Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 5 Marzo 2004

Sentenza 02 aprile 2002, n.4627

Cassazione civile – Sezione III. Sentenza 2 aprile 2002, n. 4627.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Gaetano FIDUCCIA Presidente
Dott. Paolo VITTORIA Consigliere
Dott. Fabio MAZZA Consigliere
Dott. Mario FINOCCHIARO Cons. Relatore
Dott. Donato CALABRESE Consigliere

ha pronunciato la seguente: SENTENZA

sul ricorso proposto da: MASSA Salvatore, MASSA Leopoldo, elettivamente domiciliati in Roma, viale Mazzini n. 6, presso l’avv. Elio Vitale, che li difende giusta delega in atti;-ricorrenti – contro
Capitolo di San Pietro in Vaticano, in persona del Camerlengo mons. Giuseppe Bordin, elettivamente domiciliato in Roma, via Tacito n. 39, presso l’avv. Giulio Favino, che lo difende giusta delega in atti;
controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, sezione specializzata agraria, n. 1051-99 del 2 aprile – 9 novembre 1999 (R.G.152-99 R.G.). Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29 novembre 2001 dal Relatore Cons. Mario Finocchiaro; Udito l’avv. Elio Vitale per i ricorrenti e l’avv. Giulio Favino per il controricorrente; Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Rosario Russo, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Fatto

Con ricorso 23 maggio 1997 il Capitolo di San Pietro in Vaticano chiedeva che il tribunale di Roma, sezione specializzata agraria, dichiarasse risolto, per la data del 6 maggio 1997 il contratto di affitto di un fondo rustico di sua proprietà in Roma, località Acquafredda condotto da MASSA Salvatore e MASSA Leopoldo, con condanna di questi ultimi al rilascio del fondo stesso.
Costituitisi in giudizio i convenuti eccepivano la improcedibilità della domanda giudiziaria, poiché in sede di tentativo di conciliazione di cui all’art. 46 della l. 3 maggio 1982, n. 203 controparte aveva chiesto esclusivamente la declaratoria di risoluzione del contratto per scadenza del rapporto e non anche la determinazione della data di consegna.
Facevano, altresì, presente i convenuti, nell’ordine, sia che il dott. Latini (comparso innanzi all’Ipa) non aveva alcun mandato per rappresentare la parte locatrice, sia che in atti mancava qualsiasi prova della esistenza giuridica e della capacità di agire dell’ente attore, e che, infine, MASSA Leopoldo non aveva mai ricevuto le lettere di disdette prodotte da controparte.
In ogni modo, proseguivano i convenuti, mancava, in atti, la prova della proprietà e del possesso del fondo oggetto di lite da parte dell’ente ricorrente e della sua rappresentabilità attraverso la figura, sconosciuta in Italia, di un c.d. Camerlengo Maggiore, la impossibilità di accertare che il mandato alle liti fosse stato sottoscritto da costui, la inesistenza, in capo al Camerlengo Maggiore del potere di rappresentare l’ente e la mancata regolare e utile comunicazione di disdetta, da parte del ricorrente, mancando qualsiasi delibera ad hoc.
Svoltasi la istruttoria del caso l’adita sezione con sentenza 15 maggio 1998 dichiarava scaduto dal 10 novembre 1997 il contratto inter partes con condanna dei convenuti al rilascio del fondo.
Gravata tale pronunzia dai soccombenti MASSA Salvatore e MASSA Leopoldo, la corte di appello di Roma, sezione specializzata agraria, con sentenza 2 aprile – 9 novembre 1999 rigettava il proposto gravame, ponendo a carico degli appellati le spese del grado.
Per la cassazione di tale pronunzia, notificata il 26 novembre 1999 hanno proposto ricorso, con atto notificato il 24 gennaio 2000 MASSA Salvatore e MASSA Leopoldo, affidato a nove motivi.
Resiste, con controricorso, il Capitolo di San Pietro in Vaticano.
Le parti hanno presentato memoria

Diritto

1. I ricorrenti, dopo avere esposto, nella prima parte del ricorso (da pag. 1 a pag. 11), i fatti della causa, cioè lo svolgimento del processo, e riferito analiticamente tutte le deduzioni svolte hinc et hinde a sostegno dei rispettivi assunti (in applicazione del precetto di cui all’art. 366, n. 3, c.p.c.) denunciano con il primo motivo, testualmente, «in primis la sentenza è sostanzialmente priva di motivazioni e di corrispondenza tra il chiesto, o meglio, l’eccepito e il pronunciato, con palese violazione dell’art. 112 c.p.c.».
Si osserva, infatti, che «sono apodittiche e prive di sostegno e sviluppo logico le succinte, quasi inesistenti e del tutto gratuite motivazioni se così possono definirsi, poste a base delle relative decisioni nei soli quattro punti presi in considerazione. Di per sè soltanto questa violazione di legge sarebbe sufficiente alla cassazione del provvedimento – art. 360 n. 5 c.p.c.».
2. Il motivo non può trovare accoglimento, sotto nessuno dei due profili in cui si articola.
2.1. Quanto al primo (omessa motivazione), a prescindere dal considerare che ove faccia difetto – come si adombra – la motivazione della sentenza gravata sussiste la nullità di questa ex art. 360, n. 4, c.p.c. per violazione dell’art. 132, n. 4 c.p.c. e non sotto il profilo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c., si osserva che la sentenza impugnata, indica – da pagina 3 alla pagina 5 – pur se succintamente, i «motivi» della decisione e le ragioni per le quali i motivi di appello formulati dai MASSA dovevano disattendersi.
È palese, per l’effetto, che la denunziata assenza di motivazione non sussiste.
2.2. Sotto il secondo profilo (violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, e, pertanto, violazione dell’art. 112 c.p.c.) la censura è inammissibile, alla luce delle considerazioni che seguono.
Il ricorso per cassazione – in ragione del principio di autosufficienza dello stesso – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per le quali si chiede la cassazione della sentenza di merito, ed altresì a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti estranee allo stesso ricorso e quindi ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito (Cass. 5 gennaio 2001, n. 88).
Il ricorrente per cassazione il quale denunci l’esistenza di vizi della sentenza correlati al rifiuto opposto dal giudice di merito di dare ingresso ai mezzi istruttori ritualmente prodotti, pertanto, ha l’onere di indicare specificamente nel ricorso le deduzioni di prova che asserisce disattese, onde consentire in sede di legittimità la verifica, sulla sola base di tale atto di impugnazione e senza necessità di inammissibili indagini integrative della validità e decisività delle disattese deduzioni e senza che all’uopo possa svolgere alcuna funzione sostitutiva il riferimento per relationem ad altri atti o scritti difensivi presentati nei precedenti gradi del giudizio (Cass., 19 aprile 2001, n. 5816).
Analogamente, il ricorrente per cassazione il quale deduca l’omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata in relazione alla valutazione di una decisiva risultanza processuale ha l’onere di indicare in modo adeguato e specifico la risultanza medesima, dato che per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione il controllo deve essere consentito alla Corte sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative (Cass., 11 aprile 2001, n. 5404).
Pacifico, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice sulla specifica questione, quanto precede, ritiene la Corte che il detto principio, della autosufficienza del ricorso, trovi applicazione anche allorché il ricorrente lamenti una omessa pronuncia relativa a una domanda o ad una eccezione.
Lo stesso, quindi, ha l’onere di indicare non solo, puntualmente, quale sia, in concreto, la domanda o l’eccezione, sulla quale il giudice a quo non ha reso la propria pronunzia, ma anche in quale atto detta domanda o eccezione è stata posta, al fine di permettere la valutazione della ritualità e tempestività della stessa e quindi della decisività della questione, offrendo il riferimento all’atto del processo dal quale risulti la domanda o l’eccezione (cfr., recentemente, in termini, Cass., 29 ottobre 2001 n. 13410, specie in motivazione).
In mancanza delle indicazioni di cui sopra la censura si risolve in una affermazione apodittica, non seguita da alcuna dimostrazione, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, che mira ad assicurare – come sopra anticipato – che detto atto consenta, senza il sussidio di altre fonti, l’immediata e pronta individuazione delle questioni da risolvere, costituendo il principio dell’autosufficienza del ricorso un particolare atteggiarsi del disposto normativo della specificità dei motivi di impugnazione (art. 366 n. 4 e 342, comma 1, c.p.c.).
È vero che il vizio di omessa pronuncia, in quanto incidente sulla sentenza pronunziata dal giudice del gravame è deducibile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c. e, risolvendosi nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) integra un errar in procedendo, in relazione al quale la S.C. è anche giudice del fatto e ha il potere dovere di esaminare direttamente gli atti di causa e, in particolare, le istanze e le deduzioni delle parti (Cass., 25 settembre 1996, n. 8468; Cass., 10 gennaio 1996, n. 103).
Fermo questo potere – dovere di riesame degli atti processuali, peraltro, la parte ricorrente ha sempre l’onere di indicare sia quali siano le istanze pretesamente non esaminate sia dove dette istanze e deduzioni vadano esaminate.
Non va, infatti, confuso il dovere di «riesame del fatto processuale» con quello della «ricerca dello stesso», salvo che non si tratti di fatti rilevabili di ufficio e il vizio di omessa pronuncia non può essere rilevato di ufficio (pressoché in termini, Cass., 29 ottobre 2001, n. 13410, cit.).
Pacifico, in diritto, quanto precede si osserva che i ricorrenti, nella seconda parte del loro ricorso – destinata all’esposizione «dei motivi per i quali si chiede la cassazione» (a norma dell’art.
366 n. 4 c.p.c.) – si limitano, genericamente, a affermare che la sentenza gravata è stata resa in violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto, o meglio l’eccepito e il pronunciato, omettendo, peraltro, qualsiasi altra indicazione.
In realtà, come era loro onere, alla luce delle considerazioni svolte sopra, i ricorrenti dovevano puntualmente indicare quali erano i motivi di appello, tempestivamente e ritualmente formulati avverso la sentenza dei primi giudici, non esaminati dalla sentenza gravata, o da questa non sufficientemente esaminati, e non limitarsi ad affermare che la sentenza contiene delle motivazioni «succinte, quasi inesistenti e del tutto gratuite».
Essendosi, i ricorrenti limitati a esporre una propria, soggettiva, valutazione della motivazione della sentenza impugnata, è palese, come accennato, la inammissibilità della deduzione in esame la quale non permette a questa corte di apprezzare, sulla base della sola lettura dello specifico motivo di ricorso, se in effetti giudici del merito hanno trascurato di prendere in esame alcuni dei motivi di appello, o, come pure si adombra, non hanno tenuto presente alcune delle puntuali eccezioni spiegate in sede di merito.
3. Con il secondo motivo i ricorrenti denunziano, ancora, testualmente, che «la sentenza della Corte ha ignorato, omesso di pronunciare validamente sulle corrispondenti eccezioni, quanto disposto dagli articoli 1 e 16 c.c. in relazione all’art. 16 delle preleggi: difatti nè afferma e spiega l’esistenza di condizioni di reciprocità tra lo Stato della Città del Vaticano e quello italiano, nè rileva la mancanza in tutti gli atti processuali di un documento che possa considerarsi equivalente agli effetti operativi e-o organizzativi dell’atto costitutivo o dello statuto (essenziale nel diritto italiano per la costituzione e quindi per l’esistenza giuridica di qualsiasi persona giuridica pubblica o privata che sia) in capo all’ineffabile e misterioso ancora Rev.mo Capitolo di San Pietro in Vaticano, e dei modi, termini e forme in cui possa esprimersi ed articolarsi la propria capacità giuridica».
4. La deduzione è, per un verso inammissibile, per altro manifestamente infondata.
4.1. Quanto al primo profilo (inammissibilità) si osserva che giusta un insegnamento assolutamente pacifico presso la giurisprudenza di questa Corte regolatrice e che nella specie deve trovare ulteriore conferma, ove una sentenza (o un capo di questa) si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario – per giungere alla cassazione della pronunzia – non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo stesso dell’impugnazione.
Questa, infatti, è intesa alla cassazione della sentenza in toto, o in un suo singolo capo, id est di tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano.
È sufficiente, pertanto, che anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che sia respinta la censura relativa anche ad una sola delle dette ragioni, perché il motivo di impugnazione debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni. (In tale senso, ad esempio, tra le tantissime, Cass., 12 settembre 2000, n. 12040, specie in motivazione, nonché tra le più recenti affermazioni del principio, Cass. 24 maggio 2001, n. 7077;
Cass. 12 aprile 2001, n. 5493 e Cass. 14 marzo 2001 n. 3671).
Certo quanto sopra si osserva che i giudici del merito hanno disatteso l’eccezione di «inesistenza giuridica» dell’ente appellato (ora controricorrente) evidenziando, da un lato, che gli appellanti [id est MASSA Salvatore e MASSA Leopoldo, attuali ricorrenti] fin dal 1963 hanno avuto la legittima detenzione, quali affittuari, del fondo in questione proprio dal Capitolo di S. Pietro in Vaticano.. di cui paradossalmente eccepiscono la giuridica inesistenza», dall’altro, che la capacità giuridica dell’ente risulta, altresì, dalla inequivoca documentazione all’uopo prodotta dal Capitolo.
Poiché, come sopra osservato, i ricorrenti denunziano esclusivamente una delle rationes decidendi poste dai giudici a quibus a fondamento della raggiunta conclusione, trascurando totalmente l’altra, è, palese, la inammissibilità della deduzione.
Anche nell’ipotesi, infatti, dovesse ritenersi fondato il motivo di censura in esame giammai potrebbe pervenirsi alla cassazione della sentenza gravata, atteso che questa rimarrebbe pur sempre ferma in forza della ratio decidendi, sopra trascritta, non censurata e la cui correttezza giuridica, pertanto, non può essere vagliata in questa sede.
4.2. Anche a prescindere da quanto precede, comunque, non può tacersi che la deduzione in esame è manifestamente infondata atteso che – contrariamente a quanto invocato dai ricorrenti – lo specifico problema della personalità giuridica degli enti ecclesiastici non è soggetta alle regole di cui agli artt. 1 e 16 del codice civile, nè dell’art. 16 preleggi.
Recita testualmente l’art. 29, comma 2, lett. a) del Concordato tra la Santa Sede e l’Italia dell’11 febbraio 1929 [ratificato da parte dell’Italia con l. 27 maggio 1929, n. 810, e da cui prescinde totalmente la difesa dei ricorrenti e che, in quanto norma pattizia e eccezionale deroga, necessariamente, alla disciplina generale] che «ferma restando la personalità giuridica degli enti ecclesiastici finora riconosciuti dalle leggi italiane (sante Sede, diocesi, capitoli, seminari, parrocchie ecc.), tale personalità sarà riconosciuta anche alle chiese…».
Certo quanto precede, certo che l’ente ora controricorrente è un «Capitolo» (Capitolo di San Pietro in Vaticano) è palese che non può dubitarsi della soggettività giuridica di tale ente.
Nè, come pure si assume, era onere di parte controricorrente esibire l’atto di fondazione o di costituzione, apparendo, allo scopo, più che sufficiente la circostanza che da tutti i documenti prodotti dal controricorrente, la soggettività risulta incontestata e incontestabile.
È sufficiente al riguardo fare riferimento alla Nota verbale del 16 maggio 1987 della Segreteria di Stato Vaticana all’Ambasciata d’Italia presso la S. Sede, nonché alla stessa denunzia dei redditi per l’anno 1990 presentata dal Capitolo di San Pietro in Vaticano [Documenti tutti attinenti alla capacità di essere parte, anche nel presente giudizio, dell’ente controricorrente e che possono, quindi, essere direttamente esaminati da questa Corte regolatrice] richiamati dalla sentenza gravata e dal cui contenuto totalmente prescindono i ricorrenti.
5. Con il terzo motivo i ricorrenti assumono che «la sentenza della Corte [di merito] ha violato, reiterando la pari violazione di quella di primo grado, l’art. 182, comma 2, c.p.c., avendo disatteso l’obbligo di verificare d’ufficio la regolarità della rappresentanza ad litem del mons. Bordin, contestata ab initio dai resistenti, che non trova fondamento e riferibilità validi ed efficaci su alcuno dei documenti prodotti da controparte».
6. La deduzione è manifestamente infondata.
Tenuta presente la procura in atti, espressamente richiamata in motivazione, in data 25 novembre 1995, e con la quale è stato conferito a mons. Giuseppe Bordin il potere di compiere tutti gli atti indicati nella procura stessa, a nome e nell’interesse, tra l’altro, del Capitolo di San Pietro in Vaticano è di palmare evidenza che non esisteva, nella specie, alcun difetto di rappresentanza che imponesse al giudice di svolgere, d’ufficio, particolari indagini al riguardo.
In realtà, eventualmente, era onere di controparte dimostrare che la procura era stata rilasciata da soggetto non legittimato ad agire in nome e per conto del Capitolo (della cui capacità giuridica e d’agire non può dubitarsi, alla luce della espressa previsione dell’art. 29, lett. a) del Concordato, sopra richiamato).
Deve trovare, infatti, al riguardo, applicazione il principio, ripetutamente affermato da questa Corte e in forza del quale la persona fisica che, nella qualità di organo della persona giuridica, ha conferito il mandato al difensore, non ha l’onere di dimostrare tale sua qualità, spettando invece alla parte che contesta la sussistenza di detta qualità fornire la relativa prova negativa (Cass., 9 giugno 1999, n. 5699; Cass. 15 dicembre 2000, n. 15820).
7. Con il quarto motivo i ricorrenti deducono, ancora, che la sentenza in questa sede impugnata «ha violato l’art. 75 c.p.c., in particolare il suo comma 3, affermando che il Camerlengo firmatario della procura ad litem fosse dotato di idoneo a valido potere di agire, con una travisazione ed una manipolazione inammissibili – violazione dell’art. 116 c.p.c. – del testo della procura del 25 novembre 1995, letto, modificato e trascritto dalla Corte arbitrariamente a proprio comodo interpretativo, come si evince da una semplice lettura del documento che i Supremi Magistrati ora aditi certamente opereranno, verificando che i sei camerlengari non avevano, come emerge dagli artt. 62 e ss. dei Capita i poteri che si sono indebitamente attribuiti con quella opposta procura, letta e interpretata dalla Corte di Appello romana, lo si ribadisce, con palese violazione dell’art. 116 c.p.c.».
8. La censura non può trovare accoglimento.
Sotto diversi, concorrenti, profili.
In primo luogo, come già osservato sopra, era onere degli attuali ricorrenti dimostrare che in effetti la procura proveniva da soggetto non legittimato (e non viceversa).
In secondo luogo si osserva che l’interpretazione dei documenti di causa, e, pertanto, anche della procura in questione è rimessa in via esclusiva al giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità ove sorretta da congrua e logica motivazione, conforme a diritto.
Nella specie, per contro, i ricorrenti pur affermando di non condividere l’interpretazione data dai giudici a quibus alla procura in questione, si limitano, in termini estremamente generici, a censurare detta interpretazione come compiuta in violazione dell’art. 116 c.p.c. nonché frutto di un travisamento e di una manipolazione, ma omettono – totalmente – di precisare sia quale, a giudizio degli stessi, sia la corretta interpretazione di quel documento, sia, soprattutto, di indicare gli «errori» commessi dai giudici di merito in sede di interpretazione dello stesso.
9. Con il quinto motivo i ricorrenti denunciano, ancora, la violazione, da parte della Corte del merito dell’«art. 2697 c.c. per quanto riguarda la apodittica interpretazione e la postulata gratuita valenza, priva di sostegni e riscontri logici e giuridici, dei documenti – avvisi di ricevimento e fotocopia di asserite lettere di disdetta, loro attribuite nonostante le esplicite contestazioni al riguardo del resistente… MASSA Leopoldo ampiamente sviluppate nei precedenti gradi di giudizio e che in toto si richiamano».
Connesso a tale motivo è il sesto con il quale si lamenta che la corte del merito «ha omesso di pronunciarsi sulle correlate eccezioni dei resistenti alla esistenza, rilevanza e corrispondenza tra i documenti di cui sopra, prodotti ex adverso, violando l’obbligo processuale imposto dall’art. 112 c.p.c. in riferimento al precedente richiamato articolo 2697 c.c., nonché con le stesse violazioni di legge, sulla eccepita capacità di disdire i contratti di affitto da parte dei c.d. Camerlenghi i cui asseriti, ma contestati poteri, sono ancora privi di qualsiasi valido sostegno probatorio o documentale, non potendosi assolutamente tali quelli offerti. che controparte aveva l’obbligo di dare, ma non ha mai dato, in relazione ai poteri stessi, che alla riferibilità al soggetto ricorrente».
10. Entrambe le trascritte deduzioni – per molti aspetti di difficile lettura – sono inammissibili.
10.2. Quanto alla denunziata violazione, da parte dei giudici del merito, degli artt. 2697 c.c. e 112 c.p.c. le censure in esame sono manifestamente inammissibili.
Deve ribadirsi al riguardo, infatti, che quando nel ricorso per cassazione pur denunziandosi violazione e falsa applicazione della legge, con richiamo di specifiche disposizioni normative, non siano indicate le affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le disposizioni indicate – o con la interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina – il motivo è inammissibile poiché non consente alla Corte di cassazione di adempiere il compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. 12 maggio 1998 n. 4777).
In altri termini è inammissibile il ricorso nel quale non venga precisata la violazione di legge nella quale sarebbe incorsa la pronunzia di merito, non essendo al riguardo sufficiente un’affermazione apodittica non seguita da alcuna dimostrazione dovendo il ricorrente porre la Corte di legittimità in grado di orientarsi fra le argomentazioni in base alle quali si ritiene di censurare la pronunzia impugnata (Cass. 21 agosto 1997 n. 7851).
Pacifico quanto precede si osserva che nella specie, come si ricava dal contesto del motivo, parte ricorrente omette sia di indicare quale sia la interpretazione data, dal giudice del merito, delle richiamate disposizioni (artt. 2697 c.c. e 112 c.p.c.) e i motivi per cui la stessa non possa essere accettata, sia quale sia la «corretta» interpretazione di tali norme.
In realtà parte ricorrente, lungi dal censurare l’interpretazione che il giudice del merito ha dato delle ricordate disposizioni, si limita a dolersi che l’esito della lite sia stato sfavorevole alle proprie aspettative, per essere state le risultanze di causa valutate in modo difforme alla sua, soggettiva, interpretazione di quelle stesse risultanze ed è evidente -pertanto – che la denuncia esula totalmente dalla previsione di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c.
10.3. Contemporaneamente non può non evidenziarsi che le censure in esame a causa della loro estrema genericità non consentono di comprendere nè quale sia la «interpretazione» data dai giudici a quibus dei documenti in atti, contestata dai ricorrenti, nè sotto quale profilo detta interpretazione sia in contrasto con le norme di legge richiamate.
10.4. Sempre in margine ai sopra indicati motivi si osserva che l’onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall’art. 366, comma 1, numero 4, c.p.c., non può essere assolto per relationem con il generico rinvio ad atti del giudizio di merito, senza la esplicitazione del loro contenuto (Cass., 8 marzo 2001, n. 3385), come invece operato dai ricorrenti.
10.5. Solo per completezza di esposizione, infine, si osserva che essendo pacifico – alla luce delle considerazioni svolte sopra – che il Capitolo di san Pietro in Vaticano è dotato di personalità giuridica, che il potere di amministrazione – in assenza di qualsiasi altra dimostrazione in senso contrario proveniente dagli attuali ricorrenti – compete proprio ai soggetti che hanno rilasciato mandato, in data 25 novembre 1995, a Mons. Bordin, non si comprende in forza di quale iter argomentativo (e, soprattutto, di quale principio di diritto) dovrebbe pervenirsi alla conclusione che detto Mons. Bordin era privo del potere di disdire il contratto di affitto oggetto di controversia.
11. Con il settimo motivo i ricorrenti lamentano, ancora, la violazione della [intera] legge n. 203 del 1982 per avere omesso di riformare la sentenza di primo grado nel punto della eccepita improponibilità ed improcedibilità della richiesta del ricorrente di fissazione della data di rilascio del fondo che, pur non essendo mai stato oggetto di richiesta all’IPA di Roma, il tribunale aveva accolto e deciso, ignorando l’essenzialità della proposizione, del conseguente esame e della auspicabile determinazione di una data di rilascio che poteva invece essere utilmente concordata e conciliata in sede di IPA, con gli effetti benefici già citati».
12. Al pari delle precedenti la censura è inammissibile.
I giudici del merito hanno accertato, in linea di fatto, che dal verbale della comparizione delle parti innanzi all’Ispettorato provinciale dell’agricoltura risulta che «l’esperito tentativo di conciliazione ha avuto per oggetto la «finita locazione per scadenza legale ed il rilascio del fondo per la scadenza del 6 maggio 1997».
Pacifico quanto precede è palese che non esiste alcuna relazione tra quanto affermato dai giudici del merito, allorché hanno ritenuto adempiuto l’onere di cui all’art. 46, l. 3 maggio 1982, n. 203 da parte del Capitolo attore, e la censura in esame.
Se, per contro, con tale censura si vuol dedurre che, in realtà, in sede di tentativo di conciliazione non è stato oggetto di esame la data di rilascio del fondo stesso la censura stessa è palesemente inammissibile sotto altro profilo.
Giusta la testuale previsione di cui all’art. 395, n. 4, c.p.c. le sentenze pronunziate in grado di appello possono essere impugnate per revocazione qualora la sentenza stessa sia, «l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa».
«Vi è questo errore – in particolare – quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontestabilmente esclusa».
Pacifico quanto sopra e non controverso che la denuncia di un travisamento di fatto quando attiene non alla motivazione della sentenza impugnata, ma ad un fatto che sarebbe stato affermato in contrasto con la prova acquisita, costituisce motivo non di ricorso per cassazione ma di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., importando essa un accertamento di merito non consentito al giudice di legittimità (cfr. Cass., 27 marzo 1999, n. 2932), è palese la inammissibilità – come anticipato – della censura in esame.
Nella specie, infatti, i ricorrenti denunziando che i giudici del merito avrebbero posto a fondamento della propria decisione un dato di fatto inesistente [quanto all’ambito del dibattito innanzi all’Ispettorato agrario in sede di tentativo di conciliazione] imputano a costoro un travisamento dei fatti che – in quanto tale – non può costituire motivo di ricorso per cassazione.
Il denunciato travisamento, in particolare, risolvendosi nell’inesatta percezione da parte del giudice, di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento in contrasto con quanto risulta dagli atti del processo, costituisce un errore denunciabile con il mezzo della revocazione ex art. 395 n. 4 c.p.c.
(tra le tantissime, Cass., 28 novembre 1998, n. 12089, nonché Cass., 23 giugno 1998, n. 6235, nonché Cass., 2 marzo 2001 n. 3023, specie in motivazione).
13. Con l’ottavo motivo, i ricorrenti denunciano ancora, sia la ritenuta [dai giudici a quibus] riferibilità dei Capita Constistutionum [prodotti, peraltro, dagli appellanti MASSA Salvatore e MASSA Leopoldo, cioè dagli attuali ricorrenti], al Capitolo di San Pietro in Vaticano, sia l’interpretazione data [dalla sentenza gravata] di detti Capita.
Si osserva, infatti, da parte dei ricorrenti:
– in primis, che i giudici a quibus hanno «dato ingiustificatamente ed immotivatamente per ammessa e, quindi violando gli artt. 112 e 115 c.p.c., la equivalenza tra la Patriarcale Basilica, dei quali i Capita Constitutionum sono l’atto costitutivo e lo statuto, e il [diverso] rev.mo Capitolo di San Pietro in Vaticano che… è l’unico soggetto attore del presente procedimento»;
– in secondo luogo, che «a proposito della valutazione dei Capita Constitutionum la sentenza della corte di appello di Roma, prendendo in considerazione ingiustificatamente ed indebitamente un solo articolo, il 68, dello statuto in questione, elude e stravolge il significato sintomatico delle deroghe al principio della gestione generalmente collegiale… che compete… in capo a tutti i canonici».
14. La censura è inammissibile.
Sotto entrambi i profili in cui si articola.
14.1. Quanto, in primo luogo, alla dedotta non applicabilità dei Capita questione al soggetto giuridico «Capitolo di San Pietro in Vaticano» che – assumono i ricorrenti – è distinto e autonomo, rispetto alla Patriarcale Basilica (di cui i Capita sono l’atto costitutivo e lo statuto) la censura è inammissibile per difetto di interesse (art. 100 c.p.c.).
Precisato, infatti, che il principio contenuto nell’art. 100 c.p.c., secondo il quale per proporre una domanda o per resistere ad essa è necessario avervi interesse si applica anche al giudizio di impugnazione, si osserva che nei giudizi di gravame l’interesse ad impugnare una sentenza, o un capo di essa, va desunto dalla utilità giuridica che dall’eventuale accoglimento del gravame possa derivare alla parte che lo propone, con conseguente cassazione della sentenza gravata (cfr. Cass., 22 febbraio 2000, n. 2022; Cass., 14 aprile 2000, n. 4851; Cass. 7 dicembre 2000, n. 15526).
Certo quanto sopra è di palmare evidenza che nell’ipotesi fosse accertato, come si invoca dai ricorrenti, che i Capita costitutionum in quanto applicabili esclusivamente per la gestione della Patriarcale Basilica, e non anche per l’amministrazione del Capitolo di San Pietro in Vaticano, ora in giudizio, giammai potrebbe pervenirsi alla cassazione della sentenza impugnata.
Pacifico, infatti, che l’istituto del mandato (art. 1703 e ss. c.c.) ha cittadinanza anche nell’ordinamento canonico e non controverso che possono conferire mandato sia persone fisiche che giuridiche, è palese che il mandato 25 novembre 1995 – la cui validità è contestata dai ricorrenti con il motivo in esame – dovrebbe, comunque, essere ritenuto valido anche da questa Corte, attesa la inapplicabilità al Capitolo attuale controricorrente delle disposizioni oggetto di contestazione da parte dei ricorrenti.
14.2. Quanto al secondo profilo di censura hanno osservato i giudici del merito che l’art. 68 dei riferiti Capita non contiene alcuna limitazione, quanto al potere, spettante al Collegio dei Camerlenghi, di rilasciare procura per il compimento di attività giuridiche e prevede la diversa ipotesi in cui qualche membro di quel Collegio si allontani dalla città del Vaticano, disponendo che in una tale eventualità l’attività amministrativa dovrà essere espletata dagli altri componenti, purché rimangano in numero non inferiore a due.
Oppongono, per contro, i ricorrenti – come sopra anticipato – che, in realtà, i detti Capita non avrebbero consentito il rilascio di un mandato.
Anche per la parte de qua il motivo è manifestamente inammissibile.
Escluso, infatti, che i Capita constitutionum di cui si discute abbiano natura normativa e pacifico, all’opposto, che gli stessi integrano meri atti amministrativi emessi nell’ordinamento canonico, è palese che non può essere denunziata, in questa sede, la loro violazione, o falsa applicazione, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c.
L’interpretazione data dai giudici di merito ai riferiti Capita, in realtà, poteva essere dedotta esclusivamente sotto il diverso profilo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c.
A tale fine, era onere, peraltro, dei ricorrenti prospettare l’esistenza, nel ragionamento fatto proprio dai giudici di merito, in sede di interpretazione dei detti Capita, di un mancato o insufficiente esame di punti decisivi, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione.
Atteso, per contro, che i ricorrenti si sono limitati ad opporre alla interpretazione data dai giudici a quibus del più volte ricordato documento una propria, soggettiva, interpretazione di quello stesso documento, senza in alcun modo censurare, se non con espressioni «di stile» e assolutamente generiche, le conclusioni fatte proprie dalla sentenza gravata e senza indicare i vizi – relativi alla interpretazione degli atti – in cui detta sentenza è incorsa in sede di esegesi del documento, è palese che la deduzione è inammissibile (cfr. Cass., 21 marzo 2001, n. 4025 e Cass. 8 agosto 2000, n. 10417, specie in motivazione, nonché Cass., sez. un., 11 giugno 1998, n. 5802 e Cass., 22 dicembre 1997, n. 12960).
15. Con il nono, e ultimo, motivo, infine, i ricorrenti osservano che «la sentenza [impugnata] infine è nulla perché, reiterando l’omissione dei giudici di primo grado, con un’ulteriore violazione dell’art. 112 c.p.c., non ha assolutamente e esplicitamente…
deciso la domanda di chiamata in garanzia volta dai resistenti contro il sedicente rappresentante legale dell’apparente soggetto ricorrente».
16. Il motivo è manifestamente infondato.
Si osserva, infatti, che l’opportunità dell’intervento in causa del terzo, ad istanza di parte è rimessa alla valutazione esclusiva e discrezionale del giudice del merito, l’esercizio della quale, in senso positivo o negativo, non può formare oggetto d’impugnazione nè, tantomeno, è sindacabile in sede di legittimità (Cass. 14 febbraio 2000 n. 1600).
Contemporaneamente, anche a prescindere da quanto precede, si osserva che la chiamata in causa di un terzo non può essere autorizzata dal giudice dopo la prima udienza, neanche se l’interesse della parte ad ottenere la partecipazione del detto terzo nel giudizio sia sorto nel corso dello svolgimento del processo ed a seguito della difesa avversaria e dell’istruttoria espletata (Cass. 12 maggio 2000 n. 6092).
È palese, pertanto, che esattamente i giudici di secondo grado non hanno esaminato la richiesta in questione.
17. Si assume, infine, sempre con il nono motivo, da parte dei ricorrenti, che la sentenza non avrebbe deciso, ignorando in toto la richiesta di dichiarazione di proroga legale del contratto di locazione del fondo di via Acquafredda.. perché mancata qualsiasi valida disdetta, chiesta dagli appellanti in effetto della loro impugnazione con ulteriore evidente violazione del più volte citato art. 112 c.p.c.
18. La deduzione è palesemente inammissibile.
Vuoi per la sua estrema genericità, vuoi tenuto presente che l’art. 40, comma 1, l. 3 maggio 1982, n. 203 ha abrogato le disposizioni di legge che prevedono la proroga di contratti agrari o che disciplinano le eccezioni alla proroga stessa (per cui è palese che i giudici del merito non potevano fare applicazione di un istituto giuridico, quello della proroga legale dei contratti agrari, non più esistente).
Anche a prescindere da quanto precede, comunque, come osservato sopra, in sede di analisi del primo motivo, i ricorrenti non potevano limitarsi, genericamente, a affermare che una loro istanza non è stata esaminata dai giudici del merito ma dovevano, altresì, precisare in quale occasione – nel rispetto del principio del contraddittorio e con l’osservanza delle norme di cui agli artt. 409 e ss. c.p.c., e, in particolare degli artt. 418, 420 e 437 c.p.c. – una tale richiesta era stata formulata.
19. Risultato totalmente infondato il proposto ricorso, in conclusione, deve rigettarsi, con condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M

LA Corte, rigetta il ricorso;
condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate in lire 181.000 0 euro 93,48 oltre lire 5.000.000, quanto agli onorari 0 euro 2582,29.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della terza sezione civile della Corte di Cassazione, giorno 29 novembre 2001.