (in violazione dello stesso art. 1 della legge)».
Si tratta di affermazioni incoerenti con il dato normativo e, con evidenza, pretestuose.
Infatti, se il trasferimento nell’utero degli embrioni potesse causare alla donna il rischio di gravi malattie, ciò costituirebbe certamente, ai sensi del 3° comma dell’art. 14 della legge 40/2004, «grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna» che legittimerebbe la crioconservazione degli embrioni e, ai sensi del 1° comma dello stesso art. 14 (se interpretabile nei termini sopra ipotizzati), il ricorso alle pratiche della legge 194/1978.
15. In quest’ottica appare logico che il 5° comma dell’art. 14 preveda che gli aspiranti genitori debbano essere informati, «su loro richiesta, sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero» e illogiche sono le considerazioni svolte dai procuratori dei ricorrenti (a pag. 11 del ricorso) in ordine a una asserita «inutilità» di quella disposizione normativa.
16. Infine, a pag. 9 del ricorso si lamenta il fatto che la legge con consenta agli aspiranti genitori di selezionare gli embrioni e si denuncia l’incostituzionalità di essa perché «la mancata inclusione di tali situazioni nella normativa della L. n. 40 del 2004 se interpretata come una netta e definitiva esclusione viene a configurare non solo una scelta del legislatore non opportuna o “crudele” (per le conseguenze dolorose che verrebbero a determinarsi), ma anche un palese contrasto con i principi di uguaglianza, di tutela della persona e di tutela della salute intesa come integrità psicofisica (articoli 3, 2 e 32)».
E difficile, francamente, capire in che senso non soddisfare la pretesa di una coppia di produrre un numero indeterminato di embrioni da selezionare, conservando o eliminando quelli malati e impiantando quelli sani, violerebbe i principi di uguaglianza e di tutela della persona e il diritto alla «salute intesa come integrità psicofisica». Con riferimento a questi ultimi due beni vale la pena di sottolineare come non faccia parte dei diritti della persona né della sua integrità psicofisica la possibilità di selezionare eugeneticamente i suoi figli.
Le questioni di costituzionalità prospettate dai procuratori dei ricorrenti sono, quindi, tutte manifestamente infondate.
17. Il ricorso va rigettato.
Le spese processuali, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., seguono la soccombenza.
I procuratori del convenuto hanno omesso di produrre la prescritta nota.
In mancanza di essa, tenendo conto della natura e del valore della controversia e dell’attività difensiva effettivamente svolta, vanno liquidate in complessivi € 800,00, di cui € 100,00 per spese vive, € 200,00 per diritti di procuratore ed € 500,00 per onorario di avvocato, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge.
P.Q.M.
Il giudice rigetta il ricorso e condanna M. A. e R. F. al rimborso, in favore di G., delle spese del procedimento, come sopra liquidate in complessivi € 800,00 (ottocento/00), oltre I.V.A. e C.P.A., come per legge.
Catania, 3 maggio 2004.
Il Giudice
Dr.Felice Lima
Autore:
Tribunale Civile
Dossier:
Bioetica
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Gravidanza, Malattie genetiche, Procreazione assistita, Embrioni, Beta-talassemia, Diagnosi, Preimpianto, Infertilità, Fecondazione in vitro
Natura:
Ordinanza