Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 23 Febbraio 2004

Sentenza 29 gennaio 1996, n.49

Corte d’Appello Civile di Salerno. Sezioni Speciali Agrarie. Sentenza 29 gennaio 1996, n. 49.

(Orza; Guerrasio)

(omissis)

Motivi della decisione

(omissis)

Ciò premesso, la Corte osserva che il primo motivo di impugnazione effettivamente non ha pregio.

Ben vero, dalla documentazione già prodotta in primo grado dall’appellata risulta che i beni “de quibus”, già trasferiti in data 7 gennaio 1986 all’Istituto Interdiocesano per il Sostentamento del Clero (comprensivo anche dell’Abbazia Territoriale SS. Trinità di Cava dei Tirreni), su parere conforme del Presidente dell’Istituto in data 16 novembre 1989, n. prot. 18751/89, ai sensi dell’art. 29, comma quarto, della legge n. 222/85, furono ritrasferiti con decreto del legale rappresentante della menzionata Abbazia alla “Parrocchia di SS. Pietro e Paolo con sede in Dragonea di Vietri sul Mare (SA) Ente ecclesiastico civilmente riconosciuto con decreto del Ministro degli Interni in data 12 dicembre 1986, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (Supplemento) il 27 gennaio 1987 C.F. 80003830652”.

Ogni questione sulla “legitimatio ad causam” da parte dell’appellata Parrocchia nel presente giudizio costituisce, pertanto, un fuori di luogo.

Del pari infondato è il secondo motivo di impugnazione, concernente come sopra estensivamente riportato, la “legitimatio ad processum” del titolare della predetta Parrocchia, rinvenendosi, in atti, sia l’attestazione della Cancelleria commerciale del Tribunale di Salerno in data 28 ottobre 1982, secondo cui legale rappresentante p.t. della appellata Parrocchia è “P.D. Andrea Eugenio Gargiulo”, sia l’autorizzazione in data 3 dicembre 1991 a proporre giudizio, sia quella in data 25 ottobre 1995 a resistere nel presente grado di giudizio. Detta documentazione, come esattamente rilevato dalla appellata, può essere prodotta fino all’udienza di discussione, non ostandovi il disposto dell’art. 437 CPC.

In ogni caso (v. Cass S.U. 21 novembre, n. 6918, sub C) le autorizzazioni canoniche o governative, richieste affinché gli enti ecclesiastici possono stare in giudizio, sono rivolte esclusivamente ad assicurare esigenze di tutela degli enti medesimi, sicché la loro mancanza, integrando una nullità relativa, può essere fatta valere solo dall’ente interessato.

Con il terzo motivo di impugnazione, gli appellanti sostengono che il Tribunale è incorso in “erronea valutazione di circostanze essenziali ai fini della decisione”. Secondo gli appellati, infatti, i primi giudici, sul presupposto che la validità ed efficacia della scrittura privata stipulata il 10 gennaio 1979 fosse subordinata all’autorizzazione dell’Ordinario Diocesano e dell’autorità governativa, ai sensi dei cann. 1281 e 1295 del C.J.C., hanno ritenuto che la stessa fosse da considerarsi inefficace. Secondo gli appellanti, invece, il Tribunale, così facendo, è incorso “in error in indicando”, avendo omesso di considerare: a) che il codice di diritto Canonico è stato promulgato in data 25 gennaio 1983, con la Costituzione Apostolica “Sacrae Disciplinare Leges”, per cui non poteva applicarsi alla scrittura stipulata nel 1979, e quindi quattro anni prima; b) che all’epoca della stipula della predetta scrittura già vigeva il contratto di affitto, mentre la scrittura del 1979, costituente un “mero promulgamento” dell’originario affitto, non soggiaceva agli atti di straordinaria amministrazione necessitanti l’autorizzazione da parte dell’Ordinario, ai sensi dei canoni 1529 e ss. del C.J.C. del 1917; c) che, anche a volere, in via di ipotesi, ritenere che la scrittura privata del 10 gennaio 1979 rientrasse nell’ambito di quei contrasti che necessitavano di autorizzazione governativa, ai sensi della legge n. 848/29 o di autorizzazione dell’Ordinario, ai sensi dei cann. 1529 e ss. C.J.C. del 1917, occorre considerare quanto deciso dalla S.C. (Cass., 12 maggio 1993, n., 5418) sul punto: “Con le modifiche apportate al Concordato tra lo Stato e la Santa Sede, mediante l’accordo firmato a Roma il 18 febbraio 1984 e per effetto dell’art. 7, l. 23 marzo 1985, n. 121, di ratifica e di esecuzione, è stata soppressa ogni ingerenza dello Stato italiano nell’amministrazione dei beni appartenenti agli enti ecclesiastici, soggetta ormai esclusivamente ai controlli previsti dal diritto canonico, salva l’applicazione delle disposizioni della legge italiana sugli acquisti delle persone giuridiche (art. 17 delle norme approvate dalla Commissione paritetica con L. 20 maggio 1985 n. 206) e sono quindi venute meno, con effetto immediato, le disposizioni relative al controllo dello Stato sugli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione dei patrimoni beneficiati (ora soppressi, per effetto dell’art. 28, L. 20 maggio 1985, n. 222) già previsto dall’art. 30 del concordato del 1929 e degli artt. 12 e 14, legge 27 maggio 1929, 848 e 23 R.D. 2 dicembre 1929, 2262, con la conseguenza che anche la validità dei contratti in corso deve essere accertata secondo le nuove disposizioni (ius superveniens) quando, trattandosi di giudizio pendente, non si sia formato giudicato sul punto”.

In relazione, poi, alla pretesa mancanza di “licentia” da parte dell’Ordinario, gli appellanti assumono che nessuna prova a tal proposito è stata fornita e che la stessa avrebbe potuto essere dedotta soltanto dall’Ente ecclesiastico nel cui interesse il controllo avrebbe dovuto essere svolto (Cass. 6 agosto 1983, n. 5287, 12 maggio 1993, n. 5418), Ente che, nella specie, è l’istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero; che tale Istituto era perfettamente a conoscenza delle vicende relative all’affittanza “de qua”, in quanto il dante causa degli appellanti aveva trasmesso allo stesso con racc. A.R. n. 5837 del 28 ottobre 1987, copia della scrittura privata del 10 gennaio 1989, dichiarandosi inoltre disponibile a trattare sull’argomento, con salvezza di ogni suo diritto; che, come risulta dagli appellanti, l’Istituto Interdiocesano ricevuta copia della scrittura privata, con nota prot. 9/87 del 5 novembre 1987, chiese sulla vicenda chiarimenti alla Parrocchia SS. Pietro e Paolo di Dragonea che, con nota prot. 255/87 in pari data, ribadì l’autenticità della scrittura e che la stessa era stata stipulata essendo la Parrocchia nell’assoluta impossibilità di procedere con mezzi propri all’esecuzione delle opere di miglioramento del fabbricato rurale, opere che, ove non eseguite, avrebbero potuto causare la rovina dell’edificio; che la risposta della Parrocchia deve avere certamente soddisfatto l’Istituto, poiché questo mai ha agito per la declaratoria di nullità della scrittura stessa; che nel bilancio-rendiconto presentato dal Parroco p.t. dell’appellata, relativo al periodo gennaio 1986 giugno 1987, era espressamente evidenziato che per il fondo oggetto del giudizio il fittuario non corrispondeva alcunché avendo riattato a proprie spese la casa colonica “affare concluso dal medesimo predecessore”; che, conseguentemente il comportamento concludente dell’Istituto va considerato “come presupposto di legittimità della scrittura citata e comunque, in ogni caso, come ratifica della stessa”.

Ancora in relazione alla “licentia”, gli appellanti assumono che il Tribunale ha dato per scontato la mancanza della stessa, nonostante il discusso comportamento delle parti, ed opinionando che la stessa costituisse una condizione legale di efficacia del contratto, ha ritenuto che nella specie l’atto non era produttivo di effetti giuridici, perché sottoposto ad un requisito legale di efficacia; che il Tribunale ha omesso di considerare che la scrittura spiegava i suoi effetti tra le parti da oltre 12 anni; che nessuna prova della mancanza di autorizzazione esisteva agli atti e che l’onere di richiedere la “licentia” all’Autorità superiore incombeva alla parrocchia-concedente e non all’affittuario; che l’atteggiamento assunto, prima della Prebenda e successivamente dall’Istituto, sono stati tali da ingenerare negli appellanti la sicura convinzione che la citata scrittura avesse conseguito tutti i carismi della legalità; che, secondo Trib. di orvieto, 27 luglio 1991, “Il contratto di affitto di fondo rustico stipulato con scrittura privata dal Parroco p.t. di ente ex beneficiario della diocesi in costanza del già avvenuto trasferimento dei beni in proprietà dell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero, è nullo per essere stato sottoscritto da persone non legittimate, ma, avendo l’Istituto “per facta concludentia” (mancanza di contestazioni, accettazione del canone) dato volontaria esecuzione al contratto nullo, resta inibito allo stesso la possibilità di invocare in giudizio siffatta nullità anche ai sensi del canone 1281, par. I, del vigente diritto canonico”; che, considerando le vicende relative all’affittanza “de qua” si può concludere che le circostanze innanzi esposte integrino inequivocabilmente quella tacita adesione per facta concludentia di cui alla massima del Tribunale di Orvieto testé citata.

Ancora secondo gli appellanti, nella specie si è verificata la successione della parte concedente nel contratto di affitto, poiché, “ope legis”, la titolarietà del rapporto si è trasferita dalla Prebenda parrocchiale all’Istituto Interdiocesano e che, pertanto, eventuali vizi del contratto antecedenti a tale trasferimento potevano essere fatti valere solo dalla parte originaria e non da quella subentrante a cui era stato trasferito il rapporto nello stato di fatto e di diritto in cui il medesimo si trovata; che erroneamente il Tribunale ha dichiarato inefficace una scrittura vigente da oltre dodici anni, senza che in tale periodo vi sia mai stata alcuna contestazione; che il comportamento del dante causa degli appellanti (e quindi di questi ultimi) è incolpevole, solo che si consideri la condotta della Parrocchia la quale ha promosso l’azione di inefficacia della scrittura del 10 gennaio 1979, pur avendo dato origine a detta inefficacia essa soltanto, con la propria deliberata omissione di richiedere l’autorizzazione; con la conseguenza che all’appellata è precluso di avvalersi di una simile situazione, avendovi la stessa dato origine.

(omissis)

Tanto premesso, la Corte osserva che anche il complesso motivo in esame è privo di fondamento.

E’ ben vero che sulla qualificazione giuridica (“inefficacia”) attribuita alla sanzione che, secondo il Tribunale, colpisce la scrittura privata in data 10 gennaio 1979, non risulta proposta impugnazione da parte dell’appellata, ma è altrettanto vero che, invece, gli appellanti contestano quanto ritenuto dai primi giudici al riguardo, per cui è consentito a questa Corte di procedere anche “ex officio”, all’individuazione della esatta sanzione applicabile alla scrittura suddetta.

A parere della Corte, il Tribunale pur avendo esattamente individuato la normativa applicabile (normativa statuale e C.J.C.), non ha tratto le dovute conseguenze, per cui ben può questa Corte dichiarare che l’inosservanza della citata disciplina ha prodotto la nullità (più che la generica inefficacia) della scrittura in contestazione.

In riferimento al C.J.C. appare opportuno richiamare l’orientamento della S.C. (Cass. 7 novembre 1969 n. 3643, sub B), secondo cui, poiché l’art. 30 dell’allora vigente Concordato tra la Santa Sede e l’Italia dispone che l’amministrazione patrimoniale, ordinaria e straordinaria, dei beni appartenenti a qualsiasi Istituto ecclesiastico o associazione religiosa, deve avvenire “sotto la vigilanza ed il controllo della competente autorità della Chiesa, escluso ogni intervento da parte dello Stato italiano e senza obbligo di assoggettare a conversione i beni immobili”, va riconosciuta efficacia in Italia ai controlli esercitati secondo le norme canoniche le quali acquistano forza di legge nell’ordinamento italiano, in virtù del rinvio formale (nella specie, giudici in merito avevano ritenuto “nullo” un contratto di locazione ultranovennale di un immobile di proprietà del pontificio collegio maronita perché il procuratore dell’ente non era stato autorizzato all’atto, “eccedente l’ordinaria amministrazione”, dalla competente autorità ecclesiastica. Il S.C., al quale era stata denunciata tale decisione, assumendosi che i controlli canonici sugli atti degli enti ecclesiastici non avrebbero rilevanza nell’ordinamento italiano, rigetta la censura, enunciando il principio che precede).

Nello stesso senso, Cass, 20 giugno 1966, n. 1590, secondo cui il contratto con il quale il parroco acquisti un modico quantitativo di ceri ed accessori destinati al normale esercizio del culto è da considerarsi un tipico atto di ordinaria amministrazione, non soggetto – come tale – ad alcun preventivo controllo o autorizzazione neppure da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Soltanto per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione il canone 1527 C.I.C. richiede, comminandone in mancanza la nullità, l’autorizzazione dell’Ordinario del luogo. Per atti eccedenti l’ordinaria amministrazione si intendono quelli i cui effetti incidono direttamente o indirettamente sul patrimonio, alterandone la consistenza.

Per quanto concerne, poi, l’autorizzazione governativa, richiesta dall’art. 12, legge 27 maggio 1929, n. 848, in riferimento agli atti e contratti eccedenti la ordinaria amministrazione (elencati nel successivo art. 13), ivi comprese le “le locazioni ultranovennali di immobili”, la giurisprudenza della S.C. (Cass. 3 aprile 1941; Div. Eccl., 1942, p. 32; 11 maggio 1943, ivi, 1943, p. 146; Giust. civ. I, p. 403; Cass. 9 febbraio 1956, n. 392; 3 maggio 1956, n. 1383; 20 aprile 1957, n. 1365) è concorde nel ritenere che gli atti che ne siano privi sono nulli (v. da ultimo Cass. 7 dicembre 1979, n. 6372, che ha ritenuto necessaria l’autorizzazione governativa “de qua” anche per i contratti preliminari di vendita”.

Tanto assodato, la Corte osserva che il richiamo operato dagli appellanti alla sentenza della S.C. 12 maggio 1993, n. 5418, secondo cui “anche la validità dei contratti in corso deve essere accertata secondo le nuove disposizioni (ius superveniens), quando trattandosi di giudizio pendente, non si sia formato giudicato sul punto”, oltre che cozzare contro il disposto dell’art. 11 delle Preleggi a tenore del quale “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”), come esattamente evidenziato dall’appellata, in ogni caso non opera alcuna sanatoria nei confronti della mancata autorizzazione dell’ordinario diocesano, contemplando la richiamata sentenza n. 5418/1993 esclusivamente gli effetti del venir meno del controllo dello Stato sugli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, in conseguenza dell’accordo firmato a Roma il 18 febbraio 1984 e per effetto dell’art. 7, legge 23 marzo 1985, n. 121, di ratifica e di esecuzione.

é errato, poi, l’assunto degli appellanti, secondo cui il C.J.C. è stato promulgato in data 25 gennaio 1983, con la Costituzione Apostolica “Sacrae Disciplinae Leges”, per cui non poteva applicarsi alla scrittura stipulata nel 1979 e quindi quattro anni prima, posto che, come innanzi puntualizzato (v. Cass. 20 giugno 1966n, n. 1590) per tale tipo di atto era operante il canone 1527 del previgente C.J.C.

Ugualmente privo di pregio è l’assunto degli appellanti, secondo cui, poiché all’epoca della stipula della predetta scrittura già vigeva il contratto di affitto (risalente a prima dell’annata agraria ‘39-’40) la scrittura del 1979, costituendo un “mero prolungamento” dell’originario affitto, non soggiaceva agli atti di straordinaria amministrazione necessitanti l’autorizzazione da parte dell’Ordinario, ai sensi dei canoni 1529 e ss. del C.J.C. del 1917. Ben vero, come innanzi riportato, le parti stabilirono una durata nuova del contratto (per una durata di circa 64 anni) con un nuovo canone annuo di L. 130.000, fino a totale scomputo della somma di L. 8.350.000, elementi questi più che sufficienti per far ravvisare nella scrittura del 1979 una novazione oggettiva (modificazione dell’oggetto del contratto di affitto accompagnata da “animus novandi”), peraltro nulla, per le ragioni suesposte, con la conseguenza (già evidenziata dal Tribunale, ancorché sotto il profilo della generica inefficacia) che, essendo nulla la nuova obbligazione, la precedente non si è estinta (conf. Cass. 5 gennaio 1966, n. 115; 3 ottobre 1959, n. 2861).

Del pari infondata è la pretesa degli appellanti, secondo cui l’appellata non ha fornito la prova della mancanza della “licentia” da parte dell’Ordinario diocesano. Ben vero, come innanzi puntualizzato, la nullità della scrittura del 1979 non scaturisce soltanto dalla detta mancanza, ma anche da quella della prescritta autorizzazione governativa (artt. 12 e 13, legge n. 848/1929), per cui ogni discussione al riguardo è del tutto inconferente.

Tuttavia, ad ogni buon fine, detta mancanza risulta chiaramente dalla scrittura del 1979, posto che nella stessa la “licentia” non è richiamata.

Non senza considerare che dalla nota n. 7.87-187, inviata dall’Istituto Interdiocesano al dante causa degli appellanti e da questi ultimi prodotta, contenente l’invito a pagare il canone di affitto direttamente all’Istituto a partire dal 1º gennaio 1987, implicitamente emerge l’inesistenza di ogni carteggio o convenzione di epoca posteriore al contratto di affitto in corso, risultante quest’ultimo ad epoca anteriore al 1939-1940.

Del pari irrilevante è l’assunto degli appellanti secondo cui la mancanza di “licentia” poteva essere dedotta soltanto dall’Istituto Interdiocesano per il sostentamento del Clero, posto che, come innanzi puntualizzato, la nullità della scrittura del 1979 non deriva soltanto dalla mancanza di “licentia”, ma anche dalla mancanza di autorizzazione governativa. In ogni caso l’assunto è inesatto, in quanto essendo parte in causa la Parrocchia appellata, questa, a mezzo del suo titolare e non certo dell’Istituto Interdiocesano, estraneo al processo, doveva e poteva far valere la mancanza di “licentia”.

Ugualmente inconsistente è il preteso carteggio che, a dire degli appellanti, sarebbe intercorso fra il loro dante causa e l’Istituto nel 1987, sia perché, come ripetutamente evidenziato, la scrittura del 1979 è affetta da duplice nullità, sia perché detto carteggio non risulta provato. Lo stesso dicasi per il preteso bilancio gennaio 1986-giugno 1987.

Né rilevanza alcuna può essere attribuita alla condotta della Prebenda, prima e dell’Istituto, poi, in riferimento alla mancanza di “licentia”, posto che il titolare della Prebenda, con la propria condotta omissiva (infatti non incassava alcuna somma a titolo di canone) certamente non poteva sostituire la mancanza di un’autorizzazione scritta proveniente dall’Ordinario diocesano, richiesta “ad substantiam”; ugualmente l’Istituto (il quale solo nel 1987 ebbe conoscenza della scrittura del 1979, perché inviatagli con lettera del 20 ottobre 1987, in risposta alla nota dell’istituto n. 7/67-187 innanzi menzionata) non ricevendo il canone, perché non inviatogli per “deliberata voluntas” dal dante causa degli appellanti, certamente con la sua condotta non sopperì alla mancanza di autorizzazione dell’Ordinario dell’epoca.

In ogni caso, anche quanto precede non ha alcuna rilevanza ai fini del decidere, duplice essendo la nullità della scrittura del 1979.

La fattispecie decisa dal Tribunale di Orvieto (contratto di affitto di fondo rustico stipulato con scrittura privata dal Parroco p.t. di ente ex beneficiario della diocesi in costanza del già avvenuto trasferimento dei beni in proprietà dell’Istituto diocesano, con mancanza di contestazione ed accettazione del canone da parte di quest’ultimo) è chiaramente diversa da quella “de qua” risalente al 1979. Non senza considerare che nel caso in esame l’Istituto, con la nota n. 7/87 richiese subito il pagamento del canone; che quest’ultimo non gli fu inviato dal dante causa degli appellanti; che, ripetesi, essendo duplice la nullità della scrittura del ‘79, la condotta dell’Istituto p ininfluente rispetto alla mancanza di autorizzazione governativa.

Non si comprende, poi, per quale ragione, essendo l’Istituto Interdiocesano succeduto alla Prebenda ed essendo la Parrocchia appellata succeduta a quest’ultima, secondo gli appellati, “eventuali vizi del contratto antecedenti a tale trasferimento potevano esser fatti valere solo dalla parte originaria e non da quella subentrante a cui era stato trasferito il rapporto nello stato di fatto e di diritto in cui il medesimo si trovava”., posto che, come innanzi evidenziato, l’appellata, quale titolare del beneficio, è perfettamente fornita di “legitimatio ad causam” a far accertare il reale stato di fatto e di diritto.

Né più appagante si appalesa l’affermazione degli appellanti, secondo cui “erroneamente il Tribunale ha dichiarato inefficace una scrittura vigente da oltre dieci anni”, posto che, “quod nullum est nullum producit effectum” e, pertanto, il titolare del beneficio, come sopra evidenziato, è perfettamente legittimato a farla dichiarare, tanto più che l’azione, in linea di principio, è imprescrittibile (art. 1422, C.C.), oltre che insanabile (non vertendosi nella specie in tema di esecuzione volontaria di disposizioni testamentarie nulle: art. 590, C.C.; o di donazioni nulla: art. 799, C.C.).

Tali essendo gli effetti sostanziali della nullità, alcuna rilevanza può essere attribuita alla regola, invocata dagli appellanti, secondo cui la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, trattandosi di “regula iuris” di portata esclusivamente processuale (art. 157, ultimo comma, CPC).

(omissis)