Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 9 Marzo 2004

Sentenza 07 giugno 2001

Cassazione Penale. Sezione Prima. Sentenza 7 giugno 2001.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – Gli attuali ricorrenti, insieme ad altri soggetti, sono stati giudicati per una serie di reati connessi con la attività di una associazione, denominata “Base Autonoma” ed articolata in altri gruppi e movimenti, operante in Milano ed altre città italiane, avente lo scopo di difendere la razza bianca ed ariana e di contrastare l’ingresso in Italia di persone appartenenti ad altre razze.

I reati contestati, che ancora interessano avendo formato oggetto di condanna, sono quelli indicati nei capi sotto elencati:

A – reato previsto dall’art. 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654 (Ratifica della convenzione internazionale di New York per la eliminazione delle forme di discriminazione razziale), sotto due profili:

1 – aver diffuso, tramite volantini, periodici, libri, interviste e trasmissioni televisive, idee fondate sulla diversità e superiorità della razza ariana nei confronti di quella ebrea e di colore, incitando altresì alla discriminazione nei confronti delle persone delle razze suddette, nonché esaltando tematiche naziste, in particolare proponendo la lotta alla società multirazziale e l’espulsione dal territorio di persone immigrate di colore e commettendo atti di provocazione alla violenza ai danni delle suddette e di persone di razza ebrea;

2 – aver promosso, diretto ovvero partecipato ad una associazione denominata “Skin Heads d’Italia o “Azione Skinhead”, operante in Milano ed avente tra i suoi scopi quello di incitare all’odio o alla discriminazione razziale, caratterizzata da una strutturazione gerarchica e paramilitare, tramite l’acquisto e la disponibilità di armi improprie, l’effettuazione di esercitazioni e la propensione alla scontro fisico con persone di diverse ideologie politico sociali;

reato commesso in Milano e altrove e tuttora permanente;

C – reato previsto dall’art. 4 della legge 8 giugno 1952, n. 645 (norme contro la riorganizzazione del partito fascista), per avere pubblicamente esaltato esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo ed idee o metodi razzisti, in particolare scandendo “slogans” contro l’immigrazione ed inneggianti il fascismo, la segregazione razziale, Rudolf Hess, il Ku Klux Klan e frasi quali “Lavoro agli italiani, botte agli africani”, “Violentano le donne, massacrano i bambini, Stato di Israele, banda di assassini”, “Duce, Duce”, “Sieg heil”, ed esibendo il saluto romano;

reato commesso in Milano il 1° febbraio 1992;

G – detenzione illegale di tre bombolette spray contenenti gas tossico-irritanti ed una pistola ad aria compressa priva di matricola;

reato commesso in Milano il 21 gennaio 1993;

I – reato previsto dall’art. 697 c.p. per avere detenuto un pugnale a doppia lama, in Milano il 21 gennaio 1993;

L – reato previsto dall’art. 5 della legge 645/52 per aver compiuto manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, indossando giubbotti neri, inquadrandosi militarmente ed effettuando il saluto romano;

reato commesso nel Cimitero Maggiore di Milano il 25 aprile 1993;

N – reato previsto dall’art. 697 c.p. per aver detenuto un pugnale a doppia lama, in Milano il 4 maggio 1993;

P – illegale detenzione di una pistola ad aria compressa priva di matricola, in Milano il 4 maggio 1993;

Q – illegale detenzione di una bomba a mano tipo “ananas” costituente parte di arma da guerra, in Cinisello Balsamo il 4 maggio 1993;

V – detenzione illegale di una penna lanciarazzi, in Milano il 7 luglio 1993;

Y – illegale detenzione di una pistola ad aria compressa, reato accertato in Vittuone il 7 luglio 1993.

2 – La sentenza di primo grado pronunziata dal Tribunale di Milano il 26 febbraio 1997 ha ritenuto sussistente il reato di cui all’art. 3 della legge 654/75, sotto entrambi i profili dei capi A.1 e A.2, ed ha disatteso la eccezione di illegittimità costituzionale in relazione all’art. 21 Cost. Sul punto ha osservato che il diritto di libera manifestazione del pensiero non può dilatarsi sino a comprendere la diffusione di idee ed altre condotte che neghino la personalità e la dignità dell’uomo, valori questi che sono affermati dalla Costituzione come principi fondamentali e non tollerano alcuna forma di gerarchia fondata sull’appartenenza ad un gruppo etnico, nazionalità o razza. Il Tribunale ha anche precisato che la norma deve essere applicata nel suo testo originario perché le modifiche apportate con la legge 25 giugno 1993, n. 205, hanno introdotto nuove figure criminose ed hanno inasprito le pene, sicché la primitiva formulazione è più favorevole agli imputati.

In punto di fatto la sentenza del Tribunale ha attribuito importanza fondamentale alle dichiarazioni testimoniali del dr. Carlo Mazza, Commissario presso la DIGOS di Milano, dalle quali è emersa la formale costituzione delle associazioni “Azione Skinhead” e “Associazione degli Scudi” in Milano, nonché il contenuto dei rispettivi statuti. Sono stati inoltre descritti i vari episodi indicati nei capi di imputazione.

3 – Con sentenza di secondo grado pronunziata il 28 ottobre 1998 la Corte di Appello di Milano ha sostanzialmente confermato l’impostazione della decisione di primo grado.

Premesso che i fatti storici possono considerarsi pienamente accertati e che non è contestata l’esistenza della associazione “Azione Skinhead” e la sua operatività negli anni dal 1991 al 1994, la sentenza ha esaminato in particolare la natura degli scopi perseguiti dal sodalizio e la partecipazione effettiva dei singoli imputati. A tal fine ha esaminato da un lato i documenti rinvenuti nella sede sociale, dall’altro lato le attività effettivamente svolte.

Ha così accertato che tra gli scopi dell’associazione rientrava certamente quello di incitamento all’odio e alla discriminazione razziale, scopo dimostrato chiaramente dal programma, dall’attività svolta dal sodalizio, dalle condotte degli aderenti.

Sui concetti di “razza” e “razzismo” la sentenza ha richiamato la decisione di questa Sezione del 30 settembre 1993 sul ricorso Freda, ricordando anche le recenti acquisizioni dei genetisti secondo cui la teoria di una differenza biologica tra le varie razze non avrebbe una base scientifica. Ha anche esaminato i rapporti tra razzismo e nazismo ed ha condiviso la affermazione del Tribunale nel senso che, pur non potendo essere equiparato il nazismo al razzismo, è tuttavia certo che nell’ambito del nazismo si sono attuati comportamenti chiaramente razzisti. Il regime nazional socialista avrebbe infatti “teorizzato” il razzismo additando negli ebrei in quanto razza (non in quanto professanti la religione ebraica) la causa di ogni male e disagio, e sarebbe poi passato scientificamente dalla teoria alla prassi, prima favorendo ogni sorta di violenza e di discriminazione, poi annientando fisicamente oltre agli ebrei anche altri esseri ritenuti inferiori, come gli zingari.

Dopo queste premesse, la sentenza di appello ha valutato il contenuto degli articoli editoriali pubblicati sul periodico “Azione Skinhead” nelle parti in cui esaltano il regime nazista, criticano l’atteggiamento di tolleranza verso gli immigrati e il conseguente periodo di imbastardimento della razza, rivalutano il principio “sangue e suolo” come giustificazione della politica razzista ed antisemita del nazismo.

Particolare attenzione è stata anche dedicata al testo dai manifesti e volantini distribuiti durante le manifestazioni pubbliche, nonché all’atteggiamento tenuto nel corso di manifestazioni e riunioni, escludendo la rilevanza di alcuni fatti considerati come lecita manifestazione del pensiero.

In conclusione, per quello che ora interessa, con la sentenza di secondo grado sono state inflitte le pene della reclusione e della multa nelle seguenti misure per gli imputati che hanno ora proposto ricorso:

(omissis)

Tutte le pene suddette sono state sospese condizionalmente.

Nel dispositivo della sentenza manca la pronunzia sulle richieste della parte civile e nella motivazione si dà atto che la omissione deriva da “mera dimenticanza”.

4 – Contro la sentenza di appello sono stati proposti i seguenti ricorsi per cassazione.

L’avv. Gabriele Leccisi, con unico atto, per gli imputati del reato di cui al capo A, ha denunziato la erronea applicazione della legge in quanto sarebbe stata criminalizzata la semplice manifestazione del pensiero. Ha anche affermato che molti episodi di intolleranza razziale sono stati commessi da persone rimaste ignote e che in primo grado sono stati assolti i teorici e gli ispiratori del movimento degli Skinheads. Il ricorso è stato proposto nell’interesse dei seguenti imputati nominativamente indicati:

(omissis)

1 – la erronea applicazione dell’art. 3 legge n. 654/75 in relazione alla asserita sussistenza dello scopo di incitare all’odio ed alla discriminazione razziale mentre nella condotte contestate agli imputati sarebbero ravvisabili soltanto manifestazioni di pensiero, come la stigmatizzazione di una società multirazziale, la presa d’atto di un flusso migratorio pacifico, la esposizione e valorizzazione delle tesi revisioniste;

2 – la erronea applicazione del detto art. 3 con riferimento alla esistenza della associazione ed alla qualifica di capo attribuita al B., anche per mancanza di motivazione;

3 – la erronea applicazione del detto art. 3 in relazione alla affermata partecipazione ed adesione alla associazione dei due imputati i quali avevano già lasciato il movimento prima dell’inizio del processo;

4 – la erronea applicazione dell’art. 2 c.p. con riferimento alla applicazione della nuova normativa introdotta con la legge n. 205/93, ritenuta più favorevole agli imputati rispetto alla precedente formulazione dell’art. 3 che prevedeva la qualifica di capo come aggravante soggetta al giudizio di comparazione con le attenuanti generiche che sono state concesse;

5 – la prescrizione del reato in quanto l’ultima condotta significativa risalirebbe al 15 gennaio1993 o al 1° febbraio 1993.

C. F., con motivi redatti personalmente, ha dedotto la erronea applicazione dell’art. 3 legge n. 654/75, mancanza e illogicità della motivazione in ordine alla affermata esistenza della associazione ed alla illiceità degli scopi perseguiti, essendosi trattato in realtà di un dibattito culturale su temi sociali e politici come le differenze razziali, la natura del nazismo, i crimini commessi dagli americani contro i prigionieri giapponesi, i caduti nelle foibe, e così via.

P. P. ha censurato, con due motivi:

1 – la erronea applicazione dell’art. 4, secondo comma, legge n. 654/52 (capo C) in quanto la manifestazione di via Torino in Milano del 1 febbraio 1992 non integra gli estremi del reato di apologia del fascismo ma costituisce una libera manifestazione del pensiero;

2 – la illogicità della motivazione con riferimento alla affermata partecipazione a detta manifestazione non potendo essere ritenuta sufficiente la sola testimonianza del commissario Mazza il quale non conosceva di persona l’imputato e non lo ha formalmente identificato.

L’avv. Gianni Correggiari, nell’interesse di C. D. e S. C., ha dedotto, con cinque motivi:

1 – la erronea applicazione dell’art. 3 legge n. 654/75 e la illogicità della motivazione; in particolare la Convenzione internazionale di New York, alla quale la legge suddetta ha dato esecuzione, definisce come “discriminazione razziale” solo quella posta in essere in danno dei cittadini e non anche degli stranieri; inoltre il principio “sangue e suolo” non sarebbe proprio esclusivamente del nazismo, essendo già prima presente nel pensiero di Fichte;

2 – la prescrizione per i capi A e C;

3 – la mera apparenza della motivazione relativa al capo G (detenzione della pistola ad aria compressa) in quanto non sarebbe stata valutata né la efficienza dell’arma né la sua attitudine a recare offesa alla persona;

4 – la manifesta illogicità della motivazione relativa alla partecipazione dello Scola alla associazione, non avendo egli partecipato ad alcuna manifestazione ed essendo stato assolto dal capo A.1;

5 – la nullità dei capi civili della sentenza in quanto nelle conclusioni scritte il Comune di Milano non avrebbe quantificato l’ammontare del danno.

La parte civile costituita, Comune di Milano, ha presentato una memoria scritta ed ha chiesto il rigetto di tutti i ricorsi e specialmente di quelli proposti nell’interesse di Canù e di Scola nella parte in cui, con il motivo n. 5, hanno eccepito la nullità dei capi civili della sentenza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Tutti i ricorrenti, ad eccezione del P., il quale non è stato condannato per il reato di cui al capo A, hanno riproposto la questione, già ampiamente trattata nel giudizio di merito, concernente la interpretazione ed applicazione della disciplina della discriminazione razziale contenuta nell’art. 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, con le successive modifiche, in ordine alle pene, introdotte con la legge 25 giugno 1993, n. 205.

Sotto vari profili è stato sostenuto che la semplice manifestazione del pensiero in materia di razza, differenze razziali, superiorità di una razza rispetto alle altre, e così via, non può essere sanzionata penalmente in quanto rientrante in una elaborazione culturale di temi sociali e politici, già presenti nel pensiero di Fichte e poi fatti propri dal nazismo. In sostanza gli imputati si sarebbero limitati ad esporre e propagandare le loro idee approfondendo, di volta in volta, gli aspetti controversi dell’olocausto ed alla luce del cosiddetto “revisionismo storico” (avv. Leccisi), la stigmatizzazione della società multirazziale, la presa d’atto di un flusso migratorio pacifico, la valorizzazione delle tesi revisioniste (avv. Bazzoni), le differenze razziali, la natura del nazismo, i crimini commessi dagli americani contro i prigionieri giapponesi nella seconda guerra mondiale, i caduti nelle foibe (Cavalletti), la evoluzione del principio “sangue e suolo” già presente nel pensiero di Fichte e poi elaborato dal nazismo (avv. Correggiari).

Sul punto questa Corte ricorda che già con sentenza 16 marzo 1994, n. 556, P.M. in processo Ferri, sono state affrontate le problematiche relative alla interpretazione ed applicazione delle norme contro la discriminazione razziale introdotte con la legge 13 ottobre 1975, n. 654, in adempimento degli obblighi internazionali assunti con la ratifica della convenzione di New York del 17 marzo 1966. Tra l’altro è stato chiarito che le condotte incriminate confliggono con il principio costituzionale di uguaglianza e perciò è giustificata la repressione della diffusione di idee o comportamenti contrari ai valori tutelati dalla Costituzione. Inoltre è stato precisato che le organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, sono vietati indipendentemente dalla sussistenza della ulteriore eventuale finalità di eversione dell’ordine democratico, finalità quest’ultima che può costituire aggravante a sensi dell’art. 1, primo comma, legge 6 febbraio 1980, n. 15, ma non è richiesta per la sussistenza del reato.

In questa occasione deve essere ribadito che il diritto alla libera manifestazione del pensiero, tutelato dall’art. 21 della Costituzione, non può essere esteso fino alla giustificazione di atti o comportamenti che, pur estrinsecandosi in una esternazione delle proprie convinzioni, ledano tuttavia altri principi di rilevanza costituzionale ed i valori tutelati dall’ordinamento giuridico interno ed internazionale.

Le norme in tema di repressione delle forme di discriminazione razziale, oltre a dare attuazione ed esecuzione agli obblighi assunti verso la comunità internazionale con l’adesione alla convenzione di New York, costituiscono anche applicazione del fondamentale principio di uguaglianza indicato nell’art. 3 della Costituzione, sicché è ampiamente giustificato il sacrificio del diritto di libera manifestazione del pensiero.

Pertanto le censure mosse in via generale contro la interpretazione e applicazione delle norme incriminatrici contenute nell’art. 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, sono manifestamente infondate.

Peraltro la sentenza di appello ha puntualmente esaminato e valutato il complesso degli elementi di fatto costituiti dal contenuto dei volantini distribuiti nel corso delle manifestazioni pubbliche o rinvenuti nelle sedi della associazione, dagli accertamenti di polizia in ordine alle persone che hanno partecipato alle varie manifestazioni, dal testo dell’atto costitutivo e dello statuto della associazione. Sicché la motivazione sullo svolgimento della attività di incitamento alla discriminazione ed all’odio razziale, sulla partecipazione degli imputati, sulla esistenza, natura e fini della associazione e sulla appartenenza ad essa dei singoli imputati è completa e logica.

Invece le censure relative ai singoli imputati in ordine ai fatti, a ciascuno contestati con riferimento alla diffusione di idee razziste o alla partecipazione ad associazione avente come scopo l’incitamento all’odio o alla discriminazione razziale, nonché alla qualità di capo o di promotore attribuita ad alcuni, attengono tutte ad elementi di fatto e propongono inammissibili rivalutazioni dell’accertamento riservato al giudice di merito e da questi eseguito, nel caso concreto, senza vizi logici.

Così l’avv. Leccisi, nell’interesse dei numerosi ricorrenti da lui difesi, ha criticato la contraddizione tra la condanna dei suoi assistiti e la assoluzione, sin dal primo grado, dei teorici e degli ispiratori del movimento degli Skinheads. Ha inoltre affermato che molti degli episodi di intolleranza razziale sono stati commessi da persone rimaste ignote. A sua volta l’avv. Bazzoni, nell’interesse di B. M. e di T. C., ha contestato la partecipazione alla associazione di entrambi gli imputati, i quali avrebbero lasciato il movimento già prima dell’inizio del processo, nonché la qualifica di capo attribuita al solo B.. Infine l’avv. Correggiari, nell’interesse di S. C., ha contestato la appartenenza alla associazione del suo assistito il quale non avrebbe partecipato ad alcuna manifestazione e sarebbe stato assolto dal reato di cui al capo A.1. Sono tutte censure in punto di fatto che non possono essere esaminate in questa sede.

2 – Manifestamente infondata è anche la censura proposta dall’avv. Correggiari e relativa al trattamento sanzionatorio applicato per il reato di cui all’art. 3 della legge n. 654/75 nella ipotesi di aggravamento della pena per la qualità di capo. La censura si riferisce particolarmente alla posizione del B. nei confronti del quale è stata ritenuta tale qualifica.

Il ricorrente afferma che è erronea la interpretazione del giudice di appello nella parte in cui, confrontando le pene edittali previste dal testo originario della legge con quelle previste dopo la modifica apportata con la legge 25 giugno 1993, n. 205, ha ritenuto che la nuova disciplina è più favorevole all’imputato e perciò la ha applicata anche ai reati commessi anteriormente, a sensi dell’art. 2 c.p. Il ricorrente fa rilevare che la nuova disciplina, pur prevedendo in astratto una pena edittale inferiore, in concreto ha indicato una pena autonoma e non più una circostanza aggravante per la qualità di capo e con ciò ha reso impossibile il giudizio di comparazione con le attenuanti generiche, sicché in definitiva il nuovo trattamento sanzionatorio sarebbe più grave rispetto al precedente.

La censura, pur astrattamente fondata nella ipotesi in cui ad una circostanza aggravante venga sostituita la previsione di una figura autonoma di reato, avrebbe rilevanza solo con riferimento alla applicazione della pena massima prevista. In questo caso, infatti, la pena fissata dal nuovo testo della legge sarebbe superiore a quella che potrebbe essere inflitta, secondo la precedente normativa, a seguito del giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sulla circostanza aggravante costituita dalla qualità di capo. Nel caso concreto invece, essendo stata la pena determinata con riferimento al minimo edittale, la censura è manifestamente infondata in quanto la pena minima prevista nel testo originario dell’art. 3 era di un anno per il semplice partecipe alla associazione ed era aumentata fino a un terzo per il promotore o capo. Il nuovo testo ha previsto invece per l’ipotesi aggravata la pena minima di un anno. E’ evidente perciò che il nuovo trattamento sanzionatorio è, con riferimento alla pena minima che ora rileva, in ogni caso più favorevole all’imputato. Infatti, anche nella ipotesi in cui siano concesse le attenuanti generiche con giudizio di prevalenza, la pena minima prevista dalla nuova legge è uguale a quella precedentemente applicabile, mentre in tutte le altre ipotesi è decisamente inferiore.

Nel caso concreto la Corte di Appello ha concesso le attenuanti generiche e poi, applicando la nuova disciplina, ha determinato la pena in mesi nove giorni venti con riferimento alla nuova misura del minimo ed ha escluso la aggravante prima prevista.

3 – Sempre con riferimento all’art. 3 della legge 654/75, è anche manifestamente infondata la questione di carattere generale, sollevata dall’avv. Correggiari per C. D. e S. C. con riferimento alla configurabilità del reato nell’ipotesi in cui l’incitamento alla discriminazione razziale sia compiuto in danno di stranieri. Secondo il ricorrente la Convenzione di New York definisce come discriminazione razziale solo quella commessa verso i cittadini dello Stato e non anche verso gli stranieri, sicché la legge italiana di ratifica ed esecuzione di detta convenzione dovrebbe anch’essa essere interpretata nel senso che non sono punibili le eventuali istigazioni ad attuare un trattamento preferenziale dei cittadini rispetto agli stranieri.

La tesi contrasta con il chiaro dettato dell’art. 3 che vieta gli atti di discriminazione razziale, nazionale o religiosa indipendentemente dallo Stato di appartenenza delle persone eventualmente discriminate. Del resto, essendo inesistenti in Italia conflitti di natura etnica o razziale tra cittadini, è evidente che eventuali atti di discriminazione possono essere commessi soltanto nei confronti degli stranieri. Perciò la legge che ha dato attuazione alla convenzione internazionale e la ha inserita nel complessivo sistema giuridico retto dalla Costituzione repubblicana, ha equiparato la tutela dello straniero a quella del cittadino in omaggio al fondamentale principio di uguaglianza indicato dall’art. 3 della carta costituzionale.

Già con la sentenza 29 ottobre 1993, n. 3791, Freda, questa Corte ha precisato che la nozione di razzismo, rilevante ai fini della applicazione delle norme contro la discriminazione razziale così come di quelle che vietano la riorganizzazione del partito fascista (legge 20 giugno 1952, n. 645) indica tutte le dottrine che postulano l’esistenza di razze diverse superiori ed inferiori, le prime destinate al comando, le seconde alla sottomissione. Perciò la lettera e la “ratio” delle due leggi si identificano e le comuni proibizioni sono dirette ad impedire che le ideologie contenenti il germe della sopraffazione o teorie quali il primato delle razze superiori, la purezza della razza, conducano ad aberranti discriminazioni e ne derivi il pericolo di odio, violenza, persecuzione.

Non è perciò dubitabile che le ipotesi delittuose di incitamento all’odio razziale e di partecipazione ad associazioni che abbiano come scopo tale incitamento, tutelano non solo i cittadini ma anche e soprattutto gli stranieri.

4 – Le rimanenti censure, relative alle posizioni di singoli ricorrenti, hanno tutte ad oggetto questioni di fatto e sono inammissibili per tale motivo.

Per quanto riguarda i numerosi ricorrenti difesi dall’avv. Leccisi, imputati del reato di cui al capo A, è stato già sopra chiarito, sub 1), che le censure di contraddittorietà o illogicità della decisione nella parte in cui avrebbe affermato la responsabilità solo di alcuni imputati e avrebbe invece assolto i teorici ed ispiratori del movimento degli Skinheads, costituiscono una inammissibile rivalutazione delle circostanze di fatto accertate dai giudici di merito e da essi logicamente interpretate.

Altrettanto va detto per i ricorrenti B. e T., assistiti dall’avv. Bazzoni, con riferimento alla loro partecipazione alle manifestazioni nel corso delle quali sono state usate espressioni di incitamento all’odio ed alla discriminazione razziale, o alla partecipazione alla associazione nella quale il B. ha assunto la qualità di capo. Le censure su questi punti, come già sopra precisato sub 1), sono tutte inammissibili perché contengono soltanto critiche alla valutazione dei fatti compiuta dal giudice del merito.

Anche C. F. e P. P., nei motivi redatti personalmente, hanno contestato, in punto di fatto, la esistenza della associazione e la illiceità degli scopi perseguiti, o la partecipazione ad alcune singole manifestazioni. In particolare il P. ha messo in dubbio la attendibilità della testimonianza del commissario Mazza nella parte in cui lo ha indicato come partecipante alla manifestazione di via Torino in Milano. Sono all’evidenza tutte censure in punto di fatto.

L’avv. Correggiari, nell’interesse di C. e di S., ha lamentato, con riferimento al reato di detenzione di una pistola ad aria compressa di cui al capo G, la mancata valutazione della efficienza dell’arma e della sua attitudine a recare offesa alla persona. La censura è manifestamente infondata nella parte in cui denunzia la mera apparenza della motivazione, essendo stati invece adeguatamente e logicamente indicati i motivi per i quali la pistola in questione deve essere considerata un’arma da sparo. Peraltro l’accertamento della natura ed efficienza dell’arma rientra nella competenza esclusiva del giudice di merito.

Sono infine manifestamente infondate le eccezioni di prescrizione sollevate dagli avv.ti Bazzoni e Correggiari. La prescrizione infatti, secondo l’assunto difensivo, sarebbe maturata successivamente alla pronunzia della sentenza di appello. Essa pertanto non si è verificata perché, come sopra precisato con riferimento agli altri motivi, tutti i ricorsi sono originariamente inammissibili per la manifesta infondatezza dei motivi o per il loro carattere di censura in punto di fatto. Questa considerazione è sufficiente per non rilevare di ufficio eventuali prescrizioni che sarebbero maturate nel periodo successivo alla pronunzia della sentenza di appello.

Infine deve essere esaminata la censura contenuta nell’ultimo motivo del ricorso proposto dall’avv. Correggiari nell’interesse di C. e di S., relativa ai capi civili della sentenza. Essa si riferisce evidentemente alla sentenza di primo grado, non essendovi alcuna pronunzia civile nel dispositivo della sentenza di appello, mentre nella motivazione è spiegato che la omissione è derivata da mera dimenticanza. Così intesa la censura è inammissibile perché con l’appello non è stata proposta alcuna censura alla legittimazione della parte civile Comune di Milano.

Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna solidale dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Appare inoltre giusto condannare i singoli ricorrenti al versamento della somma di lire un milione ciascuno alla Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di lire un milione alla Cassa delle Ammende.