Parere 12 maggio 1993, n.462
Consiglio di Stato. Sezione Prima. Parere 12 maggio 1993, n. 462.
Considerato
(omissis)
5. – Nel sistema degli accordi concordatari del 1984 e della legge sugli enti ecclesiastici, n. 222 del 1985, conviene distinguere, per i profili che qui interessano, fra diverse categorie di enti:
a) quelli per i quali il fine di religione e di culto è riconosciuto direttamente dalla legge, o, se si vuole, sussiste necessariamente in relazione alla corrispondenza ad una determinata figura tipica;
b) quelli che corrispondono a figure tipiche (es.: associazioni, fondazioni) alle quali non inerisce di necessità un fine di religione e di culto, né questo è ritenuto sussistente direttamente dalla legge, ma dev’essere accertato caso per caso dall’autorità governativa.
Testualmente, la legge n. 222 del 1985, all’art. 2 comma 1, sembra includere nel primo gruppo solo gli enti che fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa, gli istituti religiosi e i seminari. Ma questa Sezione ha già avuto modo di affermare che tale elencazione non è tassativa, potendo venire integrata per via di interpretazione estensiva o analogica: così è stato detto per gli istituti secolari, sottospecie, insieme a quelli religiosi, degli istituti di vita consacrata (parere 13 dicembre 1989, n. 2090/89) e per le prelature personali (parere 26 settembre 1990, n. 1032/89). E pare ragionevole estendere il concetto anche ad altre figure tipiche, come le chiese non parrocchiali aperte al culto (con la sottospecie dei santuari) o i capitoli. Del resto, la stessa legge n. 222/85, all’art. 22, dispone che gli istituti di sostentamento del clero, in quanto giuridicamente riconosciuti, sono qualificati ope legis enti ecclesiastici: vi è dunque una controprova testuale del fatto che l’elenco dell’art. 2, comma 1, non è esaustivo. Ciò non significa che nel caso di un ente che chieda il riconoscimento con la denominazione di “chiesa” o di “capitolo” sia precluso all’autorità civile l’accertamento della finalità di religione e di culto, da condurre in base all’esame dello statuto ed all’analisi dell’attività concretamente esercitata: ma se da tale disamina emergerà che il fine di culto è assente, la conclusione sarà che l’ente in questione non appartiene, in realtà, alla figura tipica cui fa riferimento la sua denominazione ma ad altra figura tipica (es.: associazione o fondazione).
6. – Una delle principali conseguenze di questa distinzione è che gli enti del primo gruppo, una volta accertata la loro corrispondenza ad una figura tipica canonistica (es.: diocesi, parrocchia, istituto religioso, seminario) non possono essere riconosciuti se non come enti ecclesiastici; i secondi, invece, possono essere riconosciuti come enti di diritto privato comune, quante volte il fine di religione o di culto risulti assente o non sufficientemente caratterizzante, ovvero manchino altri specifici requisiti (es.: l’assenso dell’autorità ecclesiastica). Il che significa che per gli enti del primo gruppo il fine di religione e di culto è un presupposto indefettibile ed essenziale sia in ordine all’esistenza dell’ente, sia alla sua riconoscibilità (che si tratti di un presupposto essenziale non è ovviamente meno vero per il solo fatto che il suo accertamento sia stato compiuto a priori dal legislatore); mentre per i secondi è un elemento secondario, che non ne condiziona né l’esistenza né la riconoscibilità, ma, semmai, l’ascrizione al novero degli enti ecclesiastici.
Si può anche dire che gli enti del primo gruppo appartengono geneticamente all’ordinamento canonico e ciò comporta, fra l’altro, che possono e debbono essere costituiti nelle forme proprie dell’ordinamento stesso, vale a dire con atto della competente autorità ecclesiastica – e sarebbe fuor di luogo esigere un atto costitutivo posto in essere nelle forme proprie dell’ordinamento civile. Ciò è stato già affermato nei pareri di questa Sezione 27 maggio 1992, n. 2031/88, concernente il santuario della Madonna delle Grondici, e n. 767/89, concernente l’Istituto di N™tre Dame de Digne; ma, ad integrazione di quei pareri, conviene ora precisare che il principio riguarda, per l’appunto, solo gli enti del primo gruppo, mentre altrettanto non può essere detto per le associazioni e le fondazioni che, di per sé, rientrano a tutti gli effetti negli schemi del libro I del codice civile, e solo in quanto rivestano l’ulteriore requisito del fine di culto possono conseguire la qualificazione di “ente ecclesiastico civilmente riconosciuto”.
Ancora: si può dire che gli enti del primo gruppo non godono di alcuna autonomia di scelta in ordine al tipo di riconoscimento (ente ecclesiastico o ente di diritto comune) potendo essere riconosciuti solo come enti ecclesiastici; mentre quelli del secondo gruppo hanno una relativa autonomia, nel senso che la qualità di ente ecclesiastico non può esser loro conferita se non in quanto la richiedano, e pertanto possono di fatto optare per il riconoscimento come enti di diritto privato comune pur quando posseggano elementi sufficienti per essere qualificati come enti ecclesiastici.
7. – All’interno del primo gruppo, poi, si può ulteriormente distinguere in relazione alla maggiore o minore discrezionalità spettante all’autorità governativa in ordine all’emissione dell’atto di riconoscimento. Tale discrezionalità appare minima o addirittura inesistente nel caso, ad es., degli enti propri della costituzione gerarchica della Chiesa (diocesi, parrocchie) o di quelli il cui riconoscimento è previsto ex lege (istituti di sostentamento del clero; conferenza episcopale italiana) e via via piú estesa nel caso di altri enti. Per gli enti del secondo gruppo, invece, il riconoscimento è sempre ampiamente discrezionale.
Quanto all’oggetto dell’apprezzamento discrezionale, la legge n. 222/85 dà varie indicazioni. Cosi, per le chiese non parrocchiali, l’art. 11 prescrive che si valuti discrezionalmente il possesso di mezzi patrimoniali adeguati allo scopo; l’art. 12, per le fondazioni di culto, indica come oggetto di giudizio discrezionale non solo l’adeguatezza del patrimonio, come sopra, ma anche “la rispondenza alle esigenze religiose della popolazione”. L’art. 8, per gli istituti religiosi di diritto diocesano, prescrive che si accerti (s’intende, discrezionalmente) la sussistenza di “garanzie di stabilità”. L’art. 9, per le società di vita apostolica e le associazioni pubbliche di fedeli, richiede che “non abbiano carattere locale”: e anche questo è un elemento che non può essere accertato se non in modo discrezionale.
Queste indicazioni, tuttavia, come altre già esaminate, non possono essere intese in modo rigorosamente tassativo.
E’ intuitivo, infatti, che l’apprezzamento della sufficienza dei mezzi patrimoniali s’impone anche nel caso di enti diversi da quelli testualmente indicati all’art. 11 e all’art. 12. Così pure l’apprezzamento delle “garanzie di stabilità” non può ragionevolmente mancare nel caso di enti diversi da quelli cui testualmente si riferisce l’art. 8.
Ed in questo contesto s’inserisce, per necessità logica, anche una disamina dell’adeguatezza delle clausole statutarie: se non altro, come elemento primario delle “garanzie di stabilità”. Ed invero, uno statuto che sia carente di meccanismi e regole per la nomina degli amministratori e legali rappresentanti dell’ente induce a formulare una prognosi negativa riguardo alla futura “stabilità” dell’ente; lo stesso si dovrà dire in ogni caso in cui lo statuto contenga disposizioni di dubbia interpretazione, come tali suscettibili di dar vita a conflitti e controversie, ovvero di difficile applicazione nella pratica (es.: procedimenti esageratamente complessi per l’adozione delle deliberazioni), come tali suscettibili di determinare la paralisi delle funzioni istituzionali. Più in generale, non potrà mancare un esame volto ad individuare eventuali punti di contrasto con l’ordine pubblico.
Che il sindacato esercitabile a tali fini sullo statuto sia più o meno penetrante, a seconda del maggiore o minor grado di discrezionalità inerente all’atto di riconoscimento, in relazione alla categoria cui appartiene l’ente ecclesiastico interessato, è stato già detto da questa Sezione con parere 26 settembre 1990, n. 1032/89 (Prelatura personale della Santa Croce).
8. – Passando, ora, all’esame della fattispecie concreta, ci si chiede, innanzi tutto, come l’ente in questione vada classificato nella tipologia della legge n. 222/85, e quale grado di dicrezionalità inerisca all’eventuale riconoscimento.
Ciò posto, si osserva che l’ente de quo è un’articolazione periferica di un istituto religioso di diritto pontificio, l’Ordine dei … Che l’Ordine già goda della personalità giuridica come ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, non risulta esplicitamente dagli atti, ma si può dare per certo. é pure ipotizzabile che civilmente riconosciuta sia anche la Provincia cui appartiene l’Istituto di …, ma, ai fini che qui interessano, si può ritenere superflua una indagine in questo senso.
Ed invero, si tratti dell’Ordine nel suo complesso o della Provincia, già esiste un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, cui imputare i rapporti giuridici e patrimoniali relativi alla casa di …. Pertanto, l’eventuale costituzione di quest’ultima in ente a sé stante risponde solo ad esigenze interne di natura organizzativa.
Conviene sottolineare che la legge del 1985 si riferisce esplicitamente agli istituti religiosi in quanto tali, e non fa cenno della possibilità che taluna delle loro strutture periferiche consegua autonomamente la personalità giuridica, divenendo a tutti gli effetti giuridici un ente separato. Tuttavia, pare ragionevole intendere che il silenzio della legge del 1985 non vale come esclusione di tale possibilità; ed è questa una ulteriore prova del fatto che la tipologia degli enti, indicata da quella legge, non è tassativa: accanto agli istituti religiosi, dunque, possono conseguire la qualità di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto anche singole loro articolazioni periferiche o strutture locali.
9. – é altrettanto ragionevole, però, ravvisare una certa differenza a seconda che si tratti di riconoscere un istituto religioso di diritto pontificio, o una sua singola struttura.
Nel primo caso, l’ordinamento canonico si è espresso ai suoi piú alti livelli e in una forma di speciale solennità (nella specie, la bolla pontificia del 1528) sicché sembra difficile ipotizzare valide ragioni per un diniego che si risolverebbe, con la negazione dell’autonomia patrimoniale, in un serio ostacolo alla libertà d’azione dell’istituto e alla sua stessa sopravvivenza, in contrasto con i principi costituzionali e concordatari.
Nel secondo caso, salva l’immanenza del fine di religione e di culto, i presupposti per il riconoscimento possono e debbono essere valutati con ben maggiore discrezionalità: l’autonomia patrimoniale e la libertà d’azione dell’istituto religioso, complessivamente considerato, sono comunque assicurate e vengono in gioco solo interessi di tipo organizzativo, che possono anche essere transeunti (ciascun ordine religioso, conservando inalterata la sua identità e la sua fisionomia, può mutare di tempo in tempo la sua organizzazione territoriale periferica) e, occorrendo, possono essere soddisfatti anche in altro modo (ad esempio, mediante deleghe).
Cosi può avvenire che lo Stato giudichi inopportuno, dal punto di vista dell’interesse pubblico, conferire personalità giuridica separata ad un singolo convento che, pur appartenendo ad un ordine religioso di grande rilevanza e di gloriose tradizioni, non abbia per se stesso un patrimonio e una struttura istituzionali sufficienti ad assicurarne una stabile vita autonoma.
Una speciale considerazione, a questi fini, dev’essere riservata ai diritti dei terzi ed alla loro tutela. Infatti, l’attribuzione di una distinta personalità giuridica ad una struttura periferica ha, in buona sostanza, come suo effetto principale, la separazione dei patrimoni dei due enti con la conseguente impossibilità, per i creditori dell’uno, di rivalersi sul patrimonio dell’altro. Pertanto la suddivisione di un ente originariamente unitario in una pluralità di enti minori, ciascuno dotato di un suo patrimonio, può costituire un pericolo per la soddisfazione delle legittime pretese dei creditori di ciascuno di essi. Donde la necessità che simili separazioni di enti e di patrimoni vengano adeguatamente soppesate dall’autorità governativa, anche da quest’angolo visuale.
10. – In questa luce non sembrano interamente pertinenti i richiami che, con l’obiettivo di replicare alle osservazioni del Ministero dell’Interno, sono stati fatti ai principi generali in materia di autonomia ecclesiastica e di rapporto fra l’ordinamento canonico e quello civile.
Né si potrà mettere in ombra il fatto che la parte piú rilevante della gestione patrimoniale dell’istituto di … riguarda l’annessa scuola media, e cioè un’attività che pur essendo lato sensu congruente alle finalità dell’ordine religioso dei …, non s’identifica però in esse stricto sensu; ed è, comunque, per espresso dettato dell’art. 16 della legge n. 222/85, attività diversa da quelle di religione e di culto, con ciò che ne consegue ai fini dell’applicazione dell’art. 7, n. 3, comma secondo, dello strumento concordatario del 1984. Pertanto la verifica della correttezza e della congruità delle clausole statutarie dovrà essere fatta anche tenendo conto di questa importante caratteristica assunta in concreto dall’ente. Ciò si dice con particolare riguardo alle clausole relative all’amministrazione dei beni patrimoniali e alla gestione dei rapporti contrattuali con i terzi.
11. – In definitiva, si può concludere nel senso che i rilievi mossi dal Ministero, ed i suggerimenti che ne sono conseguiti, meritano di essere condivisi.
In particolare, si fanno le seguenti osservazioni:
a) quanto al patrimonio, la richiesta del Ministero, che nello statuto siano indicati gli elementi costitutivi del patrimonio iniziale dell’ente, non implica che debbano essere individuati specificamente i singoli beni, e tanto meno che, quand’anche una tale individuazione vi fosse, ogni successiva variazione della consistenza patrimoniale comporti una modifica dello statuto. é necessario, invece, che sia indicato il patrimonio iniziale dell’ente, e siano altresì indicate le fonti dalle quali il patrimonio sarà in futuro alimentato: come in genere si usa negli statuti di consimili enti. La formula attualmente usata nello statuto “il patrimonio dell’ente è costituito dai beni mobili ed immobili comunque ad esso pervenuti” appare manifestamente di eccessiva genericità;
b) ugualmente viziate per eccessiva genericità, e assolutamente inaccettabili, sono le disposizioni statutarie relative al “legale rappresentante”. Si legge, infatti, nell’art. 4 dello statuto che “agli effetti civili l’Istituto … agisce per mezzo del legale rappresentante la cui qualifica è certificata dalla Santa Sede” e all’art. 5 che “il legale rappresentante dura in carica sino a quando non venga sostituito”: non viene detto come e da chi il “legale rappresentante” venga scelto e nominato. Dire che la sua qualifica è “certificata” dalla Santa Sede non equivale a dire che egli sia “nominato” dalla Santa Sede; se però questo fosse l’intendimento di chi ha redatto lo statuto, converrebbe quantomeno precisare l’organo (il Sommo Pontefice, il Segretario di Stato, la Congregazione degli istituti di vita consacrata) e resterebbe da interrogarsi sull’opportunità e sulla pratica applicabilità di una disposizione siffatta. é tuttavia verosimile che l’intenzione non esplicitata sia piuttosto quella di attribuire la qualità di amministratore unico e legale rappresentante dell’ente al padre guardiano pro tempore della relativa comunità religiosa, canonicamente investito di tale ufficio a norma delle costituzioni dell’Ordine: una simile regola sarebbe accettabile, ma dovrebbe essere chiaramente enunciata;
c) considerato il tipo di attività svolto in prevalenza dall’ente, è necessario e risponde a canoni di buona amministrazione, come già evidenziato dal Ministero, che lo statuto preveda la tenuta di regolari libri contabili e la formazione annuale di un bilancio consuntivo con relativo stato patrimoniale. é poi consigliabile che la contabilità sia sottoposta al controllo di un apposito collegio di revisori, la cui periodica nomina potrebbe essere attribuita, dallo statuto, ai superiori gerarchici dell’Ordine e che dovrebbero essere scelti, almeno in parte, fra persone professionalmente competenti.
Con l’osservanza di queste prescrizioni, la pratica potrà avere corso.
P.Q.M.
esprime parere favorevole al riconoscimento dell’ente, subordinatamente all’osservanza delle prescrizioni sopra indicate.
Autore:
Consiglio di Stato
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Insufficienza, Previsioni statutarie, Gestione finanziaria, Indicazione, Mezzi patrimoniali, Istituto religioso, Fine di religione e di culto, Diritto pontificio, Ente confessionale, Rappresentanza, Riconoscimento, Statuto, Modalità, Personalità giuridica
Natura:
Parere